Dante, Boccaccio e “la sentenza di Nembrot”

Prima parte

Ogni lettore di Dante, da sempre, cimentandosi con il trentunesimo canto dell’Inferno si è dovuto scontrare con una “crux” interpretativa mai effettivamente risolta. Intendo ovviamente riferirmi al verso 67, ove si leggono le famose, quanto insondabili parole del gigante Nembrot ( « Rafèl mai amech zabi almi» ) (1), il quale, con un atto di superbia inaudito, osò costruire la torre di Babele. Dio lo punì confondendo i linguaggi di quanti attendevano alla costruzione della torre, vanificando in tal modo il superbo progetto di Nembrot.

Nel corso dei secoli l’erudizione si è sforzata di penetrare l’arcano, ma le soluzioni sono state più o meno cassate perché scarsamente convincenti o addirittura fantasiose. La filologia contemporanea rifugge ormai da tempo da qualsivoglia tentativo di interpretazione, rimanendo saldamente ferma al concetto salutare e certamente ragionevole, dopo diverse ubriacature interpretative, che è bene non fare eccessivi voli di fantasia e restar fedeli alla testimonianza dei più antichi e autorevoli commentatori, tra i quali spiccano sopra tutti il Benvenuto e il Buti , che ebbero a dire che la frase di Nembrot non possiede alcun significato, e che è assolutamente vano cercarne uno. «… Est hic notandum, quod ista verba non sunt significativa…» (Benvenuto). «… Queste sono voci senza significazione…», traduce pressoché letteralmente il Buti (2).

La critica attuale, attraverso i suoi più autorevoli esponenti, è scopertamente fedele al detto del Benvenuto e del Buti, cosicché, dal Sapegno all’ Enciclopedia Dantesca giù giù fino alle edizioni popolari della Commedia, sarebbe giocoforza accettare il fatto, sia pur difficile da digerire, che le parole di Nembrot non possiedano senso alcuno.

Ciò premesso, e con tutte le cautele del caso, la questione andrebbe forse ripresa alla luce di una interessante lettura di alcuni fascicoli degli Atti dell’Archivio Veneto della seconda metà dell’800.

Nella Dispensa Nona del Tomo Decimo, Serie Terza, datata novembre 1864 – ottobre 1865, degli Atti dell’Imp. Reg. Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, leggo un puntuale intervento del Membro Effettivo, prof. Minich, il quale asserisce che, grazie a una importante scoperta, il famoso detto di Nembrot avrebbe trovato il suo interprete (3). Secondo la narrazione del prof. Minich, il vicebibliotecario dell’Istituto Veneto, prof. G. Veludo, in quello stesso anno 1865, avrebbe individuato in una pergamena una “chiosa” di Anonimo, la quale si riferirebbe al verso 67, in cui si attribuirebbe la scoperta del significato arcano delle parole di Nembrot a un ravennate, Pietro Giardino, che tra l’altro il Boccaccio afferma essere stato “discepolo” di Dante a Ravenna ( uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Pietro Giardino, lungamente discepolo stato di Dante) A onor del vero, questa come altre notazioni erudite del Boccaccio vennero per vari anni snobbate dalla critica, in quanto si conosceva la fervida fantasia e la naturale tendenza dell’autore del Decameron ad annacquare spesso la verità dei fatti. Si disse che Boccaccio s’inventasse addirittura nomi e cognomi di testimoni della vita di Dante, tra cui anche quello di Pietro Giardino. La critica erudita dell’800 ha comunque restituito credibilità alle parole di Boccaccio, ricostruendo addirittura l’albero genealogico della famiglia di Pietro Giardino, notaio e figlio di un notaio, di cui si possiedono scritti sino al 1348 (4). Stabilito dunque che Pietro Giardino effettivamente visse a Ravenna ai tempi di Dante, torniamo alla famosa “chiosa” rinvenuta dal vicebibliotecario, che così dice:

