Dos Passos: fuga da Metropolis

Nato nel 1896 a Chicago, J. Dos Passos ivi completò  i suoi studi  e si laureò nel 1916 . Trasferitosi in Europa per ragioni di studio, entrò volontario nella Croce Rossa americana e fece servizio d’ambulanza nel corso della prima guerra mondiale. Uno dei suoi più noti romanzi, Tre soldati, pubblicato nel 1921, resta ancora oggi uno fra le più interessanti testimonianze di guerra, e le opere successive lo consacrano fra i migliori scrittori non solo americani.

Partecipò attivamente alle lotte sociali in America, e si distinse nella difesa di Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani accusati, ingiustamente, di essere autori di un delitto che li portò dritti alla pena capitale (agosto 1927), nonostante fossero state individuate le prove certe della loro innocenza. Dos Passos si distinse quindi già da allora non solo come un intellettuale e romanziere impegnato nella difesa dei diritti umani, ma anche come un analista sociale di notevole spessore culturale.

Mentre i suoi romanzi sono largamente noti al grande pubblico, meno conosciuta è probabilmente la sua attività di critico e studioso della società americana. In questo senso, Dos Passos scrisse saggi molto importanti di carattere storiografico, in cui si pose il problema della storia come strumento d’interpretazione del presente:

“Every generation rewrites the past. In easy times history is more or less of an ornamental art, but in times of danger we are driven to the written record by a pressing need to find answers to the riddles of today. We need to know what kind  of firm ground other men, belonging to generations before us,  have found to stand on. In spite of changing conditions of life they were not very different from ourselves, their thoughts were the grandfathers of our thoughts, they managed to meet situations as difficult as those we have to face […] We need to know how they did it”  [“Ogni generazione, dice Dos Passos, riscrive il proprio passato.  Nei tempi buoni, la storia è, più o meno,  un’arte ‘esornativa’, ma in tempi difficili  siamo sospinti a indagare il passato dalla pressante esigenza di trovare risposte urgenti agli interrogativi di oggi. Abbiamo bisogno di sapere quali vie altri uomini, appartenenti alle generazioni vissute prima di noi, hanno individuato per affrontare la vita. Nonostante le mutate condizioni,  essi non erano molto diversi da noi; e i loro pensieri furono un po’ i ‘nonni’ dei nostri pensieri; essi affrontarono situazioni altrettanto difficili di quelle con cui anche  noi oggi dobbiamo misurarci […] Abbiamo un bisogno disperato di sapere come hanno fatto…”] (1).

E’ evidente che da una simile concezione della storia, tutta protesa a cercare le radici delle capacità che ebbero le passate generazioni di individuare il modo di superare le difficoltà dell’esistenza, di “rispondere a situazioni altrettanto difficili di quelle con cui oggi dobbiamo misurarci” noi moderni, ne discendono corollari tutt’altro che peregrini.

Intanto, direi, un sostanziale rifiuto del sistema di vita che la società  americana stava imponendo a individui, che ormai agivano essenzialmente come massa, avendo appunto perduto il senso dell’individualità; e i quali erano letteralmente rintronati dai ritmi frenetici della civiltà industriale; incapaci di pensare, perché la vita della metropoli impone ritmi convulsi, inculca un pensiero unico (la ricerca del denaro a tutti i costi), e non c’è davvero il tempo materiale per chiedersi se quello che si sta facendo abbia un “qualche” senso.

La domanda rivolta ai nonni fa pertanto presupporre che Dos Passos si stesse interrogando sulla necessità di un ritorno a stili di vita  più congeniali al genere homo sapiens. Nei suoi romanzi, infatti, egli  analizzò con estremo acume l’impatto che le enormi città americane avevano sugli individui.

L’opera che rese famoso Dos Passos fu Manhattan Transfer , il romanzo della gigantesca metropoli e dei suoi impliciti valori simbolici tipicamente urbani e, soprattutto, metropolitani.  Manhattan, è stato osservato, rappresenta il cuore di New York, con i suoi grattacieli smisurati, segnali inossidabili della metropoli gigantesca. Il romanzo si può sostanzialmente dividere in tre parti: l’avvicinamento dei protagonisti alla conquista della metropoli, che pare loro il simbolo stesso dell’energia vitale; la lotta che impone la città smisurata nel conseguimento del successo; e, infine, la rinuncia disperata di uno dei protagonisti, Jimmy Herf.

