D’Annunzio imita Baudelaire

dannunzio

 

Lo “Spleen” LXXVIII  costituisce un’ulteriore riprova della violenza con cui Baudelaire volle da par suo testimoniare in versi  la terribile esperienza della sua implacabile nevrosi. In Italia, “qualcuno” cercò d’imitarne le sembianze, con risultati che i lettori giudicheranno da sé. Questo “qualcuno” fu nientepopodimeno che  Gabriele D’Annunzio.

 

Sappiamo con certezza che D’Annunzio, dal dicembre del 1884, iniziò la sua collaborazione alla Tribuna, firmando talora gli articoli con  nomi esotici, tra cui  spicca  l’eccentrico Shiun-Sui-Katku-Kava (che sembra un nome indiano anzichenò), cominciando a conoscere poeti come  Baudelaire e Mallarmé , e dando alle stampe “Intermezzo”, la cui edizione “princeps” risale al 1884, preceduta da un’edizione del 1883 (Intermezzo di rime, Roma, Sommaruga, 1883).

 

Da “Intermezzo” trascegliamo Quousque Eadem?, perché in questa lirica ci par d’intravvedere la “noia” di Baudelaire e i suoi cieli bui, in versi nei quali il poeta D’Abruzzo, alias  Shiun-Sui-Katku-Kava, scriveva “d’avere/sempre su ’l capo il ciel mite ed immite”.

Ora, codesto cielo “mite” ed “immite”, nero e tempestoso, riecheggia quei versi di Baudelaire in cui il poeta francese, dedito, si sa, a tutte le perversioni e a depressioni furibonde, scriveva:

 

“Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle/ Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis” (Traducendo un po’ alla brava: “Quando il cielo basso e opprimente pesa come una cappa sullo spirito,  che soffre in preda alla noia perenne dell’esistere”).

Poi Baudelaire, in preda ad allucinazioni provocate da chissà quali “parfums” parigini, parla d’ “un peuple muet d’infâmes araignées / Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux” (uno stuolo silenzioso d’infami ragni [che] tesse  le sue ragnatele nel profondo della mente);

 

“Des cloches tout à coup sautent avec furie/Et lancent vers le ciel un affreux hurlement” ( di “campane furibonde suonare, muovendo al cielo  urla tremende”),  di “longs corbillards, sans tambours ni musique” (d’ “interminabili funerali senza musica o fanfare”), fino al momento cruciale allorché “l’Angoisse atroce, despotique,/Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir » (“l’Angoscia, implacabile e tiranna, trafigge il  mio capo ormai soggiogato, issandovi  il suo nero vessillo di vittoria”).

 

Come si può vedere, il tono complessivo della lirica baudeleariana rinvia il lettore alla conoscenza d’uno stato d’angoscia esistenziale senza possibilità di scampo, dato che l’angoscia stessa innalza il suo vessillo vittorioso sul capo ormai vinto e piegato del poeta dei “Fiori del Male”.

 

La tremenda esperienza di Baudelaire fu “tradotta” in Italia da D’Annunzio con  toni che però sembrano la riscrittura d’un poeta che vive all’estrema periferia dell’impero (poetico) francese. Ma ascoltiamo il poeta d’Abruzzo, che con versi acconci ci racconta lo “Spleen” della Pescara:

 

Quousque Eadem? [Fino a quando la vita sarà sempre uguale a se stessa?]

 

Oh cessate! La musica mi stanca.

Ho disgusto del sogno come d’una

Bevanda troppo facile. Nessuna

Magia mi renderà quel che mi manca.

 

Qui il poeta è davvero stanchissimo di tutto: è disgustato sia dalla musica sia dai sogni, che probabilmente si procurava, assorbendo quei “forts parfums” di baudeleriana memoria (Vedi “Flacon”). Egli tuttavia sottolinea come nessuna “magia” riesce a placare la sua insoddisfazione esistenziale.

 

Con questo affanno il giovincello arranca

Dietro l’amore, dietro la fortuna!

La donna, se ben fa come la luna,

è sempre quella, sia bruna, sia bianca.

 

Il poeta si paragona ad un “giovincello” che arranca dietro all’amore e alla fortuna. Si lamenta altresì delle donne, che sono sì lunatiche, ma in fondo sono sempre le stesse. La “femme fatale” di Baudelaire è tradotta in una sorta d’italica bellezza indomabile, ma pur sempre prevedibile. Si fa notare per inciso che “bruna” e “bianca” si riferiscono alla luna, non alla donna, ben sapendo che il Vate mai e poi mai sarebbesi innamorato d’una donna “bianca”, ossia canuta di capelli, s’intende.

 

Estati, autunni, inverni, primavere,

o vicende costanti, ore infinite,

che stanchezza m’assale, s’io vi penso.

 

Benissimo. L’ “ennui” di Shiun-Sui-Katku-Kava passa attraverso stagioni sempre eguali, vicende che son sempre le stesse: che noia, che barba, ragazzi! Al solo pensarci, Shiun-Sui-Katku-Kava si sente letteralmente affranto dalla stanchezza mortale baudeleriana.

Si avvertono, infine, le “campane” cui accennava Baudelaire:

 

O stanchezza indicibile, d’avere

Sempre su  ’l capo il ciel mite ed immite!

Chi potrà darmi un qualche nuovo senso?

 

Il poeta soffre d’una stanchezza indicibile, nonché d’avere sempre sul capo, come una spada di Damocle, un cielo, a volte bello e sereno, e talora tempestoso e minaccioso; chiedendosi, infine, chi  potrebbe dare “un qualche nuovo senso” alla sua ben miserevole esistenza.

