Gli “Appunti” di Cesare, e il significato della Guerra Gallica

Cesare

Gli scritti di Cesare appartengono al genere Commentarius. A tutti è noto il super-citato passo di Cicerone nel Brutus, nel quale egli  definì i Commentarii di Cesare stilisticamente “nudi, recti, venusti”, ossia, semplici e chiari. Dietro questa scioltezza di stile, annotava La Penna in un suo libro famoso (Aspetti del pensiero storico latino, Einaudi), c’era un genere letterario vero e proprio; e del resto, sappiamo da varie fonti antiche (La Penna cita Luciano) che il Commentarius era una specie di promemoria, quasi dei semplici appunti, che doveva servire in seguito per la stesura di un’opera storica vera e propria.

 

Al tempo di Cesare, in ogni modo, il Commentarius s’era già sviluppato come un “genere” ormai acquisito dalla storiografia latina. Cesare stesso poi era particolarmente “adatto” al genere Commentarius: nel De Analogia, dedicato a Cicerone, spiegava La Penna, Cesare mostrava di non ricercare parole nuove o disusate, perché il suo “analogismo” lo spingeva essenzialmente verso la cura della chiarezza e della semplicità. Inoltre, continuava ancora La Penna, Cesare scelse il genere Commentarius non tanto perché si sentisse inadatto a scrivere una storia “completa”, quanto perché il suo gusto linguistico rifuggiva da qualsiasi pompa retorica, dal moralismo e da qualsivoglia gonfiezza stilistica. Cesare, insomma, non avrebbe apprezzato la “drammatizzazione” della storia né il gusto dell’ “orrido” così caro a Sallustio.

 

 

Soffermandoci sulla Guerra Gallica, alcuni problemi critici di non poco momento nacquero riguardo la datazione e l’anno di composizione del De Bello Gallico. Per lungo tempo si suppose che sia il De Bello Gallico sia il De Bello Civili risalissero al 52-51 a.C., basandosi più che altro su un’espressione “generica”  di Aulo Irzio, secondo il quale Cesare scriveva “facile et celeriter”. Su tale datazione Antonio La Penna, nel suo studio già citato, ha sollevato parecchi dubbi. A parere di La Penna, la testimonianza di Irzio non significa che Cesare avesse scritto il suoi Commentarii “tutti in una volta”, nell’inverno del 52-51 a.C., ma semplicemente che Cesare, quando scriveva, era “rapido e veloce”. Le considerazioni di A. La Penna furono considerate “valide” da molta parte della critica; tuttavia, V. Paladini, per esempio, nel Vol. I della sua Storia della Letteratura Latina (Pàtron) si dice “incerto”, nel senso che le parole di Irzio parrebbero accennare ad una stesura “complessiva” dei Commentarii, schierandosi così, sia pure in modo dubitativo, con quanti ritengono gli Appunti scritti nel breve volgere di qualche mese.

 

Ma quale fu il significato del De Bello Gallico nel vasto panorama politico della Roma dei tempi di Cesare?

 

Una risposta interessante ci viene da Giulio Giannelli (Trattato di storia romana). Secondo Giannelli, Cesare, già prima della Guerra Gallica, aveva promulgato una serie di provvedimenti  legislativi tesi a potenziare la propria posizione politica, nonché il proprio prestigio presso il popolo e presso i suoi due più potenti “amici”, Crasso e Pompeo. Cesare infatti provvide, nei riguardi di Pompeo, a far approvare in Senato la stabilizzazione dello “status quo” che egli aveva fissato per l’Oriente; mentre, per Crasso, a far promulgare una legge che riduceva di 1/3 il canone d’appalto per gli appaltatori delle imposte in Asia. E siccome Crasso era un noto appaltatore di imposte, il “favore” fattogli da Cesare sarebbe stato sicuramente apprezzato.

 

Per di più, grazie a Clodio, a lui molto vicino, e, a detta di molti, quasi una  “sua creatura”,  Cesare riuscì, attraverso una legge “ad hoc”, a mettere in seria difficoltà due autorevoli membri del Senato, Cicerone e Catone, costringendoli ad allontanarsi sveltamente da Roma. A questo punto, a Cesare mancava soltanto la gloria militare per diventare l’uomo più potente di Roma. Potendo contare su un esercito fedele e, soprattutto, perfettamente addestrato, a Cesare parve che una guerra in Gallia si presentasse come un banco di prova decisivo per concretizzare  le sue aspettative di potere a Roma, soverchiando così tutti gli avversari politici.

 

La Guerra Gallica avrebbe assicurato infatti, da un lato lo strapotere di Cesare a Roma; e dall’altro a Roma stessa  il governo d’un territorio immenso, che avrebbe aperto nuove prospettive di lavoro e di arricchimento sia per la plebe sia per le classi medie italiche. Di fatto, le vittorie incalzanti riportate in Gallia accrebbero enormemente il prestigio di Cesare a Roma, tanto che il Senato, incalzato dagli eventi e dall’entusiasmo popolare, fu costretto, sia pure a denti stretti, ad ordinare una “supplicazione” di 15 giorni,  e a preparare un “corteo di rappresentanti” per accogliere trionfalmente il generale vincitore a Roma.

 

Ma perché Cesare si dette tanto da fare per scrivere i suoi Commentarii nel più breve tempo possibile? Qui entriamo, secondo La Penna, nel campo delle pure  congetture; ma la critica più accreditata ( a cominciare da Carcopino) ha sempre sostenuto che Cesare avesse scritto i suoi Commentarii per “giustificare” di fronte all’opinione pubblica romana l’iniziativa di scatenare una guerra in Gallia: e si sa, fin troppo bene, che lo scatenamento, specie se “unilaterale”,  di una guerra, antica o moderna che sia, richiede parecchie “pezze d’appoggio” propagandistiche, che sappiano raggiungere il maggior parte della gente.

 

La necessità di farsi capire dai più giustificherebbe pertanto il taglio giornalistico degli Appunti di Cesare.

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.