La città, dunque,  con il suo gigantismo, attrae, misteriosa, e apparentemente accogliente i vari personaggi che si aggirano lungo le sue strade colorate. Poi, a poco a poco, Metropolis si rivela tutt’altro che facile: sullo sfondo c’è, incessante,  il rumore, prima fastidioso, poi assordante, del traffico cittadino, che  rintrona nel cervello:

“Eleventh Avenue is full of icy dust, of grinding rattle of wheels and scrape of hoofs on the cobblestones. Down the railroad tracks comes the clang of a locomotive bell and the clatter of shunting freight-cars”  [“L’Undicesima strada è piena di polvere ghiacciata, del gracchiante sferragliare di ruote e del picchiettare di zoccoli sul selciato. Lungo i binari della ferrovia arriva il clangore della  campana d’una locomotiva, e lo sferragliare dello smistamento dei vagoni merce”] (2).

La città smisurata è poi il luogo degli affari, del business: la  quintessenza dello stile di vita americano. Il business letteralmente “succhia”, quasi  vampiro, ogni energia vitale:

“She put her arms round his neck and kissed him hard on the mouth. ‘What are we goin’ to do? Shall I come in this afternoon?’ […] ‘No, I can’t Nellie … Business … business ….  I’m busy every minute.” [ Gli buttò le braccia  al collo e lo baciò appassionatamente sulla bocca. ‘Che facciamo? Ci vediamo nel pomeriggio? […] No, non posso Nellie… Gli affari… Il business … Non ho un minuto di tempo libero”].

L’ottima risposta nonché giusta vendetta di Nellie:

“ ‘Oh yes you are […] All right have it your own way.’ She slammed the door.”

[“ ‘Oh sì, tu sei […] E’ giusto che ognuno segua la propria strada’. E gli sbatté  la porta in faccia” ] (3).

Con passaggi repentini per luoghi e ambienti diversi, New York stordisce i suoi abitanti, i quali vivono un eterno presente senza storia, trascinanti nel rutilante vortice della spaventosa metropoli, che Dos Passos paragona a Ninive e a Babilonia:

“There were Babylon and Nineveh” [All’inizio di tutto furono Babilonia e Ninive] (4).

Romanzo simbolico, in Manhattan Transfer  la città  indicizza,  nel suo strutturarsi, nella sua architettura, lo status sociale di chiunque la vive: l’imbarcadero (pier) rinvia al duro lavoro, dove

“men and women press through the manure-smelling wooden tunnel of the ferry-house, crushed and jostling like apples fed down a chute into a press” [ “uomini e donne premono in ressa nel tunnel di legno pregno dell’odore di letame del traghetto, schiacciandosi e spintonandosi come mele spinte giù per uno scivolo in una pressa”] (5).

E ancora,

“Men’s and women’s faces as they pass her are rumpled and grey like pillows that have been too much slept on” (p. 211) [ “I volti degli uomini e delle donne che le passano accanto  sono grigi e sgualciti  come i cuscini su cui ci si abbia dormito troppo sopra”] (6).

“In Tompkins Square yelling children mill about the soggy asphalt. At her feet a squirming heap of small boys, dirty torn shirts, slobbering mouths, punching, biting, scratching; a squalid smell like mouldy bread comes from them” [ “In Tompkins Square alcuni ragazzini strillano,  agitandosi scomposti sull’asfalto fradicio. Ai suoi piedi un mucchio di bambini piccoli, sporchi, con le camicie strappate, le  bocche bavose, litigano tra loro, mordono, graffiano, emanando uno squallido olezzo di pane ammuffito”] (7).

I personaggi sembrano letteralmente risucchiati in un mondo che, alla fine,  diventa incomprensibile, perché essi, in simultanea,  si imbattono nel tutto e nel contrario di tutto: ricchezza smisurata, miseria altrettanto smisurata, lavoro durissimo, corruzione, giornali,  criminalità,  lotte sociali, morte, omicidi e suicidi, falsi ideali collettivi  (8) .  Una sorta d’indecifrabile Circo Barnum in cui trovi di tutto, in una rutilante danza (macabra) dove politica, cronaca nera, e “spettacolo” (in tutte le sue possibili declinazioni) onnubilano il senso  di  ciò che accade sotto i loro occhi: uno spectaculum “presentistico” senza storia, e cioè “senza senso”.