«Qui un gigante che più avanti è detto Nembrotto, dice alquante parole oscure e di nullo senso ed io ho udito dire a messer Pietro Giardino uomo arguto e sottile in lettere, il quale s’andò al Signore, già è due anni, siccome l’autore, volendo significare la confusione de’ linguaggi al tempo di Nembrotto, misegli in bocca parole scortesi e ingiuriose a Virgilio, e traspose le lettere di caduna parola, la quale dalla diritta parte alla manca leggendo, e diversamente insieme ponendo, dice: Mali ciba che ami mal fare…» (pp. 1240-41). La chiosa fu “tradotta” dal prof. Veludo per comodità dei lettori. Nella forma originale si presentava così:

« Qui uno gigante che più avati e dicto Nembrotto dice alquate parole scure e di nullo seso: et io ho udito dire a meser piero giardino huomo arguto et sotile i letera, lo quale sando al signiore gia e duani [il quale se ne andò al Signore or sono due anni ] sichome lauctore volendo significare la cofusione de linguagi a tempo di Nembroto messeli i boca parole iscortesi et igiuriose a vergilio et traspuose le letere di catuna parola le quale dala diricta parte ala maca legedo et diversame insieme pognendo dicono: mali ciba che ami malfare…».

Secondo la testimonianza di Pietro Giardino, raccolta dall’Anonimo chiosatore della Commedia, dunque, le confuse parole di Nembrot altro non sarebbero che un anagramma, e il verso andrebbe letto da destra a sinistra, spostando adeguatamente vocali e consonanti, con il seguente risultato, non spregevole in verità: « mali ciba che [ colui che] ami mal fare». Una sorta di sentenza “urlata” di Nembrot, il quale avrebbe voluto significare, secondo Minich, che è giusto che si nutra, si cibi di male, soffra il giusto tormento, colui che ama il mal fare. Si tratterebbe, tutto sommato, di una sorta di detto sentenzioso, una specie di proverbio, come se ne trovano tanti, che rimandano al concetto della giusta punizione per chi compie il male. La sentenza, anziché significare, come intende il Minich, « è giusto che si cibi…», ecc., potrebbe avere anche un semplice valore asseverativo, nel senso di « mal si nutre (ciba) colui che ama mal fare». In ambedue i casi il significato cambia di poco.

Tiriamo adesso una conclusione sia pur provvisoria. Se è vero che, filologicamente parlando, di fronte a una crux interpretativa, ciò che fa fede è l’ “auctoritas” più “antiqua”, nel caso nostro siamo di fronte a un bel dilemma, perché qui abbiamo a che fare con due o più “auctotitates” dissonanti ma pressoché coeve; però, sarei portato a ritenere che Pietro Giardino sia un’ “auctoritas” più fededegna del Benvenuto e del Buti, poiché, a sentire il Boccaccio, Pietro Giardino sarebbe stato molto vicino a Dante, quasi un suo “discepolo”; ed è piuttosto difficile credere che il discepolo non avesse mai fatto domande indiscrete al “Maestro”, allorché, leggendo la Commedia, si scontrava con versi impervi e di difficile interpretazione. C’è poi un’ulteriore lancia da spezzare a favore della proposta di Pietro Giardino. Al di là del “discepolato” presso Dante, il Boccaccio aggiunge in altra sede una nota ancor più interessante circa la prossimità di Pietro Giardino con Dante. Nella Lezione Seconda del suo Comento, Boccaccio ricorda Pietro Giardino come «uno dei più intimi amici e servidori di Dante» (5). Se vogliamo essere aderenti al massimo non solo all’antichità delle fonti, ma anche alla “vicinanza” di una fonte rispetto all’autore, perché non credere alla parola di Pietro Giardino, “amico intimo” di Dante, che aveva con lui una frequenza quasi quotidiana, e l’incredibile nonché rarissimo privilegio di ascoltare la viva voce del Poeta?

