Cesare Pavese e le small towns di Sherwood Anderson

Com’è noto, Cesare Pavese fu un cultore della letteratura americana, di cui seppe cogliere gli aspetti più “moderni”, cercando di presentarli ad un pubblico, quello italiano, “distante” dagli americani non soltanto nello spazio, ma anche in sensibilità e cultura. Pavese si rese perfettamente contro che l’America, per gli italiani, era ancora un qualcosa di “esotico”: si sapeva che c’era, ma non si supponeva che l’America avesse prodotto una letteratura che tutto sommato poteva costituire motivo d’interesse anche per il pubblico italiano:

 

“E così, il lettore intelligente, scriveva Pavese, quando sente parlare di Ohio, Illinois, Michigan, Minnesota, Iowa, Indiana, Dakota, Nebraska, lasci stare […] l’ esotismo e s’immagini piuttosto con colori nostrani quei luoghi che, un’ottantina d’anni fa,  erano praterie e boscaglie, che una prima generazione anglosassone stava rompendo a fatica, tra austerità e sudori quasi biblici […]  Cominciano qui i romanzi di Dreiser e Lewis e, specialmente di Anderson […] Nell’80 un ciclone attraversa l’America. L’industrialismo in grande si sposa alle risorse del paese […],  spazza e trasforma tutti i modi antichi […] Le fabbriche inghiottono tutto […] I campi sono lavorati a macchina, grandi fabbriche anch’essi […] Uno diventa un eroe perché trova una leva […] Si forma la leggenda dell’uomo d’affari nordamericano. Chicago accoglie tutti  […] Nascono i re del petrolio, dell’acciaio, della carne scatolata, del grano. Ha origine, insomma, l’America attuale” .

 

Il lettore italiano, sia pur soccombente all’ esotismo,  che avesse intravisto queste righe di Pavese, ne sarebbe uscito sicuramente incuriosito; a maggior ragione il lettore interessato ai fatti letterari, il quale scopriva che i “cantori” dell’America nascente si chiamavano Sinclair Lewis o Sherwood Anderson. Pavese dunque si sforza di  accompagnare gli italiani alla “scoperta” della letteratura americana,  osservando che “di questo mondo Anderson […] ha tratto le più dolorose e pensose e risolutive rappresentazioni di vita moderna […] belle di una bellezza che supera la pagina scritta”. Quindi Pavese solletica il lettore colto presentandogli “schemi letterari” a lui noti, come, per esempio, l’aspra battaglia tra strapaese e stracittà che  energizzò la polemica letteraria italiana degli anni Trenta. Infatti, scriveva Pavese, “per Anderson, tutto il mondo moderno è un contrasto di città e di campagna, di schiettezza e di vuota finzione”.

 

E aggiungeva:

 

“Quanto tocchi anche noi quest’idea, credo inutile dire”.

 

Poi, confrontando le due realtà, l’America e l’Italia, Pavese non poté fare a meno di notare come la letteratura americana avesse saputo esprimere, di fronte a temi siffatti, scrittori della grandezza di Sherwood Anderson, mentre  il “contrasto” città-campagna “non ha dato tra noi che una caricatura letteraria: stracittà e strapaese” (1). Tutto sommato Pavese non ebbe tutti i torti a criticare quel fenomeno letterario italico, che si baloccava essenzialmente tra reboanti parole , discorsi retorici o di maniera. Non così l’America, che poteva contare, tra le due guerre, su nomi della caratura, per esempio,  di un William Faulkner, autore del “Sartoris”,  uscito nel 1929 (2), ossia negli anni più terribili della storia degli americani, che pativano i disagi della Grande Depressione e del crack di Wall Street. Qui sono rappresentati i furiosi contrasti tra i Sartoris, una famiglia d’antica tradizione ormai degenere e che s’avviava al tramonto, e gli Snopes, i “nuovi ricchi”, privi d’ogni scrupolo. Sempre nel ’29 Faulkner dava alle stampe L’urlo e il furore (3), con la tragedia  dei Compson, vecchia famiglia del “vecchio” Sud. Insomma, L’America “letteraria” si presentava sul palcoscenico europeo ed italiano  con drammi potenti e sconvolgenti, mentre da noi, nel 1929,  uscivano Gli Indifferenti di Moravia, tra polemiche tutte nostrane.

 

Un po’ prima di Faulkner, negli anni coincidenti con  il primo conflitto mondiale,   l’America “convenzionale” dovette sopportare gli urti dell’attività letteraria di Sherwood Anderson, in cui è fortissima la tensione verso la libertà contro le convenzioni e i limiti delle Small Towns dell’America provinciale profonda. Tale avversione s’incarnò nelle novelle  raccolte in Winesburg Ohio (4), dove i protagonisti sono uomini e donne comuni ( una maestra, o un giovane giornalista) che tentano di “rompere” con le soffocanti convenzioni, sociali ed umane,  allignanti a Winesburg, small Town dell’Ohio, offrendo un quadro di “tragedie umane” innescate, secondo S. Anderson,  dalla provinciale e puritana “repressione” di impulsi vitali ed emozioni insopprimibili.

 

Alla fine degli anni ’10 Anderson affrontò inoltre, con  Riso Nero (Dark Laughter), anche  il tema sempre scabroso e sempre vivo in America del rapporto conflittuale tra i bianchi e i neri, in una contrapposizione che comunque si lega  costantemente alla tipica poetica di Anderson, incentrata sul contrasto insanabile tra “convenzioni” e stereotipi, di cui i bianchi sarebbero a suo avviso portatori,  e gli istinti di libertà dei neri. Certo è che anche la “scrittura” rapida, veloce e priva di complicazioni linguistiche fecero  di Sherwood Anderson un “modello” letterario che non poteva non colpire la sensibilità di un interprete come Cesare Pavese e degli intellettuali a lui vicini, molti dei quali videro, come lui,  nella letteratura americana, la “via” per giungere a una letteratura italiana socialmente impegnata,  che si sarebbe in seguito concretizzata soltanto con il Neorealismo.

 

Note

1)      C. Pavese, “Sherwood Anderson”, in Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1968, pp. 35-38. Il saggio risale al 1931.

2)      William Faulkner, Sartoris, Harcourt, Brace, 1929.

3)      William Faulkner, The Sound and the Fury, 1929.

4)      Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio: A Group of Tales of Ohio Small Town Life, Modern library, 1919.

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.