Amori sconvolgenti e scapigliati: “Senso”, di Camillo Boito

scapigliati

 

Camillo Boito non è più ( se mai lo è stato in altri tempi) al top delle classifiche nazionali; ma fu uno scrittore di vaglia che ha lasciato una traccia profonda negli studi artistici e anche, perché no,  nella letteratura italiana. Tra il  1883 e il 1899 Camillo pubblico un libro di novelle, tra le quali ne spicca una in particolare, Senso. Da quel libro ormai antico, Luchino Visconti ne trasse un film che ebbe anche un certo successo di pubblico. Ma qui non vogliamo seguire la trama di un film, ma analizzare la novella da cui esso fu tratto.

 

Non è qui neppure il caso di tracciare la traiettoria di Camillo Boito nell’ambito dell’Avanguardia scapigliata, anche se si può agilmente sottolineare come l’avversione palese ai costumi borghesi costituisca un dato di fatto nella novella di Camillo Boito, meno noto forse del fratello più giovane, Arrigo, ma altrettanto ben inserito nella prima Avanguardia italiana. La “disarmonia” con il “pattern” borghese si rileva da certe “audacie” di contenuto, come per esempio nella descrizione della passione della contessa, la quale non si perita nel suo “scartafaccio” tenuto gelosamente segreto, di affidargli argomenti che avrebbero fatto arrossire le signore dei salotti bene della Milano di fine Ottocento ( e oltre), come quando, ad esempio, l’amante di lei, il tenente Remigio Ruz, in un tumultuoso quanto scomposto assalto “scapigliato”,   le “mordeva la spalla” fino a farla sanguinare.

 

L’ “eccezionalità” della novella sta tutta in codesta “incontinenza” rispetto ai canoni borghesi, del resto un “topos” della critica degli Scapigliati. La stessa trama, in sé, segue percorsi “eversivi”, che sicuramente non dovettero impressionare favorevolmente il lettore borghese, ormai assuefatto alla scrittura alquanto “composta” di Manzoni e dei suoi epigoni. Insomma, come andremo fra poco a vedere, Camillo Boito fu uno scrittore tutto sommato scapigliatamente “anarchico”, nelle cui opere letterarie serpeggiano passioni forti, nonché  scarsa “reticenza” da parte dei personaggi altolocati  a rivelare fatti intimi. Il marito, nel diario della contessa, fa davvero un figurone.

 

La contessa aveva sposato un uomo di oltre sessant’anni, appena sopportato:

 

“Portava i suoi sessantadue anni e l’ampia pancia” .

 

“Portava i suoi sessantadue anni e l’ampia pancia con apparente energia; si tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. Del rimanente, buon uomo, pieno, alla sua maniera, di attenzioni per la giovine sposa, inclinato alla crapula, bestemmiatore all’occorrenza, fumatore instancabile, aristocratico burbanzoso, violento verso i timidi e pauroso in faccia ai violenti, raccontatore vivace di storielle lubriche, che ripeteva a ogni tratto, né avaro, né scialacquatore”.

 

Arrivata a Venezia in viaggio di nozze, la contessa è fulminata da un giovanotto:

“Era veramente bellissimo […] Forte, bello, perverso, vile: mi piacque”.

 

“Era veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone e di Alcide. Bianco e roseo, con i capelli biondi ricciuti, il mento privo di barba, le orecchie tanto minute che sembravano quelle di una fanciulla, gli occhi grandi e inquieti di colore celeste: in tutto il volto una espressione ora dolce, ora violenta, ma di una violenza o dolcezza mitigata dai segni di un’ironia continua, quasi crudele. La testa piantata superbamente sul collo robusto; le spalle non erano quadre e massiccie, ma scendevano giù con grazia; il corpo muscoloso, stretto nella divisa bianca dell’ufficiale austriaco”.