L’impressione è che la nota critica del prof. Minich sia sfuggita all’attenzione degli studiosi di Dante, antichi e moderni, perché probabilmente confusasi con la pletora delle interpretazioni che hanno fatto dell’esegesi dantesca, tanto per rimanere in tema, una sorta di biblioteca di Babele. Va da sé che la cosa andrebbe ulteriormente vagliata e approfondita, perché il prof. Minich non offre una propria interpretazione, ma, con molta sagacia e dottrina, e basandosi su una documentazione sino ad oggi non dico confutata, ma, a quanto mi risulta, neppure vagliata e discussa, espone un’ipotesi di lavoro degna di attenzione, su cui dirò qualcosa più sotto.

Anatomia del “detto” di Nembrot sui “malcibati”

La famosa sentenza di Nembrot, “tradottaci” da Pietro Giardino, «mal ciba ( o cibi ) chi (che) ama mal fare», è quanto di più dantesco si potesse sperare. In sede di ricostruzione della frase anagrammata, un bel problema per il prof. Minich era quello costituito dalla presenza inopportuna quanto fastidiosa della “z” di “zabi”, che l’Anonimo chiosatore leggeva, teste il Giardino, invece come una “c”, da cui “cabi”, risolto in “ciba”. Occorreva quindi individuare nella tradizione dei codici della Commedia almeno un testimone che riportasse la lezione dell’Anonimo, e quindi “cabi” al posto di “zabi”. La ricerca si rivelava sin dall’inizio estremamente ardua, perché tutti i codici noti attestavano “zabi” e non “cabi”. Minich mise quindi al lavoro il prof. Veludo, il quale gli procurò alcuni codici della Commedia presenti nella Biblioteca Marciana di Venezia. «… E in uno di essi – scrive il prof. Minich – segnato Classe IX Num. XXXI B, trascritto nel 1400 da Andrea Zantani, egli trovò, ed io riconobbi, la nuova lezione addotta dalla chiosa prefata… Né dee scemare il valore del detto codice la sua data posteriore alla metà del secolo decimoquinto, giacché, salvo errore, il copista non l’avrebbe introdotta, se non l’avesse incontrata in qualche codice anteriore…». Il ragionamento di Minich non fa una grinza, ed egli si mostra giustamente soddisfatto di aver individuato nella tradizione almeno un codice che attestasse la lezione “cabi” dell’Anonimo chiosatore di Dante. Ma, a dire la verità, la questione su cui si è tanto affaticato il prof. Minich mi pare un problema importante ma non irrisolvibile, perché è largamente nota alla filologia romanza anche dell’800 l’alternanza nella grafia antico-romanza di “c” con “z”, quest’ultima rappresentata spesso con una “c” con “zediglia” (cediglia [ç] )-, come sottolinea lo stesso Minich. ( Si tratta della famosa «… c cedillé (ç), scrive il Battelli, usata in luogo di “z” nei manoscritti italiani degli ultimi decenni del sec. XII a tutto il sec. XIV…» (6). Lo dimostra la discussione seguita alla comunicazione del prof. Minich, ove anche il prof. Veludo osservava la persistenza nei codici italiani del fenomeno di cui abbiamo detto sopra, ossia «… che spesso i codici offrono lo scambio della “z” in “c”, e non solo codici di varie parti d’Italia, ma eziandio toscani, come per es…: “Ah Pistoja, Pistoja, che non stanci [= stanzi]/ Poiché in mal far lo seme tuo avanci [=avanzi]… ». Il fenomeno fonetico ci è attestato anche da un testimone d’eccezione, ossia il Machiavelli, il quale, nel suo Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (7), osserva che i “forestieri” tendono a variare la pura pronuncia fiorentina, cosicché le parole « … si variano tanto con la pronunzia,/ che diventano un’altra cosa. Perché/ tu sai che i forestieri … pervertono la c in z…». Il prof. Minich, pur non avendo dalla propria il Machiavelli, a cui tra l’altro a quei tempi si negava la paternità del Discorso o dialogo…, ritiene la lezione dell’Anonimo più valida di ogni altra, perchè, «… a dire il vero – osserva – questa nuova lezione ha tutta l’autorità d’uno de’ codici più accreditati, poiché ci viene da tale che la rilevò, congiuntamente alla spiegazione, da un famigliare di Dante…» (p. 1242). Ovvero Pietro Giardino, che appunto attestò la lezione “cabi” e “ciba”, nonché il fatto che il verso era un anagramma e andava letto da destra a sinistra. Tra il serio e il faceto il prof. Minich rileva, a proposito della chiosa, che essa è vera, e attestata in un codice autentico e non in « una manifattura moderna sotto un’apparenza d’impronta antica» (Sott. mie). Sarebbe il caso di dire -conclude-, secondo un noto adagio francese, « si ce n’est pas vrai, c’est bien trouvé» [ se la cosa non è vera, diremmo noi, è stata ben trovata]. In nota Minich riporta ulteriori notizie anche sul copista quattrocentesco, il cui cognome, puntualizza, non era Zantani, come aveva creduto, ma Zancani, Andrea Zancani, il quale nel manoscritto asserisce « d’esser nato a Venezia, e d’aver dato termine al suo lavoro il 20 agosto 1460 ». Il vero problema riguardo alla famosa “chiosa” illustrata dal prof. Minich non è però l’alternanza si “c” con “z”, fenomeno più che possibile, quanto, e Minich se ne rende conto, dimostrare che detta chiosa è autentica e non, come taluni potrebbero sospettare, «manifattura moderna sotto un’apparenza d’impronta antica»; insomma, dice Minich, si possono dormire sonni tranquilli perché non siamo di fronte a un falso. La sottolineatura di Minich era doverosa, anche perché la storia dei falsi d’autore, eccezionalmente ben congegnati, ha in Italia una storia piuttosto lunga e variegata. Nel nostro caso abbiamo la parola del prof. Minich e del prof. Veludo, membri autorevoli del Regio Istituto Veneto, la onorabilità professionale dei quali è fuori discussione. E’ piuttosto la storia del reperimento del manoscritto che lascia un po’ dubbiosi, perché Minich afferma che il manoscritto dell’Anonimo chiosatore di Dante è stato individuato in un monastero delle isole Sporadi da uno studioso tedesco, di cui però, e qui sta il problema, egli «non conosce il nome». Ma sentiamo il prof. Minich:

