Dino Campana tra Garibaldi, pirati e corsari

Giuseppe Garibaldi

Dino Campana, poeta “difficile” per antonomasia, le cui “visioni” e “allucinazioni” hanno fatto discutere a lungo la critica, a volte s’  “impietosiva” del suo lettore, offrendogli qualche strumento ermeneutico per comprendere appieno il significato di certi suoi versi, altrimenti “oscuri”. L’ “explanatio” offerta talora dai poeti non è un “unicum” nella letteratura italiana. Ricorderò qui certe “dritte” di Montale, che, sotto l’incalzare dei critici, dette talvolta qualche chiave di lettura per una migliore comprensione dei suoi versi.

 

Ma veniamo a Campana. I versi “misteriosi” cui accennavo all’inizio sono compresi in una delle liriche più note di Dino Campana, “Viaggio a Montevideo” (Canti Orfici e altri scritti, a cura di E. Falqui, Firenze, Vallecchi, 1962) in cui, ad un certo punto leggiamo:

 

E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve

Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,

Del continente nuovo la capitale marina.

Limpido fresco ed elettrico era il lume

Della sera e là le alte case parevan deserte

Laggiù sul mar del pirata

De la città abbandonata

Tra il mare giallo e le dune.

 

Perché Campana definì quel mare il “mar del pirata”? La critica, tutto sommato, se l’è cavata egregiamente su questo verso, perché fu lo stesso Campana a spiegare che si trattava di un’espressione ricavata  dalle “Memorie” di Giuseppe Garibaldi, il quale, “nei suoi ricordi parla di pirati che stavano sulle coste dell’Uruguay” (C. Pariani-T. Gianotti, Vita non romanzata di Dino Campana: lettere scelte (1910-1931), Ponte Alle Grazie, 1994, p. 54).

 

Dice Campana: “ E noi cambiammo rotta lasciando le dune; ed all’improvviso apparve la capitale marina (Buenos Ayres) del continente nuovo. La limpida sera era “elettrica”, ossia, “illuminata” dalle luci della citta, che si stendeva solitaria, laggiù,  “sul mar del pirata” della città abbandonata, tra il mare giallo per l’enorme abbondanza (“portentosa dovizia”) di sabbia portata dal fiume.

 

Lo spettacolo che si spalancò dinanzi agli occhi dello stupito Dino Campana, eccitò la fantasia dello stesso Giuseppe Garibaldi, che scrisse una pagina che sembra quasi un commento alla poesia di Campana:

 

“Lo spettacolo che per la prima volta si offriva alla mia vista, per essere degnamente e completamente descritto, avrebbe bisogno e della penna di un poeta e del pennello di un artista. Io vedeva ondulare dinanzi a me, come le onde di un solido mare, I’ immenso orizzonte delle ‘pianure orientali’  così  chiamate, perché sono poste sulla costa orientale del fiume Uraguay che si scarica nel Rio della Piala in faccia a Buenos-Ayres e al di sopra della Colonia. Io vi giuro, che per un uomo the giunge dall’altra parte dell’Atlantico, ed in specie poi per un italiano, è veramente uno spettacolo affatto nuovo, perché questi è nato e cresciuto su di un suolo ove è raro di rinvenire un iugero di terreno senza una casa o qualunque altra opera uscita dalla mano dell’uomo” ( Memorie di Giuseppe Garibaldi  pubblicate da Alessandro Dumas,  Siena, 1860,  pp. 57-58).

 

Ad un certo punto Garibaldi scrive: “E’ una vasta, un’immensa, una insuperabile pianura ed il suo aspetto presenta […] quello di un tappeto di verdura cesellato di fiori di tanto in tanto” (p. 58).

 

E Campana:

 

La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:

e vidi come cavalle

Vertiginose che si scioglievano le dune

Verso la prateria senza fine …

(E ho visto che dune che, ondulate, si stendevano come cavalle in una corsa vertiginosa).

 

Potremmo concludere dicendo che il desiderio di Garibaldi di trovare la “penna di un poeta” che descrivesse questi luoghi immensi e straordinari fu esaudita: Dino Campana fu il poeta.

 

Quanto al “pirata” citato da Campana, in effetti Garibaldi, più che a pirati, fa riferimento ai “corsari”, o, meglio, a se stesso come un “corsaro” sperduto in quelle  immense “pianure orientali”:

 

“O meraviglia della natura! Miracolo della creazione! Come esprimere l’emozione che provava alla vostra vista questo corsaro di 25 anni che per la prima volta protendeva le braccia verso l’immensità?” (p. 59).

 

Non c’è che dire: anche Garibaldi non se la cavava malaccio con le immagini poetiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.