 

Lei, la contessa, l’andava a trovare di nascosto:

 

“Il luogo dei nostri ritrovi”

 

“Coperta il viso d’un denso velo nero, andavo da lui in una casa accanto alla caserma di San Sepolcro, incontrando nell’ombra fitta delle scale tortuose ufficiali e soldati, che non mi lasciavano passare senza porgermi un segno della loro galanteria. In quella casa, dove il sole non batteva mai, il tanfo della umidità si univa al puzzo nauseabondo del fumo di tabacco, stagnante nelle camere non ventilate”.

 

“Il mio ufficiale di sedici anni addietro”.

 

“Adone”, però, scoppiata la guerra,  ha un disperato bisogno di soldi per corrompere i medici e darsi “inabile” al servizio sul campo di battaglia, e, naturalmente, li chiede alla contessa, che tuttavia postula, a sua volta, qualche piccola “garanzia”:

“Mi amerai sempre?”

“Mi amerai sempre, mi sarai sempre fedele, non guarderai nessun’altra donna? Me lo giuri?. Sì, sì, te lo giuro; ma l’ora passa, e i duemilacinquecento fiorini mi occorrono.- Subito? . Sicuro, devo portarli con me. Ma nello scrignetto credo di avere appena una cinquantina di napoleoni d’oro. Tengo sempre poco denaro. Insomma, trovali”.

 

Intanto il tenente Remigio Ruz,, alias “Alcide”, dopo la partenza coi soldi in saccoccia, si tiene buona la contessa, inviandole lettere del seguente tenore:

 

“M’hai salvata la vita”

 

“Livia adorata, M’hai salvato la vita. Ho venduto l’astuccio a un Salomone qualunque, per poco, a dire il vero, ma in queste circostanze di trambusti e di spaventi non si poteva esigere di più, duemila fiorini, i quali sono bastati a riempire la vorace pancia dei medici”.

 

Ma la contessa patisce tremendamente la lontananza, e decide di mettersi in viaggio in carrozza per Verona; e, finalmente, dopo un viaggio irto d’ostacoli, giunge in città, e va a casa di Remigio:

 

“Sta qui il tenente Remigio Ruz?”. Entra nella stanza, tutta consolata,

 

“Ma qualcuno lì d’appresso rideva”.

 

“Ma qualcuno lì d’appresso rideva rideva: era un riso di donna stridulo, sguaiato, sgangherato, che a poco a poco mi destò. Ascoltai, mi rizzai e, trattenendo il respiro, m’avvicinai ad un uscio spalancato, dal quale si vedeva in una vasta camera illuminata. Io stavo nell’ombra, né mi si poteva scorgere. Oh, perché in quel punto Dio non mi accecò! V’era una tavola, co’ resti d’una cena; v’era, dietro alla tavola, un largo canapè verde su cui Remigio, sdraiato, faceva per gioco il solletico sotto l’ascella ad una ragazza, la quale sghignazzava, si sbellicava, si dimenava, si contorceva tutta, sforzandosi invano di svincolarsi dalle mani dell’uomo, che le dava baci sulle braccia, sul collo, sulla nuca, dove capitava”-

 

Stralunata,  la contessa si riversa in strada in preda ad un sol unico sentimento: “Il pensiero della vendetta”, che non l’abbandonerà più. Entra in una locanda dove alcuni ufficiali stanno parlando ad alta voce, menzionando proprio il tenente Remigio Ruz e una “biondona”, anzichenò. Poi, il discorso tra gli ufficiali scivola leggero anche su “chi” mantiene “Adone-Alcide”, e uno di essi esclama:

 

“Una vecchia bavosa”.

 

Allora, “Le vampe”.

 

“Le vampe, che mi salivano al capo, m’obbligarono a togliere del tutto il velo dalla faccia; bruciavo: chiamai perché mi portassero dell’acqua”.

