Bonagiunta Orbicciani e un punto “nodale” di Purg. XXIV

Per spiegare la “poetica” dantesca (giovanile e perdurante nella maturità)  interconnessa con quella di Guido Guinizzelli, è giocoforza tentare di sbrogliare quel “nodo”  (il nodo/ che ’l Notaro e Guittone e me ritenne/di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! [ Purg. XXIV, vv. 55-57]) che Bonagiunta Orbicciani s’annodò alla gola con l’abilità d’un marinaio di lungo corso.

A domanda dell’Orbicciani, Dante rispose:

E io a lui: ‘I’ mi son un che, quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando’.

“Io, dice Dante, parlo d’amore secondo l’impeto dell’ispirazione, esattamente come ho fatto con Donne ch’avete intelletto d’amore, allorché la mia lingua si sciolse, parlando quasi da sola”. La risposta di Dante parve esaustiva a Bonagiunta, il quale, “quasi contentato, si tacette”.

Ma la risposta di Dante all’Orbicciani fu perfidamente “monca”, e tipica, cioè,  di chi vuol levarsi  dai piedi un personaggio ritenuto non all’altezza di intendere appieno tutto ciò che ne sarebbe seguito: non era  costui pur sempre tra gli extollentes  “ignorantiae sectatores Guidonem Aretinum”, altrimenti detto  fra Guittone? Dal canto suo , le proprie credenziali d’ “ignoranza” l’Orbicciani le aveva declinate tutte a Dante, allorché aveva osato accusare Guinizzelli d’eccessiva “sottiglianza”, in quanto  uso e aduso a

“traier canson in forsa di scrittura”.

A parte che Guinizzelli gli aveva argutamente risposto che “volan per aire augelli di stran’ guise” [Foll’è chi crede sol veder lo vero]: ossia,  che ci son alcuni “augelli” volanti più in alto di altri (fuor di metafora: la poesia e “una”, ma ci sono poeti e poeti);  “anche” Dante s’accontentò, in quel frangente, di cantare l’unica cosa che probabilmente Buonagiunta, secondo il Divin Poeta, non solo fosse stato in grado di recepire, ma anche l’unica che gli si attagliava “in” quel loco e “in” quel momento:  ossia che il poeta canta per “ispirazione”.

E, infatti, Buonagiunta s’acqueta subito, contento, in cuor suo, d’aver capito tutto.

Invece non aveva capito niente, perché il secondo “groppo”, quello che Dante (per pura pietas christiana) non si peritò d’annodare lì lì sul momento attorno al collo dell’ormai vetusto Orbicciani, era quello più rilevante: ossia l’importanza fondamentale  della cultura  “nel” poeta. L’ eccezionale cultura, per esempio,  che Dante riscontrava nel saggio (= sapiente) Guinizzelli, ma anche nel “coro” degli amici più stretti, da Guido Cavalcanti a Cino da Pistoia, dottissimo “amicus eius”, il quale aveva scritto che

“scientia nobilitat hominem”.

“Lex Providendum an hodie habeat locum. Quod meritum scienti[a]e nobilitat hominem. Ad hoc facit quod Ulpianus iuriconsultus vocatur nobilis non propter genus: sed propter abundantiam meriti scientiae” (1).

Persino Ulpiano “iuriconsultus”, diceva Cino in perfetto accordo con tutto il “coro d’amici” di Dante, notoriamente selezionato per cultura,  aveva decretato che la nobiltà non è una questione di “famiglia”, ma un qualcosa che viene per “sovrabbondanza” di scienza. La sottolineatura di Cino riguardo al tema della “nobiltà” piacque molto a Dante: secondo Gorni, Dante, alla lunga, operò con Cino una sorta di “effetto di sostituzione”, facendone “il” suo “nuovo” amico del “cor”, dopo la  rottura con Cavalcanti. Di qui

“la scelta di Cino in qualità di nuovo ‘maggiore amico’ di Dante, che per l’occasione si denomina, nel De Vulgari, ‘amicus eius’” ( 2 ).

La statura intellettuale di Guinizzelli, al quale Dante guardava come saggio e padre del proprio “nuovo” stile,  emerge  in tutta la sua grandezza nello studio di Guido Zaccagnini, che ne inserisce la figura dentro il clima culturalmente vivificante della Bologna dei tempi suoi:

“Gli anni in cui si formò, chiosava Zaccagnini, l’educazione scientifica e letteraria del Guinizzelli, furono gli anni più belli dello Studio bolognese. Raimondo d’Avignone vi aveva tradotto in versi il trattato di chirurgia di Ruggero da Parma. Vi leggeva logica e fisica Lapo da Firenze, e il cremonese Moneta vi leggeva in artibus nel 1230 ed era per fama e dottrina celeberrimo sia come filosofo laico, sia come teologo […] V’insegnavano i più celebrati giuristi, come Accursio, Odofredo, Francesco d’Accursio, Martino da Fano”. Da  tutto codesto fermento di cultura si “sprigionò la fiamma che gli illuminò dinanzi la via e gli fece scoprire nuovi orizzonti poetici e filosofici”  ( 3).

