Giuseppe Reina: “Noi che tignemmo il mondo di sanguigno”

 

Giuseppe Reina combatté come ufficiale sull’Isonzo. Al termine della guerra sentì profonda l’urgenza di testimoniare la propria e l’altrui esperienza di guerra, anche se si rendeva conto perfettamente che nessuna parola sarebbe stata in grado di descrivere con compiutezza la tragedia del soldato italiano in trincea. Comunque Reina ci si provò, con risultati eccellenti.

 

Su tutti i volti dei miei uomini vidi impresso un senso di stoicismo non descrivibile

 

Si sentiva dal silenzio, che regnava d’intorno, dall’atteggiamento d’ognuno grave, severo, che nessuno si dissimulava ormai che noi ci apparecchiavamo all’estremo cimento, che muovevamo verso una meta ardua, la cui via era disseminata dei più gravi pericoli, e la cui posta era la vita o la morte. Dall’aspetto dei miei uomini sentii me stesso, e rivolto ai soldati dissi press’a poco così:

 

‘Noi andiamo stasera sul San Michele, lo ho fiducia in voi, so che farete tutto il vostro dovere e più del vostro dovere. Non ho raccomandazioni da farvi, questo solo ho da dirvi, lo sono giovane quanto voi, son giovane fra giovani. Poiché è necessario che il nostro destino si compia, affrontiamo i pericoli e i disagi con animo lieto e con cuore leggero. Spero di non mostrarmi indegno di voi. Nell’ora del pericolo ciascuno mi guardi, se io tremo, se io non vi mostro con l’esempio qual’è il dovere da compiere, autorizzo ciascuno di voi, ordino a ciascuno di voi di tirarmi. Non ho altro da dirvi. Buona fortuna a tutti. Viva l’ Italia!’.

 

Certo le mie parole, che sgorgavan dal più profondo dell’animo, in quell’ora piena d’un’esaltazione eroica, dovettero fare sulla truppa un’ impressione grandissima, perché un grido solo le accolse:  ‘Viva il nostro Capitano’.

 

Siamo all’Isonzo, all’Isonzo azzurro, impetuoso, gorgogliante, fremente, travolgente

 

Ed ecco, d’un tratto, un rumore colpirci, fermarci. L’Isonzo. Siamo all’ Isonzo, all’ Isonzo azzurro, impetuoso, gorgogliante, fremente, travolgente. Ora bisogna passare di là, bisogna. Ed ogni cuore ha un palpito, ogni uomo un presentimento, una speranza, un’angoscia. Siamo dinanzi al destino, dinanzi alla vita, dinanzi alla morte. Che sarà di noi dopo? Chi ritornerà indietro? Tornerò io, che passo, a varcare questo ponte? E l’acqua frattanto come il tempo, come la speranza, come il dolore, come la morte passa, senza arrestarsi, con ritmo uguale, con rumore sordo.

 

Il ponte di ferro di Sagrado era allora a metà distrutto,  ma riattivato alla meglio dal Genio serviva benissimo alla truppa, ai camions. Era blindato lungo i fianchi da sacchi a terra per difendere la truppa, per mascherarla dal tiro nemico. Passammo di là quasi affrettandoci, con ansia; avevamo fretta ormai di vedere con gli occhi nostri, di andare con smania verso il destino, che era là, ci attendeva. Ciascuno, dopo aver varcato il fiume, si sentì più leggero, più sicuro, più deciso. Il dado era tratto. Avevamo rinunziato alla vita, alla giovinezza. Oramai tutti ci attendeva la lotta, la battaglia, alcuni forse la prigionia, alcuni forse la morte, tutti, certamente, i più fortunati, la Vittoria.

 

Oltrepassammo Sagrado brancolando nell’oscurità, rotta, di tratto in tratto, dai bagliori dei razzi nemici, che, squarciando le tenebre, ci fa- vevano intravedere lungo la via, dalle buche, dai grovigli, dai rottami, dalle macerie, dalle croci, come avevan combattuto e sofferto gli eroi che ci avevano preceduto in quella zona d’inferno e come dovevamo combattere e soffrire anche noi per renderci degni di loro. Ci fermammo -a Sdraussina. Ci mettemmo a terra contro la scarpata della strada. Qualche pallottola cominciò a fischiarci sulle teste. Passò, silenzio- samente, precedendoci, una colonna munizioni …

 

Improvvisamente fummo colti da una gragnuola di pallottole

 

Frattanto ritornarono le corvées, ciascuna portando casse di cartucce, bombe a mano, pochissimi elmetti francesi, qualche corazza. Ogni cosa fu data alla due compagnie, che dovevano andare sulla linea di fuoco. Venne l’ordine di riprender la marcia. Passammo Peteano, un ammasso informe di macerie. Poco dopo le prime due compagnie piegarono a destra, iniziando la salita del Monte, lo che seguivo da presso queste due compagnie, in testa alla mia, stavo per fare il per fila, quando improvvisamente fummo colti da una gragnuola di pallottole, rabbiosa, nervosa, ostinata. Intimai l’alt. Feci immediatamente poggiare sulla destra e rannicchiare i miei uomini contro la scarpata della strada. La procella non accennava a diminuire. Ci fu un momento in cui credetti che ormai non ci saremmo districati dalla situazione penosa e che non avremmo potuto continuare il movimento senza andare incontro a gravi inevitabili, per quanto inutili, perdite. Dopo un tempo che mi sembrò eterno, il fuoco cominciò a diventare meno intenso. Senz’altro ordinai di proseguire nella marcia.