 

Ricolma d’astio e di sete di vendetta, la contessa va a parlare con il generale Hauptmann, che conosceva suo marito, e, senza farsi alcuno scrupolo di dover giocoforza rivelare il suo tradimento nel confronti del tapino,  gli consegna una lettera di Remigio, in cui si illustra come e qualmente egli si fosse finto malato, corrompendo altresì i medici militari: pertanto egli era soltanto un miserabile “disertore”. Il generale comprende al volo la situazione, e, saggiamente,  invita la contessa a non insistere nella sua denuncia, perché la delazione è un’azione bassa e abominevole. Ma la contessa insiste:

 

“Generale, compia il suo dovere!”.

 

“Signora, ci pensi: la delazione è un’infamia e l’opera sua è un assassinio.  Signor generale, esclamai, alzando il viso e guardandolo altera, compia il suo dovere”.

 

Il giorno seguente, qualcuno le porta un biglietto:

 

“Domattina alle quattro e mezzo”

 

“Domattina alle quattro e mezzo precise verranno fucilati nel secondo cortile di Castel San Pietro il tenente Remigio Ruz ed il medico del suo reggimento. Questo foglio servirà per assistere alla esecuzione. Il sottoscritto chiede scusa alla signora contessa di non poterle offrire anche lo spettacolo della fucilazione degli altri medici, i quali, per ragioni che qui è inutile riferire, vennero rimandati ad un altro Consiglio di guerra. Generale Hauptmann”.

 

 

La contessa, prima di lasciare la città, vuole però assistere all’esecuzione. La scena le provoca sentimenti contrastanti, addirittura, satanicamente, secondo moduli scapigliati,  “voluttuosi”:

 

“Non so che cosa seguisse; leggevano, credo; poi udii un gran frastuono, e vidi il giovane bruno cadere, e nello stesso punto mi accorsi che Remigio era nudo fino alla cintura, e quelle braccia, quelle spalle, quel collo, tutte quelle membra, che avevo tanto amato, m’abbagliarono. Mi volò nella fantasia l’immagine del mio amante, quando a Venezia, nella Sirena, pieno di ardore e di gioia, m’aveva stretta per la prima volta fra le sue braccia d’acciaio. Un secondo frastuono mi scosse: sul torace ancora palpitante e bianco più del marmo s’era slanciata una donna bionda, cui schizzavano addosso i zampilli di sangue. Alla vista di quella femmina turpe si ridestò in me tutto lo sdegno, e con lo sdegno la dignità e la forza. Avevo la coscienza del mio diritto, m’avviai per uscire, tranquilla nell’orgoglio di un difficile dovere compiuto”.

 

 

Infine, le si avvicina un ufficiale boemo, che le solleva il velo e le sputa in faccia:

 

“Alla soglia del cancello mi sentii strappare il velo dal volto; mi girai e vidi innanzi a me il grugno sporco dell’ufficiale Boemo. Cavò dalla bocca enorme il cannello della sua pipa, e, avvicinando al mio viso il suo mustacchio, mi sputò sulla guancia”.

 

Passano gli anni, ma Senso di Camillo Boito esercita tuttora un certo qual fascino “tenebroso”, perché la novella è stata pensata e costruita molto bene. Forse è  il momento di rivisitare, con qualche profitto,  anche uno dei nostri classici fin troppo dimenticato.

 

Fonti:

 

Camillo Boito, Senso, Milano, Fratelli Treves, 1899, p. 252, pp. 255-256, 261, 269, 274, 277, 287, pp. 288-289, 291, 293, 295, 299, 300, 302.

La novella era preceduta da altri titoli  molto accattivanti: Vade retro, Satana, Macchia grigia, Il collare di Budda, Santuario, Quattr’ore al Lido, Meno di un giorno, e, infine, la molto “scapigliata” novella orrorosa dal titolo Il demonio muto, di cui si riporta qui il finale: “Sono alzato e ti scrivo dal tavolino; ma sento dentro di me come un presentimento felice. Ho chiamato per questa sera il mio buon curato. Mi confesserà e mi darà l’olio santo” (p. 245).

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.