Campana tra i “Mysteria”

Dino Campana

Se è vero ciò di cui molti oggi sono convinti, ovvero che, per spiegare Campana, non è proprio strettamente necessario evocare ad ogni pié sospinto la sua “presunta” pazzia (di cui tanti oggi non sono più poi così convinti), è necessario accedere al poeta di Marradi con altri strumenti. Molto è stato fatto nell’esegesi campaniana. Sappiamo come lavorava il poeta “di un solo libro”, e dalle indagini sono emerse molte “varianti” d’autore, un segnale importante per capire “dove” voleva arrivare Dino Campana. Lasciando quindi da parte ogni riferimento alla pazzia del poeta, e alla sua “compulsione” al viaggiare, cerchiamo di avvicinarci in altri modi ai suoi “Mysteria”.

La raccolta di poesie di Campana porta il seguente titolo: “Canti Orfici”. “Canti Orfici” è la traduzione letterale di “Carmina Orphica”. Però “Canti Orfici” è il “secondo titolo” della raccolta di poesie. Il primo era “Il più lungo giorno”, che era il titolo del manoscritto che fu perduto da Soffici e Papini, cosa che mandò in assoluta disperazione Campana. Tuttavia, questo mutamento di titolo comportò anche una netta “revisione” linguistico-sintattica delle poesie di Campana, che le “adattò” alla nuova poetica suggeritagli dai “Carmina Orphica”.

Secondo G. di Lullo, il nuovo titolo gli fu suggerito dalla lettura di un libro di E. Schuré, “I grandi iniziati” (1). Ho visto il libro nell’edizione inglese, e devo riconoscere che Campana può aver trovato parecchio materiale per la sua “nuova poetica” ispirata ai “Carmina Orphica”. Infatti Schuré, qua e là dava alcune indicazioni sulle “tecniche” della poesia orfica. Tra di esse, quelle che, a mio parere, certamente attirarono l’attenzione di Campana furono le seguenti:

1) “Strabo positively affirms that ancient poetry was only the language of allegory. Denys of Halicarnassus confirms this, and acknowledges that the mysteries of nature and the sublimest conceptions of morality have been obscured beneath a veil. Accordingly, it is by no means metaphorically that ancient poetry was called ‘the language of the Gods’” [“Strabone sostiene che la poesia antica prevedeva soltanto la lingua dell’allegoria. Dionigi di Alicarnasso conferma il fatto e riconosce che i misteri della natura e le concezioni morali più alte e sublimi sono state accuratamente nascoste sotto un velo di mistero. Di conseguenza, non è affatto metaforicamente che la poesia antica era conosciuta come ‘la lingua degli dèi’ “] (2).

2) The loves of Heaven and Earth are not known to the profane. The mysteries of the Bridegroom and the Bride are unveiled only to divine men” . “This means that Dionysos and the Orphic initiation remained the’ privilege of the initiates, whilst Apollo gave his oracles to the outside world” [I rapporti tra cielo e terra restano ignoti al profano. I misteri dello sposo e della sposa si svelano solo agli uomini divini”. “Ciò significa che l’iniziazione ai misteri orfico-dionisiaci è privilegio degli iniziati, mentre Apollo ha dato i suoi oracoli al mondo esterno”] (3).

Quindi campana scoperse che le “tecniche poetiche” degli Orfici erano basate “essenzialmente” sull’allegoria, dovendo i “mysteria” restare ignoti ai profani, e la “verità” svelata soltanto gli “iniziati”. E’ indubbio che Campana partì “soprattutto” dalle “suggestioni esoteriche” di Schuré per “riscrivere” le sue poesie, dopo la perdita del manoscritto originale, anche se, sicuramente , agirono su di lui i “moderni” simbolisti, italiani e francesi, come è stato ampiamente dimostrato dalla critica. Tuttavia, conoscendo la natura variamente “misticheggiante” di Campana, è molto probabile che il “la” gli sia stato offerto prevalentemente dall’opera di Schuré.

