Dante, il latino e la polemica sull’ “auri sacra fames”

Tutti sanno che Virgilio era la guida di Dante, che in lui riconosceva il maestro e l’autore da cui, diceva,  aveva tratto lo bello stile che gli aveva fatto onore. Se  dovessimo scandagliare tutti i virgilianismi presenti nella Divina Commedia, e tutti coloro che si son dati da fare per scovare i suddetti nell’ Opera Omnia di  Dante,  staremmo qui anni e anni, lavorando, come  oggi si suol dire, 7 h/24.  Non essendo né stakanovista né masochista sino a tal punto,  mi limiterò a segnalare alcuni virgilianismi che,  tra l’altro saltano subito agli occhi.

 

Quando a Dante sembrava che un verso di Virgilio  potesse attagliarsi alla bisogna, specialmente in quel dell’Inferno e del Purgatorio, egli ne faceva traduzione poetica che talvolta risultava  espressione nuova di zecca. Quando la regina Didone chiese ad Enea di raccontarle un po’ le sue vicende passate, egli rispose,

 

Infandùm, regìna, iubès,  renovàre dolòrem.

 

Una bella frase, con cui Enea si rammaricava con Didone di costringerlo a rinnovare un dolore disperato. Dante, narrando del conte Ugolino e della disperazione del vecchio padre per la perdita dei figli, si ricordò del maestro, e cantò

 

Tu vuoi ch’io rinnovelli disperato dolor.

 

In questo caso l’allievo prende molto dalla lezione del maestro, ma l’esito è sicuramente degno di nota, e Virgilio sarebbe stato soddisfatto d’aver avuto un simile allievo.

 

Un altro caso di calco pressoché perfetto lo troviamo nel Purgatorio (30, 48). Così, sempre con riferimento a Didone, la cui vicenda deve aver molto impressionato Dante:

 

Agnosco veteris vestigia flammae  (Aen., 4, 23). Dante rese il tutto in siffatta maniera:

 

Conosco i segni dell’antica fiamma.

 

Fin qui niente di trascendentale; ma le cose cominciarono a farsi dubbie, intricate e un po’ tragicomiche allorché Dante si trovò di fronte ad un verso “fatale” di Virgilio:

 

Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames?

 

Cioè: “A che cosa non spingi l’uomo a fare, o esecrabile  sete di ricchezze?”.

 

Dante sembra “interpretare” e, invece di tradurre il maestro,  dice un qualcosa di diverso:

 

Perché non reggi tu, o sacra fame

Dell’oro, l’appetito de’ mortali? ( Purg., XXII, 40-41).

 

In altre parole, Dante asserisce: “Ma perché, o sacra fame dell’oro, non cerchi di rivolgere a buon fine lo sfrenato desiderio di ricchezza dell’uomo?”.

 

Apriti, o Cielo! Dai più remoti chiosatori di Dante, all’illustre Domenico Comparetti fino ai moderni nostri esegeti, si sospettò, sia pure con dolore profondo, che Dante ne sapesse poco di latino, che egli avesse “frainteso” completamente Virgilio. Di qui aspre battaglie tra i “follower” sfegatati di Dante e gl’inescusabili detrattori d’un “uom di cotanto senno”.

 

E’ evidentissimo, si diceva da taluni perfidi chiosatori,  che Dante ne sapeva poco di latino! Basta guardare a come traduce sacra, che, nel contesto virgiliano,  significa “esecrabile”. Ma come fa la “fame dell’oro”, ovver  l’insaziabile avidità dell’umanità tutta, a essere sacra? In effetti, in latino, il termine “sacer” è antifrastico, ossia ha due significati opposti: quello di “esecrabile” e quello di “sacro”. E’ lapalissiano che Dante traduce a orecchio, ad occhio, a spanne e a un tanto al metro! Senonché, Francesco da Buti, più spesso citato come “il” Buti, antico commentatore della Comedìa, ci credeva pochino al fatto che Dante potesse far di siffatti svarioni, e commentò il passo così:

 