Come accade a Bud Korpenning, “good worker” (buon lavoratore), approdato a New York con l’idea di far fortuna, quando si siede dal barbiere e legge sul giornale:

“Admits Killing Crippled Mother:

‘Nathan Sibbets, fourteen years old […],  confessed to the police that he was responsible for the death of his aged and clippled mother, Hannah Sibbets, after a quarrel in their home’ […] Bud  fold the paper carefully, lays it on the chair and leaves the barber-shop. Outside the air smells of crowds, is full of noise and sunlight. No more’n a needle in a hay-stack … ‘An’ I’m twenty-five years old,’ he muttered aloud. Think of a kid of fourteen. He walks faster along roaring pavements where the sun shines through the Elevated […] No more’n a needle in a hay-stack”

[“Confessa d’aver ammazzato la madre paralitica.

‘Nathan Sibbets, quattordici anni […],  ha confessato alla polizia di essere responsabile della morte della sua vecchia madre  paralitica, Hannah Sibbets, dopo un litigio in casa’ […] Bud piega il giornale  con attenzione, lo mette sulla sedia e lascia il negozio del barbiere. All’esterno l’aria profuma di folla, è ricolma di rumori e di luce solare. Niente di più che un ago in un pagliaio … ‘ E poi io ho venticinque anni,’  esclamò ad alta voce. Pensa un po’: un ragazzino di quattordici anni . Cammina più veloce lungo marciapiedi dove il sole splende passando attraverso la strada sopraelevata […] Nulla di più che un ago in un pagliaio ] (9).

Bud pensa che l’evento del ragazzino che ammazza in casa la madre paralitica sia “nulla di più che un ago in un pagliaio”, ossia  soltanto un caso eccezionale, l’atto sconsiderato d’un teenager irresponsabile  (“Per fortuna, pensa Bud, godendo tra sé e sé.  io di anni ne ho ben venticinque!”).

Bud, cioè, ragiona al “presente indicativo”, senza neppure sospettare che l’ “astruso” fatto di cronaca nera letto sul giornale possa configurare responsabilità ben più larghe e profonde. L’ apparente irrazionalità dell’ evento disorienta letteralmente il personaggio. In realtà, ciò che Bud non sospetta è che nel sottosuolo di Metropolis  viaggiano leggere su binari paralleli modernissime, potentissime e ormai irrefrenabili “visioni del mondo”: da a parte la  disistima  (latente, ma sempre presente) per i cosiddetti valori tradizionali, direi quasi ancestrali, come il rispetto della vita altrui, tanto per fare un esempio che banale proprio non è; e dall’altro la  “stima” (se così vogliamo esprimerci) eccessiva per ciò che conosciamo come pensiero unico: ossia il denaro a qualsiasi costo, il successo e il potere acquisito con tutti i mezzi, immaginabili e inimmaginabili.

Cosa voleva il ragazzino che aveva ammazzato la madre paralitica? Qualunque fosse stato il motivo, anch’egli però s’iscriveva a pieno diritto, anche se magari in senso lato, nella ricerca  “collettiva”,  ansiosa, ansiogena, unidirezionale, del successo personale, o dei soldi,  uniche  mete su cui ruota  l’intera l’esistenza di “tutti” nella strabocchevole Metropolis: cosa che implica lo sbarazzarsi sbrigativo d’ogni inciampo che in qualche modo impedisca il cammino verso l’agognata meta, sia essa la libertà personale, i soldi, o il soddisfacimento immediato di determinati ambizioni.

E’ pacifico  riscontrare nella critica di Dos Passos  una repulsa profonda della via americana al successo, e la denuncia evidentissima dei danni provocati da uno stile di vita  ritenuto dallo scrittore contrario ai ritmi naturali del genere homo; il che comporta, a suo avviso, sia una  perdita secca d’identità sia la demolizione chirurgicamente scientifica di “un equilibrato sviluppo della personalità”. M. Pala osservò seccamente che il giudizio dello scrittore americano sulla vita delle metropoli fu “estremamente negativo” (10); e che Manhattan Transfer  fu interpretato da molta parte della critica americana come un’opera di propaganda “ostile alla cultura americana dovuta alla concentrazione del potere in mano a gruppi anonimi e all’ossessione dell’idea del successo cui viene subordinato un equilibrato sviluppo della personalità” [corsivi miei] (11).

