Alfieri in dialetto. Gli italiani? Un “ferculum insulsum”

minestra

 

Tutti almeno una volta nella vita si sono dovuti confrontare con l’autore della Vita scritta da esso. Credo però siano ben pochi coloro che non siano usciti tramortiti dall’onda dell’eloquenza alfieriana. Per tutti costoro riuscirà forse gradito (?) leggere un Alfieri meno paludato del solito. Non si sa bene per quali ragioni, ma ogni tanto il Vate dismetteva la Toga Virile della Tragedia e si concedeva una qualche pausa “dialettale”, che   “potrebbe” (ma con qualche lieve dubbio) risultare maggiormente digeribile (?) un po’ a tutti.

 

Riportiamo qui un rapido esempio. Si tratta di un sonetto in dialetto piemontese, vergato a Roma nell’aprile del 1783, in cui il Vate dimostra di rendersi conto perfettamente del fatto che le sue tragedie sono “dure” da masticare e da digerire. Egli però non pare prendersela tanto con se stesso, quanto con gli italiani, accusati di non credere ch’egli fosse poi quell’ “uomo di ferro” che sarebbe voluto sembrare nelle Tragedie.

 

Cosicché  nel sonetto in dialetto dal titolo  Sonet d’un Artesan. In difesa d’l stil d’soe Tragedie [“Sonetto di un artigiano. In difesa dello stile delle sue tragedie”], Il Vate sparava a zero sul popolo tutto d’italica progenie.  Se Egli non è di ferro, sentenzia “tut afarà”, furibondo come una belva il Poeta,  gli italiani sono anche peggio, perché, a suo dire, essi sono fatti, per la maggior parte, di “potìa”, parola che, tradotta in volgare italico,  significa, più o meno,  “poltiglia” molliccia e sgradevole,  “liquida pappa fatta di farina”;  in latino “ferculum insulsum”, piatto “insulso”, ossia senza sapore,  insipido. Una riprova che, ad Alfieri, d’esser “popular” proprio non gliene importava un classico fico di nulla.

 

Ma veniamo al sonetto:

 

Son dur, lo seu, son dur,  ma i parlo a gent

Ch’han l’anima tant mola e deslavà

Ch’a lè pa da stupì,  s’d’costa nià

I piaso appena appena a l’un per cent.

 

Tutti s’amparo l Metastasio a ment,

E a n’han l’orie,  ’l coeur, e j eui fodrà:

I’ Eroi ai veulu vede, ma castrà,

’L tragic a lo veulu, ma impotent.

 

Pure j’ m dugn nen pr’ vint, fin ch’as decida

S’as dev tronè sul palc, o solfegiè,

Strassè ’l coeur o gatiè marlait l’oria.

 

Già ch’ant cost mond l’un d’ l’autr bsogna ch’as rida,

I’ eu un me dubiet, ch’i veui ben ben rumiè,

S’l’è mi ch’ son d’fer, o j’ Italian d’potia.

 

Sarà per via del fatto che l’inesorabile legge del contrappasso aveva colpito l’Alfieri, ma Egli risulta duro sia in italiano sia in dialetto : “Così come fosti dur in mio ‘latino’, tu  anco ’l sarai in tuo natìo idioma”, avrebbe potuto  sentenziare inappellabile il Divin Poeta. Comunque sia, servendoci di tutti gli strumenti a nostra disposizione, proviamo a districarci:

 

“Sono duro, purtroppo lo so, son proprio duro; ma parlo con gente che ha un animo talmente molle e slavato che non mi stupisco affatto se piaccio soltanto all’un per cento di questa covata”.

 

“Eccoli tutti lì,  a impararsi a memoria il Metastasio, con gli occhi foderati  dei  suoi versi; questi qua gli “eroi” vogliono sì vederli, ma  “castrati”; e il “tragico” lo vogliono altrettanto, ma  “impotente”.

 

“Ma io mica mi dò per vinto, finché non ci si deciderà una volta per sempre se sul palcoscenico si vuole uno che tuona o semplicemente uno che solfeggia; se la tragedia deve straziare i cuori, oppure solleticare l’orecchio con una semplice grattatina”.

 

“E se è vero che a ’sto mondo bisogna pure prendersi gioco l’uno dell’altro, io un dubbio, sia pur debole, ce l’ho; e ci vado pure ruminando sopra: Se è il sottoscritto che è fatto di ferro, o se sono invece gli italiani  che son fatti d’una poltiglia soffice e molliccia”.

 

Non c’è male. E  quasi certamente, dopo questa “performance” in “dialèt piemontèis”, il Vate avrà sicuramente incrementato, allora come oggidì,  lo stuolo  dei suoi “followers” sulla Penisola, e nelle isole ad essa adiacenti. Ma, d’altro canto, Vittorio Alfieri avrà sicuramente ponderato nel suo “dialèt” che

 

“L’è mei dè, ch’arsèive”: meglio darle che prenderle.

 

 

Fonti:

 

V. Alfieri, “Sonet d’un Artesan In difesa d’l stil d’soe Tragedie”, in C. Gazzera, “Trattato della dignità ed altri scritti …”, in Poligrafo. Giornale di Scienze, Lettere ed Arti, a cura del Nob. Cavaliere Giovanni Orti, Verona, Tipografia Poligrafica di G. Antonelli, 1840, p. 233.

 

Sul proverbio, cfr. M. Pipino, Gramatica [sic] piemontese, Torino, Nella Reale Stamperia, 1783, p. 162, alla voce Danno, V. Pregiudizio. Dare.

 

Sul termine “afarà”, cfr. il  Disionari piemontèis, italian, latin e fransèis conpöst dal preive Casimiro Zalli, Carmagnola, Da la Stamparia [sic] d’ Peder Barbiè, 1815, Vol. I,  p. 13: “ Afarà, infiammato, acceso, infuocato, ardens, inflammatus, accensus, enflammé, brûlant, ardent”.

 

Su “potìa”, cfr. il  Dizionario piemontese, italiano, latino e francese, compilato dal Sac. Casimiro Zalli, Carmagnola, dalla Tipografia di Pietro Barbiè, 1830, Vol. II, p. 229: “Potìa. Voce popolare: minestra liquida fatta d’acqua, e di farina e più comunemente di meliga; polta, poltiglia, pappa, farinata, puls, pulticula, brouillie de farine de maïs. Potìa, dicesi per similitudine d’ogni liquido imbrattato o intriso, V. Pociacri, potri, intingolo sporco, mal apparecchiato, mal condito, spiacevole, guazzo, pappolata, cibus liquidior, ferculum insulsum, inconditum, mauvais ragoût, gachis, gargotage.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.