«… Ora a sollevare il velo impenetrabile che coperse finora il significato del verso sopraddetto, e a stabilire l’avviso che vi si celi un anagramma, venne in soccorso degli studiosi la scoperta d’un’antica pergamena che forma risguardo ad un codice greco trovato nel marzo dell’anno corrente in un convento di monaci delle isole Sporadi da un dotto membro dell’Accademia delle scienze di Berlino e dalla Società archeologica d’Atene, di cui si spera, a cagion d’onore, di conoscere il nome…» ( p. 1240).

Se quindi la testimonianza dell’Anonimo possiede una sua consistenza, e qui i dantisti potrebbero riprendere la questione, facendo qualche ricerca sull’identità del “dotto studioso” tedesco, ci si trova di fronte a un evento veramente straordinario, ed è giocoforza osservare, con un misto di stupore e meraviglia, che ogni termine della sentenza di Nembrot rientra in quello che potremmo definire il campo semantico “morale” di Dante, ed è anzi attraverso di esso che il Poeta espone il senso stesso dell’esistenza umana e il significato intero della Commedia, ove peccato e castigo, punizione e premio s’imperniano, appunto, sul “mal fare” oppure sul “ben fare” dell’uomo.

Cominciamo dal “mal fare”, e osserviamo che tale espressione è presente in modo consistente sia nella Commedia sia nelle opere minori. Si riporta sotto una serie di esempi.

«… Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che compera con l’una e vende con l’altra; e ciascun con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene…» (8). «… Vere “Dei ordinationi resistit”, proprie voluntastis ydolum venerando, dum regem aspernata legiptimum non erubescit insana regi non suo iura non sua pro male agendi potestate pacisci… [ … Ben si può dire che resiste ai decreti di Dio adorando l’idolo del suo capriccio lei che ha rifiutato il re legittimo e non arrossisce nella sua follia di patteggiare diritti non suoi con un re non suo per ricercarne autorità a mal fare…] » (9)

« Ahi Pistoia, Pistoia, Ché non stanzi/ d’incenerirti sì che più non duri,/ poi che in mal far lo seme tuo avanzi? » ( Inf., XXV, vv. 10-13).