 

Affondavano nel fango il calcio del fucile

 

Cominciammo a salire, a inerpicarci su su per l’erta ripida, dov’era l’accenno d’un camminamento. Ben presto cominciammo a sguazzare in una fanghiglia melmosa fino alla caviglia, fino al ginocchio. Si sdrucciolava ad ogni passo, ci si imbrattava di fango. Non ci si poteva reggere in piedi che a stento, li terreno era assolutamente impraticabile, la via scoscesa, tortuosa, l’oscurità quasi completa. Ad ogni svolta mi fermavo per riprendere fiato e per incorare i soldati, che erano presso che istupiditi per la immaginabile difficoltà del salire. Più d’uno s’era trovato, non so come, non so dove, un bastone per appoggiarsi, quasi tutti puntavano a terra, affondavano nel fango il calcio del fucile stretto nelle mani vicino alla canna, lo stesso, che ero il solo siciliano e quindi abituato all’ ingratissima struttura del suolo della mia regione, provai gran meraviglia; non avrei mai imaginato che l’acqua potesse penetrare e dissolvere e sfasciare la terra in quel modo.

 

Ad un certo punto, nel procedere, pestammo, devastammo alcuni ricoveri, dov’erano soldati che dormivano. Non c’eravamo accorti di nulla e saremmo passati oltre, se essi non avesser gridato sommessamente, scossi bruscamente nel sonno. Come Dio volle arrivammo lassù. Ci indicarono alcune caverne, scavate nel terreno poroso, fangoso. Feci accomodare i miei uomini come meglio potei.

 

Frattanto dalla linea di fuoco tornavano i soldati, ai quali davamo il cambio. Erano spaventevoli a vedersi. Camminavano a stento, tremavan dal freddo, si reggevano a pena sulle gambe. Qualcuno passando ci disse: ‘Buona fortuna, fratelli’. Qualche altro: ‘Prendi il bastone, a te occorrerà’. Provai una stretta al cuore. Dunque anche noi fra giorni saremo ridotti così? Ma che vita fanno coloro che sono nelle prime trincee ? E’ questa l’ultima tappa ? E non mi doleva no di morire, perché ancora nel cuore serbavo intero, intatto tutto il mio coraggio, la mia fede. Pensavo ai soldati, ai miei fratelli umili e grandi, pensavo alle loro famiglie, che non sapevano, che non avrebbero mai saputo.

 

S’elevavano razzi ; il ta-pum, dei fucili nemici echeggiava sinistro e ad esso rispondeva il cià dei nostri fucili ; le pallottole esplodenti ci passavano sul capo con miagolio rabbioso andando ad infrangersi in una vampata contro le rocce di fronte. Presi posto con il Sotto-tenente Di Rollo, il cui sorriso, il cui coraggio mi era necessario.

 

Ci accomodammo alla meglio in un andro, vicino al sentiero. Le spalle poggiate al terreno, le gambe nel fango. Ogni tanto eravamo costretti a muoverci per far togliere il fango melmoso nel quale s’erano affondate le coscie e le gambe. Pel viottolo era un continuo andare e venire di soldati di altri reggimenti, pel rancio, per le cartucce. Passavano spesso barelle. Alla svolta sostavano. I portatori parlavan fra loro ad alta voce. Dicevano d’essere stanchi, pregavano i ferito d’aver pazienza, d’attendere, che avrebbero proseguito subito subito.

 

Ah! Io vorrei avere la penna di Shakspeare

 

Il cielo era tagliato in tutte le direzioni da lunghi nastri di luce bianca, che s’ intrecciavano, lucentissimi, abbaglianti, fantastici: erano i potenti fasci di luce di innumerevoli riflettori. Ah! Io vorrei avere la penna di Shakspeare per descrivere quello che vidi e quello che ammirai. So che non posso e la rabbia mi rode perché non valgo a dare agli altri sia pure una pallida idea di quello che ogni soldato d’Italia, dai più umile al più alto, ha meritato dalla riconoscenza della Patria”.

 

Non potendo trovar parole acconce a descrivere tanta angoscia e disperazione, Giuseppe Reina, per il titolo del suo libro,  pensò a Dante, e trovò un verso che esprimeva appieno il sacrificio di sangue che chiedeva l’Isonzo: “Noi che tignemmo il mondo di sanguigno”. Ovvero i morti di morte violenta. La testimonianza fu degna del patrono, e alcune pagine del romanzo sembrano davvero ispirate da uno spirito superiore. La guerra aveva trovato davvero chi ne seppe esprimere la terribilità alla sia massima potenza.

 

Giuseppe Reina, siciliano, nacque nel 1884. Pluridecorato nel corso della prima guerra mondiale, dopo la guerra fu Provveditore agli studi. Morì a Trieste nel 1945. A proposito della stesura del suo libro, egli scrisse:

 

“Queste brevi pagine sulla guerra mi sono sbocciate dal cuore. Hanno un merito solo : sono sincere. Hanno un fine solo: mostrare agli altri, a quelli che non han combattuto, come l’anima semplice del soldato, naturalmente, trovasse lassù la sua più umana espressione, l’energia e la forza per combattere e vincere, la rassegnazione di soffrire e morire. Forse non hanno alcun merito letterario. Ma è meglio che sia così, perché la letteratura spesso non è verità. Ed io alla verità soltanto ho voluto piegarmi”.

 

 

Fonte

 

Giuseppe Reina, Noi che tignemmo il mondo di sanguigno, Roma, Ausonia, 1919, p. 13, p. 174, pp. 176-181.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.