 

Comprendo appieno la tellurica disperazione del poeta, e, ad alleviargli il tormento, forse potrei offrirgli un qualche semplice ed umile consiglio, anche se, lo riconosco, è un po’ difficile dare consigli a Shiun-Sui-Katku-Kava, che, a seguitare,  vergò:

 

E in me solo credetti,

Uomo, io non credetti ad altra

Virtù se non a quella

Inesorabile d’un cuore

Possente (p. 99).

 

Sono comunque lieto di poter constatare che  Shiun-Sui-Katku-Kava ebbe una rapidissima ripresa dalla sua depressione, dovuta, più che altro, alle  scorribande nella letteratura francese; ad ulteriore riprova che D’Annunzio fu, specie nei primi anni della sua carriera poetica, essenzialmente un grande “follower” delle mode letterarie che venivano dalla Gallia.

 

Fonti:

 

Per il testo della poesia di D’Annunzio, si rinvia a G. D’Annunzio,”Quousque Eadem?” (da Intermezzo), in   Il fiore della lirica, a cura di F. Flora, Milano, Mondadori, 1958, pp. 27-28. Lo stesso Francesco Flora ci informa che “nel dicembre (1884) il poeta inizia la collaborazione alla Tribuna, con lo strano pseudonimo Shiun-Sui-Katku-Kava” (p. 309). Per le edizioni di Intermezzo (prima intitolata Intermezzo di rime, Vedi Gabriele D’Annunzio: edizioni originali, autografi, saggi critici e biografici, Torino, Libreria Antiquaria Pregliasco, 1972, p. 9).

 

Per il testo di Charles Baudelaire, cfr. “Spleen”, in  Les Fleurs du Mal , a cura di Camille Vergniol, Paris, Librairie Alphonse Lemerre, (1917), p. 131.

 

Baudelaire aveva scritto una lirica che porta, più o meno, lo stesso titolo di quella di D’Annunzio, “Semper Eadem”, ma, a parte il “Cessate” dannunziano, che rinvia al “Taisez-vous” di Baudelaire, per temi e immagini la poesia mi sembra lontana da quella sopra esaminata. Comunque, se ne riporta il testo e la traduzione (Vigniol, p. 74).

 

“D’où vous vient, disiez-vous, cette tristesse étrange,/Montant comme la mer sur le roc noir et nu? »/ Quand notre cœur a fait une fois sa vendange/Vivre est un mal. C’est un secret de tous connu,

 

“Da dove ti vien mai, dimmi, questa tua bizzarra tristezza/ che monta su come il mare sulla roccia scura e scabra?’ Quando il nostro cuore ha già fatto ogni vendemmia,/vivere è un male. Questo è un segreto ben saputo da tutti ».

 

Une douleur très simple et non mystérieuse/Et, comme votre joie, éclatante pour tous./Cessez donc de chercher, ô belle curieuse!/Et, bien que votre voix soit douce, taisez-vous!

 

“È un dolore limpido e senza misteri,/ e, come la tua gioia, è a tutti palese./ Smettila d’indagare, o mia bella curiosa!/La tua voce è dolce, ma smettila!”.

 

Taisez-vous, ignorante! âme toujours ravie!/Bouche au rire enfantin! Plus encor que la Vie,/La Mort nous tient souvent par des liens subtils.

 

“Taci, pezzo d’ignorante sempre fuori di testa,/ con quel sorriso ebete  sulla bocca! Più ancora che la vita/ è la morte che ci lega a sé con fili sottili”.

 

Laissez, laissez mon cœur s’enivrer d’un mensonge,/Plonger dans vos beaux yeux comme dans un beau songe/Et sommeiller longtemps à l’ombre de vos cils!

 

“Lascia che il mio cuore s’ubriachi d’un inganno/ Ecco: potessi tuffarmi nell’azzurro dei tuoi begl’ occhi come in un bel  sogno/ e dormire all’ombra delle tue ciglia”.

 

Bella, ma non esperita, a mio parere, dal Vate italico.

 

Si riporta qui, nella sua interezza, lo “Spleen” LXXVIII sopra esaminato:

 

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle/ Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,/ Et que de l’horizon embrassant tout le cercle/ Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;

 

“Quando il cielo basso e opprimente pesa come una cappa sullo spirito,  che soffre in preda alla noia perenne dell’esistere, e  dall’intero suo cerchio l’orizzonte ci riversa addosso un giorno più scuro  delle notti   più buie;”

 

Quand la terre est changée en un cachot humide,/Où l’Espérance, comme une chauve-souris,/S’en va battant les murs de son aile timide/ Et se cognant la tête à des plafonds pourris;

 

“E quando la terra stessa si muta  in un’ umida e fetida cella, dove la Speranza, simile ad un pipistrello notturno, batte le sue deboli ali  contro i muri, sbattendo il capo contro soffitti marciti;”

 

Quand la pluie étalant ses immenses traînées/ D’une vaste prison imite les barreaux,/ Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées/ Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,

 

“E Quando la pioggia con i suoi  mille aghi par simile  alle inferriate d’un immenso carcere, e uno stuolo silenzioso d’infami ragni tesse  le sue reti nel profondo della mente,”

 

Des cloches tout à coup sautent avec furie/Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,/ Ainsi que des esprits errants et sans patrie/Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

 

“Ecco campane furibonde suonare, muovendo al cielo  urla tremende, simili a spettri erranti in esilio, che  gemono  incessanti”.

Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,/Défilent lentement dans mon âme;/l’Espoir,Vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique,/ Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

 

“E interminabili funerali senza musica o fanfare sfilano lentamente nell’anima. Ecco:  vinta, infine, la Speranza geme, e l’Angoscia, implacabile tiranno, trafigge il  mio capo ormai soggiogato, issandovi  il suo nero vessillo di vittoria”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.