Ne spicca di qui una figura di poeta  che asserisce l’assoluta necessità, “anche” per il trovatore,  di possedere strumenti culturali adeguati:

Se la gran conoscenza/

dicesse om per ventura/

che vien più da natura,/

direbbe fallamento/

ché nessuna scienza/

senz’ammaestratura/

non saglie a quella altura/

per proprio sentimento …/

E vediam nel savere/

rade fiate salir in scienza/

colui che crede prima averla seco/

che solo ancora di lei faccia punto (4 ).

Ma cos’era  che tanto attraeva Dante del “dittato” del “dotto” Guinizzelli?  Il “nuovo” stile, per Dante, costituiva la sintesi  di “natura” (ossia di capacità innata di aderire con immediatezza all’ispirazione), e  di “cultura”, come quella che rifulgeva nel suo modello bolognese; ma anche in Cavalcanti,  ammiratissimo dal giovane discepolo per la sua sapienza filosofica, ma tuttavia agli antipodi, stilisticamente parlando,  di Guinizzelli.

L’armonia del verso guinizelliano era  ciò che più attraeva, quasi per magia, Dante il giovane: non la durezza del ragionare logico-filosofico di Cavalcanti, ma l’euritmia del verso, la dolcezza dello stile, lieve, leggero, e pur così tecnico nelle forme  e nel lessico del Guinizzelli, che Contini definisce, appunto,  “maestro tonale” di Dante, “patrono dell’ ‘uso moderno’; e ‘padre’, ai migliori di Dante (l’altro Guido, Cino)” (5 ).

Maria Luisa Ardizzone descrive a sua volta Guinizzelli  quasi come un “alter ego” di Cavalcanti, essendo egli fine conoscitore di retorica e filosofia, inserendolo  a pieno titolo  nelle discussioni scientifiche e filosofiche dal neoplatonismo ad Aristotele ( 6).

Lo stile “dolce e lieve” costituisce anche il “la” di Donne ch’avete, richiamata da Bonagiunta.

In Donne ch’avete, scriveva Mario Fubini,

“abbiamo il senso di una grande limpidità, chiarezza […] nessuna ricercatezza: se c’è qualcosa di ricercato è la semplicità: è la stessa poetica di Donne ch’avete”. Così, mentre Cavalcanti usa accenti “fortemente rilevati”, “Dante ammorbidisce, semplifica”, guardando al Mastro Guinizzelli. Nei versi  ‘da cielo in terra a miracol mostrare/mostrasi sì piacente a chi la mira’, “Dante rinnova in forma leggera e appena avvertibile  un artificio della poesia provenzale, quello di unire le stanze l’una all’alta ripetendo all’inizio della stanza seguente l’ultima parola della precedente, artificio che era stato già ripreso dal Guinizzelli nella sua famosa canzone (“ come calore in clarità de foco/ Foco d’amore in gentil core s’ aprende)” ( 7).

Se  Dante, nella sua risposta sbrigativa all’Orbicciani,  si soffermò “solo”  sul  primo “nodo” del problema, glissando sul secondo “nodo”, ossia su ciò  che il dotto e saggio Guinizzelli aveva espressamente statuito (non si “saglie” ad “altura” veruna senza una “gran conoscenza”), è perché esso non era un “nodo”, ma un “groppo” non dissolubile, neppure con la spada ben affilata usata da Alessandro il Grande a Gordio, essendo l’Orbicciani  “irrecuperabile” al nuovo stil: all’altezza (temporale) di Purg. XXIV, Bonagiunta era infatti ormai consegnato, e per sempre, agli “archivi” della poesia d’Amor. Purtroppo per lui,

Honesta morte defungit Bonagiunta Orbicciani Deluccha!

 

Note

1)Cynus Super Codice et Dige. Lectura Domini Cyni  De Pistorio Legum Doctoris Praestantissimi …, Vincentius De Portonariis, 1528,  Fo. XLIII. Providendum.

2) Guglielmo Gorni, Dante prima della Commedia, Cadmo, 2001, p. 142.

3)Guido Zaccagnini, “Guido Guinizzelli e le origini bolognesi del ‘Dolce Stil Novo’”, in Studi Danteschi a cura della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna, Bologna, Zanichelli Editore, MCMXXI, p. 30.

4) Ivi, p. 29.

5)Gianfranco Contini, “Dante come personaggio-poeta”, in Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1970,  p. 58.

6)Maria Luisa Ardizzone, “Guido Guinizzelli’s ‘Al cor gentil’: A Notary in Search of Written Laws”, in Modern Philology Vol. 94, No. 4 (May, 1997), pp. 456-457.

7)Mario Fubini, Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane, Dal Duecento al Petrarca [Critica e Filologia], Milano, Feltrinelli, 1975, Vol. I,  pp. 163-166.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.