Partendo da questo assunto, aggiungerei che Campana avrebbe potuto trovare indicazioni di “poetica orfica” maggiormente dettagliate se avesse avuto la sorte di imbattersi nell’opera di qualcuno dei nostri eruditi tra Sette e Ottocento, i quali avevano raccolto tutto quello che c’era da raccogliere intorno ai “Carmina Orphica” dell’antico e favoloso poeta Orfeo. Tutto sommato, e anche senza andare a scomodare opere esoteriche come quelle di E. Schuré, Campana avrebbe potuto imparare moltissimo da essi intorno ai “Carmina Orphica”, e sui “fini” che essi si proponevano.

Per esempio, il dotto Johann Albert Fabricius ci erudisce sul fatto che “Orphicos per symbola, sive, ut Dionysius Halicarnass. per allegorias Pythagoraeos per imagines divina adumbrare solitos observat Proclus” (4). Ovvero che gli Orfici lavoravano per “symbola”, per “allegorias” e, vedi un po’, per “imagines”. Quindi, la “poetica” degli Orfici, lavorava per simboli, allegorie ed immagini, tutte cose che troviamo abbondantemente presenti in Dino Campana.

Per di più i nostri eruditi c’informano anche d’un altro fatto essenziale, ossia che, proprio in virtù dei vari “symbola”, “allegorias” ed “imagines, i “Carmina Orphica” risultavano a conti fatti di gran difficile decriptazione. Lo stesso Fabricius osservò infatti acutamente che essi si rifacevano a “praecepta arcana”, che, commenta ancora Fabricius, “definiri atque explicari reor non potest”, “credo non si possano facilmente definire e spiegare”. Tant’ è vero che il dotto e intelligente Fabricius se ne lavava mani e piedi: “Nec hic locus est ulterius inquirendi”: “Non credo sia il caso di insisterci troppo sopra”.

A questo punto noi abbiamo di fronte non solo le “tecniche” proposte dai “Cantica Orphica” [symbola”, “allegorias” ed “imagines], ma anche i loro esiti finali, che dovevano restare del tutto “arcana”. Se, pertanto, il nostro Dino Campana si pose nell’ottica di scrivere “canti orfici”, egli seppe anche “come” lavorare: doveva lavorar per simboli, allegorie ed immagini, e doveva anche, alla fine, fare in modo che il “risultato” rasentasse l’ “arcano” e il difficilmente comprensibile.

Come raggiungere tale risultato “tecnicamente”?

Con un sistema probabilmente molto simile a quello collaudato efficacemente da Ungaretti per arrivare alla “parola essenziale”: lo “sfrondamento” lessicale e sintattico. Ungaretti, per esempio, l’usò parecchio nell’ “Allegria”, “sfrondando” parole e nessi sintattici il più possibile. Si pensi per esempio alle “varianti” operate in “Casa mia”. Si passa da
“Sorpresa d’un amore
che riscopro
dopo tanto
a visitarmi”,

alla versione “sintetica” ed “essenziale”:

“Sorpresa dopo tanto d’un amore”.

E’ evidente che, nella versione definitiva, non sappiamo più che la “sorpresa” di Ungaretti derivava dal fatto che “un amore” era andato a “fargli visita” “dopo parecchio tempo” (5).

Le varianti d’autore di Campana sono lì a dimostrare che egli usava, più o meno, la stessa tecnica di Ungaretti: tagliava nessi sintattici e termini, raggiungendo infine un’indubbia “essenzialità”, nonché “musicalità” del verso, ma anche una “cripticità” di non poco momento, che mette spesso il critico in severo imbarazzo, tanto che qualcuno osservò che, nei versi di Campana, si rifletteva “talvolta” la mente “sconvolta” del poeta, suggerendo poi al lettore: “Si pensi che finì pazzo!” (6).

