Gadda al fronte, tra asini e scarpe sfondate

Di Gadda possiamo dire molte cose, tra le quali che egli non perse mai lo smalto dei suoi anni più verdi; uno smalto abbacinante, carico d’una talora ammiccante e talvolta pesante ironia,  di  rabbia repressa,  sfociante  nello sberleffo più atroce verso l’autorità e il potere.

 

Se andiamo un po’a rileggerci il suo Giornale di guerra (1), saltano fuori momenti  ferocemente sarcastici e ironici. Non costituisce problema esegetico particolarmente ostico darsi una ragione sufficiente dei motivi   per i quali il Giornale fu pubblicato tanti e tanti anni più tardi rispetto agli eventi in esso registrati.

 

La grande guerra,  cui Gadda partecipò come ufficiale degli Alpini,  era carica di troppe croci per poterne fare un uso disinvolto; e pertanto egli tenne tutto nel cassetto, fino alla metà degli anni ’50, “convinto della impossibilità della loro pubblicazione, sia per i severi giudizi ivi contenuti sia per la realistica rappresentazione della guerra” (2).

 

Sulla severità dei giudizi, non ci piove. In tempi d’Italia non povera, ma viepiù miserabile; in tempi in cui il soldato, per dirla con Ungaretti, trascinava la sua carcassa in mezzo al fango, gli uomini di potere sono visti come appartenenti a un mondo altro: a parte l’asinità generale che li contraddistingue,  è il loro sofisticato e pleasant lifestyle cui Gadda guarda attonito, “quando fanno visita al fronte”, ché fa da contrasto insopportabile con la realtà impietosa della guerra: “buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni”.

 

Le loro qualità intellettuali  appaiono al giovane sottotenente Carlo Emilio Gadda assolutamente difformi rispetto all’immane bisogna della guerra. Nel peana finale egli li accomuna tutti sotto il segno della gloriosa stirpe asinina. D’altro canto, essendo tra gli Alpini, d’asini Gadda doveva davvero intendersene, e molto:

 

“Asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni. Ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci di osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi; scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe  è la prima cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni”.

 

Quanto ai soldati, Gadda, nella sua qualità di ufficiale, sarebbe stato propenso per una ferma disciplina; ma non poteva non notare che essi erano vittime incolpevoli di delinquenti.

 

“I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente […] Dopo due o tre giorni si aprono […] Questo fatto ridonda a totale danno, oltre che dell’economia dell’erario, del morale delle truppe, costrette […] alle orribili sofferenze del gelo […] Come scuso, io, i loro brontolamenti, la loro poca disciplina! Essi portano il vero peso della guerra […] e sono i peggio trattati”.

Quelli che mandano simili scarpe sono delinquenti.

“Quanto delinquono coloro che per frode o incuria li calzano”.

Se avesse trovato il tipaccio che aveva tecnicamente manufatto quelle scarpe l’avrebbe “provocato a rissa per finirlo a coltellate” .

“E lasciamo andare, ma si tratta pur sempre di frodatori dell’erario, e vera rovina dell’esercito […] Possano morir tisici, e che vedano i loro figli scannati a colpi di scure”.

 

I “casti” esempi (ce ne sono di molto più crudi) qui sottoposti all’attenzione del lettore spiegano abbondantemente perché Gadda avesse tenuto ben chiuso nel cassetto questo Giornale, vergato di prima mano, lui giovane ufficiale nella grande guerra che, d’estrazione borghese,  ed educato in una scuola dove i valori della Nazione erano stati esaltati sino al paradosso, non poteva non sentirsi profondamente deluso dallo scontro, assolutamente perdente, tra l’ideale e il reale.

 

E infine una frase che sibillina non è:

 

“Gli italiani sono tranquilli quando possono persuader se medesimi di aver fatto una cosa, che in realtà non hanno fatto”.

 

Cos’abbia voluto dire, lo si capisce fin troppo bene. Il potere ci ha messo i soldi, ma scarsa cura d’anime:

 

“Il padre che ha speso dieci mila lire per l’educazione del figlio, pensa: ‘Ho speso dieci mila lire: certo mio figlio farà bene; perché? perché ho speso dieci mila lire’; e magari il figlio gli muore suicida: e il padre dice allora: ‘Oh come?’ e non pensa neppure di aver qualche colpa”.

 

Il giovane sottotenente, poco più che ventenne, aveva per davvero  vista molto lunga: un occhio d’aquila. L’unica cosa che potrebbe lasciare un po’ perplessi è la seguente:

 

Ma perché, per Carlo Emilio Gadda il giovane, soltanto gli italiani “possono persuader se medesimi di aver fatto una cosa, che in realtà non hanno fatto?”. Perché, secondo lingua gaddiana, L’italiani sono di simulato suspiro, che è come dire che l’italiano, vera maschera scenica,  pur sollevando suspiri e alti lai pel suo misfatto,  finge pentimento serio e duraturo.

 

E qualcosa di vero forse c’è in codesto aforisma. Ciò su cui invece non concordo con Gadda è la sua fiera  avversione alla stirpe degli asini. Si vede che l’ancor giovanissimo Carlo Emilio non aveva avuto né modo né possibilità nel corso de’ suoi studii giovenili di leggersi le lodi dell’asino di tal Giordano Bruno: ché, se letto l’avesse, avrebbe capito molte cose del mondo, e del potere; né si sarebbe sognato perciò d’incomodare con male parole la razza asinina.

 

Bruno se la prese di brutto con coloro che “con comici cachinni si rendono beffeggiatori, […] spregiano, burlano e vilipendono [e] non li odi dir altro che: costui è un asino, quest’azione è asinesca, questa è una asinitade” (3); perché le fortune dei regni e delle repubbliche dipendono tutte dalla specie asinina.

 

Sicché Bruno proruppe:

 

“Maladetto il regno, sfortunata la repubblica, desolata la città, desolata la casa, onde è bandito, distolto et allontanato l’asino!”

 

Peccato davvero che i sillabari e i programmi di scuola, allorché Carlo Emilio s’avvicinava ancor tenero agli studii, non contemplassero tra le letture educative per la gioventù anche L’Asino Cillenico di Giordano Bruno. Se ciò fosse stato, il giovane Carlo Emilio  non avrebbe rimediato quella figuraccia che invece gli è toccata di fare, vilipendendo “la santità, grazia e divinità, fortezza vittoria e trionfo dell’asino tutto”.

 

Inutile dire che concordo in pieno con Bruno, e che Carlo Emilio il giovane dimostrò, coi suoi immotivati vituperii, gravissime lacune nella preparazione di base.

 

 

Note

 

1)      Carlo  Emilio Gadda, “Giornale di guerra e di prigionia”, in Opere, Saggi, Giornali, favole, Milano, Garzanti, 1992, Vol. II, pp. 466-468, e p. 41.

2)      Per Carlo Emilio Gadda 1893-1993: mostra bibliografica, itinerario  a cura di G. Sebastiani, Milano, [Varzi],   Guardamagna, 1993,  p. 26.

3)       G. Bruno, “Epistola Dedicatoria”, in  Cabala del Cavallo Pegaseo. Con l’aggiunta de L’Asino Cillenico, Descritta dal Nolano, Dedicata al Vescovo di Casamarciano, Parigi, A Presso Antonio Baio, Anno MDLXXXV [1585],  pp. 257-258, e pp.  260-261.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.