Nella Commedia il “mal fare” si presenta in varie forme, con il verbo “fare” variamente coniugato: ” Temer si dee di sole quelle cose/ c’hanno potenza di fare altrui male” (Inf., II, vv. 88-89); “Mentre che la gran dota provenzale/ al sangue mio non tolse la vergogna,/ poco valea, ma pur non facea male” (Purg. XX, vv. 61-63); « O folle Aragne, sì vedea io te/ già mezza ragna, trista in su li stracci/ dell’opera che mal per te si fe’ » (Purg., XII, vv. 43-45).

Contrapposto al “mal fare” sta invece il “ben fare”, tipico della rettitudine e di che agisce con senso di giustizia. Il termine è spesso riferito a Dante stesso e alla sua azione politica: «Ma quello ingrato popolo maligno/ che discese di Fiesolo ab antico,/e tiene ancor del monte e del macigno,/ ti si farà, per tuo ben far, nemico» (Inf., XV, vv.61-64). E’ Brunetto Latini che parla, verso cui Dante nutriva un’ammirazione profonda per gli insegnamenti ricevuti. Brunetto Latini aveva scritto nel Tesoretto (vv. 175-179) che le cose del mondo sarebbero andate certo per il meglio se «… tutti per comune/ tirassero una fune/ di pace e di benfare…». (10). « O gente in cui fervore aguto adesso/ ricompie forse negligenza e indugio/ da voi per tepidezza in ben far messo» ( Purg. XVIII, vv. 106-108).

Infine, nel Purgatorio ricorre una mezza frase che sembra quasi “sorella” di una parte della sentenza di Nembrot ( ama mal fare ): « Resta, se dividendo bene stimo, che ‘l mal che s’ama è del prossimo…». (Purg. XVII, vv.112-113). Ricorrono in questa espressione gli ingredienti linguistici e concettuali fondamentali della fatidica sentenza di Nembrot: il “male” e il verbo “ama”. E’ attraverso il concetto di “amore”, verso il “ben fare” o il “mal fare” che s’incentra tutta quanta non solo la poetica dantesca intorno all’amor “profano” ma anche quella, ben più consistente nella Commedia, dell’amore verso il bene, e alla fine verso il bene assoluto, Dio. Così come l’amore può rivolgersi al male, e quindi «ama mal fare», esso può per converso rivolgersi al bene, e in tal caso, si noti la persistenza del lessico, « … elli ama bene, e bene spera e crede » ( Par., XXIV, v. 40). « E l’amore – scrive con efficacia Mario De Rosa – è il concetto-chiave della poetica dantesca… Dante… dall’amore della donna che inizia il processo di elevazione interiore, arriverà a scoprire lentamente la dimensione metafisica dell’amore. E’ l’amore il movente dell’attività umana, è l’amore il principio della vita morale…[ da cui ] dipende l’orientamento esistenziale di un individuo…» (11). E passiamo ora a quel “ciba”, che dal Convivio alla Commedia compare con mille sfumature verbali e nominali, spesso a indicare un “cibo” spirituale, il celeberrimo «pan degli angeli». Gli esempi riportati sotto sono poca cosa rispetto al numero veramente considerevole di un termine che qualifica Dante come un vero e proprio “cultore” di esso.

Gridò: « Di questo cibo avrete caro». (Purg. XXII, 141).

«Sempre la confusion de le persone/principio fu del mal de la cittade,/ come del vostro il cibo che s’appone». ( Par. XVI, 67-69)

«…E innumerabili quasi sono li ‘mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati» (Convivio, I, 112)

«… Da ogni nobilitade d’animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo…» ( Convivio, I, IX, 118) [fine prima parte]Misteri

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.