E’ indubbio che la critica americana fu colta in contropiede da Manhattan Transfer, e le primissime reazioni alla comparsa del romanzo nel 1925, furono, direi, non soltanto contrastanti  ma  per taluni versi poco mirate . Si passò dai peana di D. H. Lawrence, F. Scott Fitzgerald e Sinclair Lewis  (per il quale Manhattan Transfer era un  capolavoro assoluto che inaugurava  la nuova via del  romanzo, superando  Gertrude Stein, e addirittura Marcel Proust, e James Joyce),  ai giudizi un po’ troppo sbrigativi  di Paul Elmer More  e di Mike Gold. Il primo osservò che Dos Passos aveva colto soltanto gli elementi negativi della città, mentre molti newyorchesi ci stavano  benissimo a New York. Al che si sarebbe potuto rispondere che molto (tutto, o quasi) dipende da quale parte vivi di New York. Il secondo, Mike Gold, dopo aver lodato sia le capacità d’osservazione dello scrittore, definito  tuttavia un “intellettuale borghese”, sia il suo stile sperimentale, rapido e moderno, lo accusò   di non aver ben individuato le cause di una tale situazione esistenziale, e ciò perché  Jimmy Herf, lo  “sconcertato giovane borghese idealista” che vuole fuggire dai mali del consumismo americano,  non sa in realtà  “come”, soprattutto perché lo stesso Dos Passos non lo sapeva (12).

A Mike Gold si sarebbe potuto rispondere che stava facendo un po’ di confusione sui generi, essendo Manhattan Transfer un romanzo e non un trattato di sociologia o di filosofia politica. In generale tuttavia la critica americana fu unanime nel riconoscere la novità della lingua di Dos Passos, il quale, si disse,  aveva saputo dare un ritmo estremamente veloce e concitato alla narrazione, facendo il paio perfetto con l’intrecciarsi tumultuoso degli eventi che vivevano i protagonisti, “costruendo, si disse ancora,  un’immagine fantasmagorica della metropoli” (13);  dando di essa un “montaggio cinematografico”, con “tecniche pittoriche” d’avanguardia, che farebbero, queste ultime,  di Dos Passos, “ il più grande scrittore del nostro tempo” [Sartre] (14).

Certo che il quid dell’opera di Dos Passos sta non  soltanto  nello stile “rapido” ( che tra l’altro è un po’ tipico della letteratura americana), ma anche e soprattutto sui severi dubbi sollevati circa la dimensione dis-umana (senza storia) dell’ American way of life.

In questo senso, come suggerì l’ottimo Mike Gold, l’unico che sembrerebbe averne proprio piene le tasche di Metropolis, enorme calderone di miserie e di non ben quantificabili  millions of dollars (di cui si sente soltanto parlare, passando sempiternamente essi nelle tasche degli “altri”),  sarebbe Jimmy Herf, il cui problema di fondo non era però tanto “come” fuggire, come pensava Mike Gold  (Jimmy salta infatti sul primo camion che gli capita), quanto  “dove” andare poi a sbattere la testa.  Dopo aver speso gli ultimi spiccioli per una lauta colazione, Jimmy chiede a un camionista:

“Say will you give me a lift?” he ask the red-haired man at the wheel. “How fur ye goin’?”

“I dunno … Pretty far.”

[ “ ‘Mi daresti uno strappo?’ chiede all’uomo dai capelli rossi al volante. ‘Dove sei diretto?’ ‘Non lo so… Ma  il più lontano possibile’”] (15)

Sì, Jimmy, “il più lontano possibile”.

Ma dove?

 

 

 

 

 

Note

1)      John Dos Passos, The Ground We Stand on:  Some Examples from the History of a Political Creed, Houghton Mifflin Company, Boston and New York, 1941, p. 2.

2)      John Dos Passos, Manhattan Transfer, London, John Lehmann,  1925, p. 46 (Traduz. mia).

3)      Ivi, p. 68.

4)      Ivi, p. 17.

5)      Ivi, p. 9.

6)      Ivi, p. 211.

7)      Ivi, pp. 211-212.

8)      Pierre Saint-Arnaud, Park, Dos Passos, metropolis: regards croisés sur la modernité urbaine aux États-Unis, Presses Universitaire du Mirail, 1998,  pp. 152-159.

9)      John Dos Passos, Manhattan Transfer, cit.,  pp. 21-22.

10)    M. Pala, “Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste”, in ‘Berlin Alexanderplatz’ di Alfred Döblin e ‘Manhattan transfer’ di John Dos Passos, editoriasardacuec, 2005, p. 208.

11)    Ivi, p. 209.

12)    Cfr. l’ottima antologia della critica su Dos Passos approntata da Barry Maine : John Dos Passos, The Critical Heritage, Edited by Barry Maine, Routledge, London-New York,  1988, pp. 5-6.

13)    Ivi, p. 214.

14)    Ivi, p. 215.

15)    John Dos Passos, Manhattan Transfer, cit.,   p. 351.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.