Filologia dantesca

Gli esercizi della critica sull’opera di Dante, specie per quanto riguarda la filologia e l’esegesi di tutto il “corpus” del poeta fiorentino trasmessoci dalla tradizione, crea, per usare un’azzeccata espressione di Contini, un serio “sgomento” nel lettore. In effetti, tutto quello, o quasi, che noi oggi leggiamo di Dante è stato nel corso dei secoli oggetto di una vera e propria “battaglia” tra filologi, su una parola, una frase, sui codici, sulla tradizione del testo, ecc.; una battaglia che continua, e che probabilmente non pare destinata a esaurirsi. Poiché tutte le opere di Dante, nessuna esclusa, sono materia di controversia più o meno accesa, partiremo dalle opere giovanili, anche se ovviamente in modo cursorio, rimandando il lettore alle note bibliografiche per i necessari approfondimenti.

La “Vita Nuova” ci è pervenuta attraverso quarantadue codici, il che testimonia della grande fortuna dell’opera presso i contemporanei. Si tratta di codici “completi”, nel senso che, accanto alle poesie, compaiono anche le prose con cui Dante le spiegava con le famose “divisioni”. Accanto a questi, la tradizione ci ha conservato altrettanti codici, circa quaranta, privi però delle parti in prosa. La cosa probabilmente si spiega con il fatto che le “divisioni” potevano sembrare a molti inessenziali; il Boccaccio, per esempio, copiando l’opera, non le inserì nel testo, ma ai margini, poiché “più tosto chiosa paiono essere che testo”. Michele Barbi spiegò la presenza delle cosiddette “ragioni” in prosa con il fatto che Dante voleva apparire sin dall’inizio un poeta raffinato e non ” di quei rimatori ‘grossi’ che rimano a caso” (M. Barbi).

E veniamo alle controversie, che dettero il via a una sequenza piuttosto nutrita di studi e diatribe. Le riassume, per la “Vita Nuova”, rapidamente il Barbi: l’opera fu scritta effettivamente in onore e lode di Beatrice o per la “donna gentile” che consolò Dante caduto in disperazione e che per qualche tempo sostituì Beatrice stessa? La vera protagonista è Beatrice o l’allegoria della filosofia? L’opera fu scritta in modo autonomo rispetto al “Convivio” e alla “Commedia” oppure costituisce parte di una sorta di “trilogia” pensata da Dante?

Le questioni testuali, dato il forte numero dei testimoni della tradizione sono state varie e molto complesse, e si sono pressoché concluse, per unanime accettazione, nel 1932, ovvero con l’edizione critica curata da Michele Barbi (Firenze, 1932).

nota

Per una rapida visione d’insieme delle questioni testuali e delle successive controversie, si legge con profitto G. Padoan, “Introduzione a Dante”, Firenze, Sansoni, 1975. A un livello di discussione critica più generale ma di notevole spessore, G. Contini, “Filologia ed esegesi dantesca”, in ” Un’idea di Dante”, Torino, Einaudi, 1970, pp.114-142. Per un’informazione generale sulle varie opere, M. Barbi, “Dante. Vita, opere e fortuna”, in “Dante, tutte le opere”, a c. di L. Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, pp.3-50. Sulla “Vita Nuova”, in particolare le pp.16-17.
Come si diceva in precedenza, le questioni testuali e di attribuzione interessano tutta l’opera di Dante. In questo senso, una lunghissima “querelle” è quella relativa al “Fiore”, traduzione toscana del “Roman de la Rose”, attribuito a Dante già in un codice trecentesco (Riccardiano 2735). Da indagini linguistiche e da altri elementi intrinseci, alcuni critici autorevoli, dal D’Ovidio al Rajna, si espressero per l’attribuzione a Dante, mentre altri (Parodi)la negarono recisamente. In senso favorevole all’attribuzione ha discusso in un saggio giustamente famoso Gianfranco Contini, per il quale un filo rosso unisce il “Roman de la Rose”, il “Fiore” e la “Commedia”: ” l’inizio della ‘Rose’ si riflette in altre opere della sfera dantesca, e anzitutto si riflette nella ‘Commedia’”.