Così, con Campana, non ci si faceva particolari scrupoli ad usare espressioni come “visioni allucinate”, dove l’ “allucinazione” era tutt’altro che un risvolto “poetico-fantastico”, ma “roba da manicomio”. Il che effettivamente avvenne. Tra l’altro, è anche estremamente facile “abbandonarsi” a certe affermazioni perché, “a monte” c’è sempre la pezza d’appoggio costituita dal fatto che, effettivamente, Campana era finito in manicomio è lì ci rimase fino alla fine. Come diceva il sempre intelligente ed arguto M. Faucault,

“Il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza” (7).

Ma al di là del “topos” della follia, di cui Campana manifestò segnali seri intorno al 1918 (8), ovvero circa tre-quattro anni “dopo” la pubblicazione dei “Canti Orfici”, in realtà sappiamo che egli lavorò infaticabilmente intorno ai suoi “Canti Orfici”, proprio per giungere, attraverso simboli ed immagini di straordinaria efficacia, a quell’ “arcano” e “misterioso” che era, lo si sottolinea, il “primum” dei “Carmina Orphica”, e dove l’ “intenzionalità” di “farsi capire” è estremamente debole, se non “assente” del tutto. Infatti, osservava sempre sagacemente il nostro Fabricius, “Pleraque omnia partem religionum, orgiorum, mysteriorum, sub sancti silentii sacramento commendata mystis”: “era raccomandata ai ‘mistici” la segretezza sotto giuramento dei ‘misteri’ dei canti” (9).

Un esempio abbastanza probante del lavoro per “sfrondamento” ed “eliminazione” lo si ha proprio in una delle liriche più famose di Campana, “La Chimera”, dove nel primo verso leggiamo:
“Non so se fra rocce il tuo pallido/viso m’apparve, o sorriso/di lontananze ignote …”,
che andava a sostituire il molto più “pesante” e prosastico

“Tu tra le rocce il tuo pallido/ viso TRAENTE AL SORRISO/ DA lontananze ignote …” (10).

Altro esempio: “Genova”

“Io me n’andavo ne la sera ambigua/Vagando ad incerte venture/Cullato dagli occhi benevoli/De le Chimere nei cieli/Quando/Melodiosamente in alto sale/Ventoso sorse dal mare la Visione/ di Grazia [stesura del 1913].

Ed andavamo io e la sera ambigua:/Ed io gli occhi alzavo su ai mille/E mille e mille occhi benevoli/Delle Chimere nei cieli/Quando,/Melodiosamente/D’alto sale, il vento come bianca … [stesura del 1914] (11).

Ora, non è certo il caso di tornare a rifare il lavoro compiuto egregiamente da ottimi studiosi (12), ma è risaputo che l’ “opera di sfrondamento” di Campana fu di un notevole peso sui “Canti Orfici”, su cui lavorò con eccezionale alacrità. Non c’è quindi da meravigliarsi se il povero Campana s’arrabbiò come un “matto”(?) quando seppe che Soffici e Papini si erano persi il manoscritto originale che portava il titolo, poi cassato, de “Il più lungo giorno”. Quella volta Campana scrisse a Papini una lettera di fuoco, giurando e spergiurando che sarebbe andato a trovarlo a casa per farlo secco se non gli ritrovava il manoscritto nel giro d’una settimana: “Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò” (13).

Comunque sia, Campana lavorò di forbici piuttosto a fondo sul tessuto delle poesie de “Il più lungo giorno”. Però, “sfronda qui e taglia là”, usa “symbola”, “allegorias” ed “imagines” di cui conosceva solo lui la reale portata significativa, alla fine il senso compiuto inevitabilmente era, ed è, irrimediabilmente perduto per il lettore. Per capire “realmente” Campana, ci sarebbe voluta la tecnica dell’ “intervista”, usata a piene mani nei confronti di Montale. Soltanto con l’ “intervista” si riuscì a decriptare il significato di immagini che, altrimenti, ci sarebbero rimaste perfettamente ignote.

