Giulio Caprin e la guerra degli animali

 

Giulio Caprin, che ricordo come serio e attento studioso di cose goldoniane, negli anni della guerra si prese qualche libertà per rendere i dovuti onori agli animali, che patirono le fatiche più improbe forse anche più dei soldati. Caprin passò in rassegna un numero notevole di animali, partendo dal cavallo, per poi passare al cane al gatto al mulo, e anche a quella “bertuccia” di Cecco Beppe. Il racconto è singolare, con risvolti talora volgenti al comico, ma altresì preludenti  a eventi molto tragici. Non saprei quanto di veritiero ci possa essere in questo racconto; se non fosse che Giulio Caprin fu un solido studioso della Scuola Storica, avvezza a muoversi soltanto sulla base dei documenti, sarei tentato di affermare che la storia, con il suo finale a sorpresa, sembrerebbe uscita dalla penna di un qualche scrittore di gialli, con il gusto del macabro.

 

La bertuccia Cecco Beppe

 

Il pappagallo

 

“Nelle località abbandonate e in quelle che si devono far sgomberare perché gli Austriaci, per vendicarsi di averle perdute, le bombardano di lontano, non si sono trovati solamente cani senza padrone. Nella villa di…., appartenente a un Feldsugmeister, qualche cosa come un generale di artiglieria austriaco, si trovarono anche un pappagallo e una scimmia: due bestie che i proprietari avrebbero dovuto portarsi via se non per altro per rispetto alla vecchiaia. Il pappagallo doveva aver più di cento anni, tanto era intignato e incartapecorito. Quando, dalla sua gruccia, vide entrare i nostri soldati — erano bersaglieri ciclisti — si mise a strillare qualche cosa come: — Kau, kau, ka, kau…  I bersaglieri dissero subito che parlava tedesco. Ed uno che era stato a lavorare in Boemia e qualche parola di tedesco la capiva, credette che la bestia gridasse: — Krakau, Krakau. Krakau vuol dire Cracovia. Perciò il bersagliere lo prese e lo buttò fuori dalla finestra, dicendo che la strada più svelta per Cracovia era quella.

 

Nemmeno la scimmia era una scimmia graziosa

 

Nemmeno la scimmia era una scimmia graziosa. Era un bertuccione piuttosto in là cogli anni anche lui : spelacchiato in più parti, con una specie di barba a collare, bianca sporca, che dava alla sua fisonomia una grande somiglianza con il ritratto di un augusto personaggio che non mancava nemmeno in quella villa. I soldati dettero subito alla bertuccia il suo nome : — Cecco Beppe, to’, guarda Cecco Beppe. La somiglianza c’era anche nel carattere, perché, appena un bersagliere le si fece vicino, la bestia cominciò a sbattere i denti, e non si capiva se li battesse per far paura o perché aveva paura. In ogni modo era un bel caso che a quell’età avesse ancora dei denti da battere.

— Mandiamo a Cracovia anche lei?

— propose un soldato.

— No — fece un tenente; — Cecco Beppe lo prendo con me; mi porterà fortuna.

 

E, presala per la collottola, si collocò la bertuccia sulla spalla

 

E, presala per la collottola, si collocò la bertuccia sulla spalla; la bertuccia ci rimase, di cattivo umore, ma tranquilla. — Con questa sono sicuro che non mi tireranno: non vorranno mica ammazzare il loro imperatore. Gli altri approvarono e qualcuno aggiunse ridendo:

— E poi non si dirà più che Cecco Beppe non va al fronte.

Scherzi di soldati e di ufficiali che, specialmente in guerra, si divertono con poco. Ma nello scherzo c’era anche un fondo serio. Per quanto ci ridano, i soldati in guerra sanno che il pericolo di morire c’è da per tutto, anche dove non pare. Naturalmente lo affrontano più volentieri dove meno si nasconde; dove ce n’è di più,  è più soddisfazione. Tanto — dicono — è destino: se il destino ha fissato che uno muoia, muore anche a star riparato; se no, può anche entrare nella bocca di un mortaio austriaco carico, che non gli succede niente.

 

C’è chi porta al collo la medaglia di un santo

 

Questo si dice ed è bene dirlo; ma, dentro, ognuno pensa che, se si può sviare un destino cattivo, non è male fare qualche cosa per sviarlo. Dovere del soldato è quello di morire, se è necessario, ma è anche più dovere restar vivo più che sia possibile, per fare invece morire i nemici. E, in barba al destino, si finisce col credere che esistano degli oggetti taumaturgici che valgano a sviare il destino e i proiettili che ci potrebbero essere destinati. C’è chi porta al collo la medaglia di un santo, c’è chi porta in un medaglione una ciocca dei capelli della mamma: L’amore non è l’avversario più potente della morte? Ma c’è chi tiene per buoni portafortuna anche oggetti meno sacri: un anello, un chiodo, uno scarabeo. Sono preferiti come talismani i frammenti di obici e le pallette di shrapnelh che ci sieno cascate vicino: pare che la granata scoppiata tenga lontana quella che potrebbe scoppiare. Era naturale che il tenente dei bersaglieri si garantisse da tutti i pericoli dell’imperatore d’Austria portando sempre con sé l’immagine viva dell’imperatore, il bertuccione Cecco Beppe.