Una battaglia senza precedenti si è scatenata intorno alle “Epistole”, le quali ci sono pervenute attraverso varie fonti; una tra le più autorevoli è testimoniata dal un Codice Laurenziano noto come “Zibaldone boccaccesco”, autografo appunto del Boccaccio, con tre epistole, mentre le altre attraverso il Codice Vaticano Palatino latino 1729, che ha una storia a dir poco romanzesca. Il codice in questione fu donato dal duca di Baviera Massimiliano I a papa Gregorio XV, il quale incaricò il notissimo erudito Leone Allacci di recarsi in Germania e di occuparsi scrupolosamente del prezioso materiale. Questi tornò a Roma dopo svariati mesi e un durissimo lavoro di inventariazione svolto in Germania e consegnò le preziose casse alla Biblioteca Vaticana. In un codice, appunto il 1729, descritto con estrema puntualità dagli eruditi, v’erano alcune epistole di Dante, le quali furono variamente sottoposte al vaglio della critica, con il risultato, almeno iniziale, che pressoché nessuna fu accettata come dantesca. Una in modo particolare ( la lettera al cardinal Niccolò da Prato ) aprì la via a una sequenza interminabile di giudizi favorevoli o contrari; oppure a salomoniche “sospensioni” di giudizio, come quelle a suo tempo esemplari di Isidoro Del Lungo, il quale fece osservare che davvero non c’erano prove cortissime che la lettera fosse di Dante, ma nemmeno si poteva dire assolutamente il contrario. Altra lettera molto discussa fu quella a Guido Da Polenta, perché di mezzo c’era il Doni, che godeva fama di falsario. G. Padoan rileva che la cosa ha fatto sì che oggi la critica la ritenga un falso; però, osserva ancora Padoan, ci sono anche seri motivi per ritenerla dantesca. Possiamo concludere la questione con le parole di Michele Barbi: “…Dell’autenticità di alcune delle epistole che sopravvivono la critica ha dubitato e dubita, ma ragioni vere per toglierle al nostro autore non abbiamo”.

Il “De Vulgari eloquentia” ci è trasmesso dalla tradizione da soli tre codici, due padovani e uno bolognese. L’ “editio princeps” a stampa si ebbe a Parigi nel 1577; preceduta da una traduzione in volgare del Trissino, pubblicata a stampa a Vicenza nel 1529. La scarsezza dei codici dimostra comunque che l’opera fu decisamente poco conosciuta, anche e soprattutto perché incompiuta: da ciò le discussioni critiche volte in qualche modo a interpretare compiutamente il pensiero di Dante, in questa sede non completamente espresso per via del fatto che l’opera appunto non fu conclusa. Le discussioni, quindi, più che testuali sono state di contenuto.

Al Contrario del “De Vulgari eloquentia”, la tradizione manoscritta del “Convivio” è stata piuttosto corposa, di oltre quaranta codici, ed “editio princeps” a stampa a Firenze nel 1490. Sul “Convivio” le discussioni testuali sono state molto ampie, poiché il Bonaccorsi, che curò l’ “editio princeps” del 1490 si era basato su un codice molto scorretto, cosa che ha successivamente complicato il lavoro di restituzione del testo. Altre questioni sono sorte circa i rapporti dell’opera con la “Vita Nuova”.

Nota

Per l’attribuzione del “Fiore” a Dante, cfr. G. Contini, “Un nodo della cultura medievale: la serie ‘Roman de la Rose’-‘Fiore’-‘Divina Commedia’”, in “Un’idea di Dante”, Torino, Einaudi, 1970, pp. 245-283. La citazione è a p. 270. Per la storia dei Codici Palatini Latini della Vaticana che contengono alcune lettere di Dante, cfr. le note eruditissime di Oddone Zenatti sul tema, in ” Dante e Firenze Prose Antiche”, a c. di F. Cardini, Firenze, Sansoni, 1984 ( I Ediz. 1902), in particolare le pp. 370 sgg. e nota 1. Per le Epistole, il “De Vulgari eloquentia” e il “Convivio”, cfr. le note filologiche precise e puntuali di G. Padoan, “Introduzione a Dante”, Firenze, sansoni, 1975, in particolare le pp.36-37; 55-56; 68-69; 72-73; 99-101. La citazione del Barbi è tratta da M. Barbi, “Dante. Vita, opere e fortuna”, in “Dante, tutte le opere”, a c. di L. Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, p. 23.