A Campana le cose andarono maluccio, nel senso che anch’egli ebbe il suo “intervistatore” , soltanto che questi era uno psichiatra, che però trasse conclusioni non proprio “estetico-letterarie”, finendo per creare una cortina fumogena dove i confini tra “follia” e “poesia” si confondono, perpetuando viepiù l’immagine “tradizionale” del “poeta folle”, che, tutto sommato, sta in piedi anche dal punto di vista storico, perché l’immagine del “poeta folle” resiste ancora molto bene negli oscuri meandri della mente dell’uomo occidentale. A campana è toccato questo destino, e, nonostante tutti i meritori sforzi “e contrario”, risulterà molto difficile anche soltanto scalfire ciò che una tradizione plurimillenaria ci ha trasmesso.

Note

1) G. di Lullo, “Lettura di Campana, I Canti Orfici”, in “A thesis submitted to the Faculty of Graduate Studies and Research in partial fulfillment of the requirements for the degree of Master of Arts. Department of Italian, McGill University, Montréal, August 1978, p. 3. Secondo Asor Rosa, Campana lesse il libro di Schuré in un’edizione francese: “Per quanto riguarda l’orfismo è d’obbligo la citazione del capitolo V, ‘ Orphée (Les mystères de Dionysos), dei Grands initiés. Esquisse de l’histoire secrète des religions’, di Édouard Schuré, che Campana poteva aver letto in una qualsiasi delle numerose edizioni francesi del tempo, seguite alla prima del 1889”. Cfr. “ ‘Canti Orfici’ di Dino Campana”, a cura di A. Asor Rosa, in “Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere”, Torino, Einaudi, 1995, Vol. IV. I, p. 30.
2) E. Schuré, “Krishna and Orpheus. The Great Initiates of the East and West”, New York, The Theosophical Publishing Co., senza data, pp. 99-100, nota 1.
3) Ivi, p. 110.
4) “Ioannis Alberti Fabricii Bibliotheca Græca siue Notitia Scriptorum”, Hamburgi, MDCCXXXX, Volumen Primum, p. 144.
5) G. De Robertis, “Sulla formazione della poesia di Ungaretti”, in “G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie”, Milano, Mondadori, 1969, pp. 414-415.
6) Asor Rosa osservò: “Resta il sospetto che anche in Boine, come in tanti altri dopo di lui, l’individuazione del rapporto tra caratteri della poesia e stato psichico morboso dell’autore comportasse una sorta di limitazione nel giudizio, indotta precisamente da quello. Infatti, la formulazione completa della sua frase suonava in questo modo: ‘Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare […] è, se dio vuole, un pazzo sul serio’”. Cfr. “ ‘Canti Orfici’ di Dino Campana”, a cura di A. Asor Rosa, cit., p. 6.
7) M. Faucault, “L’ordine del discorso”, Torino, Einaudi, 1972, p. 12.
8) Gianni Turchetta, “Dino Campana: biografia di un poeta”, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 10. “La sua vita civile finì, di fatto, nel gennaio 1918, quando viene definitivamente internato in manicomio, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel marzo del 1932”.
9) “Ioannis Alberti Fabricii Bibliotheca Græca siue Notitia Scriptorum …”, cit., p. 154.
10) “Poesia italiana del Novecento”, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1971, vol. II, p. 728.
11) P. Giovannetti, “Genova, il verso libero ‘cubista’ di Dino Campana”, in P. Giovannetti, “Dalla poesia in prosa al RAP”, Interlinea, 2008, p. 55.
12) D. Campana, “Canti Orfici”, a cura di G. Grillo Vallecchi, Firenze, 1990. Grillo riporta tutte varianti d’autore per tutte le poesie di Campana.
13) Cfr. Asor Rosa, cit., p. 20.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.