Quid non mortalia pectora cogis, Auri sacra fames? La quale autorità chiunque espone, la vulgarissa in questa forma: ‘O esecrabile e maladitta fame dell’oro, che non costringi tu li petti umani a pensare e trovare et a fare?’ Quasi dica: ‘Ogni cosa induce li omini a pensare, trovare e fare’. E per tanto si può dubitare come l’autore nostro abbia ora presa la ditta autorità in altro modo di parlare. A che si può rispondere che, li autori usano l’altrui autoritadi arrecarle  a loro sentenzia quando commodamente vi si possono arrecare non ostante che colui che l’à ditta l’abbia posta altra sentenzia e così fa ora lo nostro autore dicendo: ‘o sacra fame dell’oro,  cioè ‘o santo desiderio dell’oro’. Allora è santo lo desiderio dell’oro quando sta nel [giusto] mezzo, e non passa ne l’estremi. ‘Perché non reggi nel mezzo [non guidi] l’appetito dei mortali,  sicché non s’allarghi a volerne troppo, ch’è avarizia, e non si ristringa a non volerlo e gittarlo, che è prodigalità?” (1).

 

Alessandro Ronconi, intervenendo sulla questione, diede ragione al Buti, osservando  come Dante seppe dare alla frase di Virgilio “una validità nuova, secondo le aspirazioni dell’anima medievale di Dante, al di là della citazione dotta o del convenzionale omaggio a una tradizione: immagini e locuzioni diventano espressione di un atteggiamento etico e di un moto dello spirito” (2). Quindi, chiosando la frase del Buti già vista, osservava: “ E quindi rimane valido il presupposto storico culturale necessario  per noi alla stessa intelligenza, non solo artistica, del brano poetico” (Ronconi, p. 202).

 

Occorre poi considerare le “intersecazioni” che latino classico e latino medievale della Bibbia operano nella mente di dante, per cui le due “lingue” si fondono, dando alle parole un valore polisemico. Quando Dante traduce il Superbum Ilion virgiliano ( Poi che il superbo Ilion fu combusto [Inf., I, 75]), il termine superbum-superbo assume una doppia valenza nel cristiano Dante: superbum come nobile e superbum come superbo, nel senso moderno della parola, ovvero un  peccato degno di punizione divina. Di qui occorre pensare che il superbo Ilion dantesco rinvii sì a nobile, ma soprattutto a superbo, “secondo quanto asseriva la Bibbia riguardo l’alta città di Troia, commentava il  Ronconi, superbum Ilion , cioè, come spiega Servio, nobile, diventa in dante simbolo di un vizio capitale, e la sua caduta è vista come un segno di punizione divina” (Ronconi, p. 221). Cosicché Dante non traduceva sempre  Virgilio alla lettera, ma ne piegava il senso “a propria sentenzia”, come diceva il Buti, facendo dell’espressione italiana cosa del tutto diversa e nuova.  Cadono da sé le diatribe che vedevano in  Dante un conoscitore minimo del latino, che spesso fraintendeva il senso del discorso, perché le reminiscenze virgiliane erano sempre “filtrate” dalla  cultura cristiana e biblica del Divin Poeta.

 

Infine, nessuno riuscirà mai a convincermi del fatto  che Dante possa aver “frainteso”  il significato del verso virgiliano Quid non mortalia pectora cogis, Auri sacra fames? [“A che non spingi i petti mortali, esecrabile cupidigia dell’oro?”] (Aen.,  3, 56-57).  Se persino l’ultimo dei chiosatori di Dante l’aveva capito, figuriamoci se il valore antifrastico del termine sacer era sfuggito a Dante! Fole e “ricami”  cui soltanto la Divina Commedia si presta, essendo la Biblioteca Dantesca una delle più gigantesche che mai sia stato dato di vedere nel mondo sublunare.

 

Note

1)      Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Commedia di Dante Allighieri. Pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa, Pei fratelli Nistri, 1860, Tomo II, p. 526.

2)      A. Ronconi, “Per Dante interprete dei poeti latini”, in Filologia e linguistica, Roma, 1968, p. 221.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.