 

Divina Commedia. Tradizione del testo

 

Per la tradizione del testo della “Commedia”, la critica si è dovuta confrontare con problemi decisamente irrisolvibili anche per le tecniche più collaudate di recensione dei codici. Il numero elevatissimo di essi, che supera i seicento, ha creato discussioni e tentativi spesso vani, dei quali possiamo individuarne l’eco nelle opere di Michele Barbi, che per lungo tempo studiò le problematiche testuali della “Commedia”. La questione del testo, che alla metà dell’800 vide un primo tentativo di soluzione con Carlo Witte ( “La Divina Commedia”, Milano, Duelli e C. Editori, 1864), è stata risolta intorno alla metà degli anni ’60, con unanime soddisfazione, da Giorgio Petrocchi, il quale allestì il testo critico della “Commedia” “secondo l’antica vulgata”. Il problema, come si accennava, stava nel numero esorbitante di testimoni con cui i filologi dovettero confrontarsi. Il testo base allestito dal Boccaccio, che si individua nella copia della “Commedia” inviata al Petrarca nel 1359, contrassegnato Vaticano Latino 3199, conobbe già alla metà del 1300, essendo ancora in vita il Boccaccio, almeno due-tre diramazioni (Codici Trivulziano 1080 del 1337 e Urbinate Latino 366 del 1352), dalle quali scaturì una tradizione numerosissima di altri codici le cui lezioni si sono andate sovrapponendo, creando una situazione disperante per quanti si accinsero a darne un’edizione critica scientificamente accettabile. Lo stemma dei codici della “Commedia” approntato da Petrocchi mostra chiaramente come le varie tradizioni si andassero intersecando a tal punto da rendere impossibile districare il problema. Già l’edizione del 1921, approntata dal Vandelli con l’ausilio di molti studiosi, pur essendo riconosciuta valida, lasciava insoddisfatti, tanto che, come si diceva, la soluzione individuata da Petrocchi, [ “La Commedia secondo l’antica vulgata”, Milano, Mondatori, 1966-’67, specie l’ “Introduzione”], trovò benevola accoglienza fra gli studiosi di Dante. Le problematiche testuali sollevate dal restauro critico della “Commedia” sono state illustrate da Antonio Enzo Quaglio sia nell’ “Enciclopedia Dantesca”, Roma, 1970-’78, sia in un articolo sulla rivista “Cultura e Scuola”, “Sulla cronologia e il testo della “Divina Commedia”, n. 13-14, pp. 242-253. Per le difficoltà relative alla tradizione si legga M. Barbi, “La nuova Filologia”, cit, in particolare le pp. VIII e IX dell’ “Introduzione”.

 


Dante e le “letture” della “Commedia”

In un non molto ampio, ma succoso saggio apparso presso Sansoni nel 1975, G. PADOAN, a proposito degli studi attuali sul significato generale della “Commedia”, scriveva che la ricerca ormai tende a orientarsi verso un’indagine sempre più serrata del retroterra culturale entro cui si colloca l’opera maggiore di Dante. Ciò, soprattutto, come reazione alla selva selvaggia delle inter­pretazioni, iniziate col Romanticismo e protrattesi fino a Bene­detto Croce e ai suoi epigoni.
Il Romanticismo nell’opera dantesca esaltò la figura dell’esule solitario e pugnace contro i colpi del destino; in alcuni perso­naggi della “Commedia”, Farinata ad esempio, volle individuare il profondo amore di patria; in Ulisse esaltare l’ansia di conoscen­za.