 

E subito parve che il suo dovere di talismano la bestia lo sapesse fare

 

I bersaglieri si aggiravano ancora nella villa di cui avevano spalancato le finestre, quando uno stridore rapido e violento lacerò l’aria, e subito si udì un gran tonfo di pentolone che schianta: una granata era scoppiata nel giardino. Un’altra, un minuto dopo, scoppiava davanti l’ingresso: la terza prese un angolo del caseggiato e rovinò una camera. Tiravano esatti gli Austriaci, e una dietro l’altra le loro pillole.

 

I bersaglieri erano scesi al pianterreno e aspettavano zitti che quel brutto giuoco smettesse. La decima granata cadde proprio sopra la stanza dov’erano riparati: si sentì uno schianto di travicelli, e i calcinacci rovinarono sulle teste dei bersaglieri addossatisi agli an- goli. Dal buco aperto del soffitto cascò giù a piombo il proiettile, a pochi passi dal tenente e dalla scimmia. Tenente e soldati videro l’attimo che doveva esser l’ultimo della loro vita. No: la grossa granata, un 152, non scoppiò.

 

Si guardarono meravigliati di esser vivi e alcuni ebbero una voglia matta di ridere. Le altre dieci o dodici granate che scoppiarono ancora, due sulla villa e le altre nel giardino, non fecero loro più né caldo né freddo. Ma tutti concepirono un vero rispetto per la bertuccia che in tutto quel fragore era rimasta accoccolata sulle spalle del tenente, movendo appena gli occhietti in qua e in là, incuriosita. E più d’uno chiese all’ufficiale il permesso di toccare la coda al potente animale, che se la lasciò tirare con molta degnazione.

 

L’ufficiale fu proprio convinto di aver fatto un acquisto prezioso

 

In seguito a questo incidente, l’ufficiale fu proprio convinto di aver fatto un acquisto prezioso nella scimmia del generale austriaco e non se ne volle più separare. Le riconosceva molti difetti — ladra, finta, scorbutica — ma non sarebbe più andato in un servizio un po’ rischioso senza quella brutta ma provvidenziale compagna. I colleghi gli facevano notare la faccia ambigua e maligna, la gravità sinistra dell’animale; ma il tenente rispondeva che gli idoli più potenti sono quelli che hanno una grinta più brutta. E restò sempre meglio persuaso che la presenza di Cecco Beppe lo avrebbe preservato dai pericoli a cui, sempre più animosamente, si esponeva.  Da quel momento in poi si può dire che il tenente non passasse giorno senza correre qualche grosso rischio. Dove andava lui pareva che le granate si fossero date convegno: le fucilate pareva che gli corressero dietro. Ma lui ne usciva sempre incolume, e Cecco Beppe confermava sempre più la sua fama di paraguai. Se di guai ne attirava più del bisogno, evidentemente lo faceva soltanto per mostrare la sua potenza nel pararli.

 

Fin che, un giorno

 

Fin che, un giorno, il tenente e Cecco Beppe si trovarono in trincea. Anche i bersaglieri-ciclisti facevano servizio di fanteria. Cecco Beppe, che era una bestia poco affettuosa ma che al suo nuovo padrone si era adattato abbastanza bene, e con lui si mostrava calmo e quasi ubbidiente, arrivato in trincea, fu preso da una smania nuova. Forse aveva sentito l’odore dei Croati dalle trincee antistanti e meditava una diserzione vera e propria. Così fu che, riuscito a sciogliersi un momento dalla catenina che gli stringeva la pancia, dette un balzo sul parapetto. Il tenente gli fu dietro ma non riuscì ad afferrargli la coda. I tiratori nemici si erano già avvisti di un movimento in quel punto della nostra trincea e qualche schioppettata cominciò a frullare tra gli arbusti e i reticolati. Ma il tenente rivoleva ad ogni costo la sua scimmia; si issò sul parapetto per riprenderla.

 

Aveva appena messo fuori la testa che una pallottola lo rovesciò morto nella trincea.

 

Giulio Caprin nacque a Trieste nel 1880. Storico di indubbio valore, fu giornalista e scrittore di romanzi. Morì nel 1958.

 

Fonte

 

Giulio Caprin, “La bertuccia Cecco Beppe”, in Gli animali alla guerra, Milano, Fratelli Treves Editori, 1916, pp. 51-61.

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.