La critica crociana sviluppò, per conto suo, una esegesi oltremo­do riduttiva, proponendo infatti una lettura cursoria del poema dantesco, secondo i canoni della Poesia e non Poesia, tendendo a porre in evidenza i momenti lirici e a relegare fra l’inutile in­gombro dottrinario tutto quanto appariva ideologia, politica, fi­losofia: sovrastruttura, per dirla in breve.
I due metodi critici cui si accennava poc’anzi, appaiono, alla luce della critica moderna, errati e anche fuorvianti: comunque non idonei a una retta comprensione della “Commedia”.

La critica più avanzata propone invece una lettura integrale, senza salti arbitrari, del Poema Sacro, e, in questa prospettiva, uno studio il più profondo possibile della cultura del tempo di Dante, dato ineliminabile per chi vuole veramente comprendere il messaggio dell’opera dantesca.

Su questa scia, ottimi sono apparsi in Italia il commento di Na­talino Sapegno, che già agli inizi degli anni’50 proponeva una maggiore adesione al tessuto culturale dei tempi di Dante; e i numerosi interventi di Bruno Nardi; fra gli stranieri, partico­larmente stimolanti sono apparsi gli studi di Erich Auerbach.

L’indirizzo della critica sembra quindi essere il seguente: un sostanziale recupero del Dante Medioevale.
In una conferenza tenuta a Modena nel 1965 sullo “Sviluppo del Pensiero e dell’Arte di Dante”, Bruno Nardi, riassumendo anche gli studi svolti in precedenza, sottolineò l’importanza enorme che ebbe lo studio della filosofia nell’evoluzione del pensiero di Dante, e come una conoscenza di essa sia assolutamente neces­saria per una corretta interpretazione di tutta quanta la sua o­pera.

Ricordava, tra l’altro, l’influenza assai notevole che ebbe su Dante il suo primo amico, Guido Cavalcanti, il quale lo indiriz­zò, dopo la morte di Beatrice, verso le scuole dei “filosofanti” di Bologna e Firenze; di qui sembrerebbe avere origine quella poesia filosofica rappresentata dalla canzone “Voi che ‘ntendendo…”.

Dalle meditazioni filosofiche e dal duro impatto con l’esilio e infine dalle considerazioni sulla società contemporanea, nasceva­no le riflessioni dantesche intorno all’importanza dell’impero e del papato, dalla cui concordia doveva scaturire una società nuova, che si doveva governare secondo le leggi stabilite da Cristo. Filologia dantesca.Tali meditazioni, secondo Nardi, costituirono una vera folgora­zione per Dante, che, ormai, alla stregua di Gioachino da Fiore, “di spirito profetico dotato”, si sentì investito di una missione divina; quella cioè di essere il poeta-profeta del suo tempo.

Non meno importanti e significativi sono apparsi i numerosi con­tributi, veramente eccezionali per acume e dottrina, di E. Auerbach, in gran parte raccolti nel volume “Studi su Dante”, edito da Feltrinelli.

Ci si riferisce in modo particolare al saggio “Figura”, che apre le porte a una lettura molto più feconda della “Commedia”.

In contrapposizione all’allegoria, per la quale i personaggi dan­teschi sono visti semplicemente come simboli di qualità morali, l’interpretazione figurale auerbachiana è qualcosa di eccezional­mente più profondo.

In forza di essa, i personaggi diventano prefigurazioni esemplari di un qualcosa che deve accadere e che ha avuto il suo compimento in Dio.

In più, essi non perdono nulla della loro consistenza storica e fisica: Catone, ad esempio, è stato l’uomo che ha compiuto deter­minate azioni, ma egli è anche storicamente figura, o, per meglio dire, prefigurazione di un qualcosa che doveva realizzarsi in futuro.

Secondo Auerbach, la capacità interpretativa figurale permeava di sé le menti degli uomini del Medioevo, cosicché essi non duravano alcuna fatica a interpretare determinati aspetti delle opere poe­tiche contemporanee.

Tale capacità sarebbe infine durata sin quasi al XIII secolo, dopo di che noi ne avremmo perduto completamente il senso e il valore.

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.