Grandi Papi per grandi crisi: Gregorio Magno, servus servorum Dei

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Papa Gregorio Magno non ha certo bisogno di particolari presentazioni. Gli studi che si sono succeduti sulla sua figura e la sua opera sono innumerevoli e moltissimi di ottima qualità. Tuttavia, la proposta di una sia pur limitata presentazione in questa sede di Gregorio Magno nasce dalla constatazione della presenza di una sorta di “astuzia” della storia, che, nei momenti  più cruciali delle umane vicende , fa scaturire, quasi per magia, figure di papi altamente carismatiche e potenti. Negli anni più recenti abbiamo assistito all’opera di papa Woytila, e oggi è sotto i nostri occhi quella di papa Francesco, che si sta svolgendo, con alta ispirazione francescana, in un periodo storico tra i più tormentati della storia d’Europa e del mondo. Di qui l’intento di riproporre, per analogia, le vicende di un papa del più profondo Medioevo, che visse ed operò negli anni più devastanti e devastati della storia italiana ed europea dopo il “crash” fragoroso di quello che sembrava l’impero più inossidabile del mondo antico: l’impero romano.

 

Gregorio Magno fu un papa con una cultura e una conoscenza della politica “interna” dell’Italia, ed “estera” (il mondo bizantino) come è dato trovarne pochi nella storia del papato. Appartenente alla più alta aristocrazia romana, egli ebbe una visione completa ed analitica dei problemi politici,  economici e sociali che attanagliavano le popolazioni italiche sotto i Longobardi, e sotto il dominio del “nefandissimus Autharith” (Gregorii I Papae Registrum Epistularum).

 

Gregorio Magno conosceva bene i problemi dei coloni delle campagne della penisola e delle isole: Sicilia, Sardegna, Corsica.  In Sardegna, le popolazioni erano talmente spremute dalle tasse imposte  dalla “nefandissimam Langobardorum gentem”,  che se ne fuggivano via, oppure erano costrette dalla miseria a “suos vendere filios” [“a vendere i propri figli”], sintomo evidentissimo d’una degradante miseria. (Gregorii I Papae Registrum Epistularum).

 

In Sicilia, i Longobardi s’impadronivano di tutto, “possessiones et domos”, terre e case. I rustici stentavano a campare per via dei “tributa” troppo alti ed onerosi, cosicché la tassa fondiaria  “rusticos nostros vehementer angustet”, “abbatte e angustia i nostri contadini” ( Vitae Sancti Gregorii Papae Magni). Egli “sapeva” tutte queste cose per esperienza personale; come dimostra la continua presenza nei suoi scritti  di un verbo che la dice lunga in questo senso: “Cognovimus”, ossia, “Abbiamo visto e conosciuto le cose”. Ed in effetti, le “cose” di Sicilia, per esempio,  egli le conosceva molto bene, perché uno dei  problemi di fondo degli anni del suo pontificato fu, tra i molti, anche quello di contrastare la presenza dei monasteri basiliani di rito greco, largamente presenti sia in Sicilia sia in Calabria.

 

“L’intervento diretto di Gregorio Magno nella vita dei monasteri da lui fondati era continuo: si può dire che non vi era atto importante per cui la decisione finale non fosse presa dal pontefice, Consideriamo il monastero di Lucuscano […] a Palermo, che il pontefice indica esplicitamente come monasterium meum (“il mio monastero”) [… Un altro monastero che Gregorio chiamava monasterium meum è quello di S. Ermete, pure a Palermo ”.  Un caso consimile fu anche quello del monastero di S. Pietro ‘ad baias’ di Siracusa, che, a detta di Gregorio Magno, “olim noster fuerit” (“era stato nostro un tempo”).

 

In conclusione, scriveva S. Borsari,  “l’opera di Gregorio Magno nei confronti dei monasteri siciliani era rivolta a controllarne il più possibile la vita, intervenendo anche nelle elezioni abbaziali, per imporre delle persone di sua fiducia”. Il fatto che, spiegava acutamente S. Borsari, la maggior parte dei cristiani fosse di lingua greca “faceva sì che anche nel clero delle diocesi della Sicilia orientale fossero presenti degli ecclesiastici greci: abbiamo epigrafi greche di diaconi di Siracusa, Modica, e Catania”.

 

Lo stesso vescovo che reggeva la chiesa di Agrigento, e che, guarda caso, si chiamava anch’egli Gregorio, esercitò le sue funzioni proprio nel corso del pontificato di Gregorio Magno. Finché visse Gregorio Magno, “l’elemento greco poté essere tenuto in secondo piano”, ma dopo la sua morte le cose cambiarono radicalmente, perché “i pontefici del VII secolo non ebbero la medesima energia del loro predecessore, e quindi lasciarono agli elementi greci della Sicilia maggiore libertà di assurgere a posizioni di guida della vita spirituale dell’isola” (S. Borsari, Il monachesimo bizantino).

 

Andato in Sicilia a fondar monasteri, Gregorio Magno aveva pertanto una conoscenza “de visu” dei problemi economici dell’isola. Per l’alta  Italia la sua conoscenza delle condizioni sociali ed economiche non era minore: egli sapeva benissimo com’era la situazione: “ Eversae urbes, castra eruta, ecclesiae distructae” (“città devastate, castelli abbattuti, e chiese distrutte”);  e sapeva  della povertà e dei corpi indeboliti dai morbi degli uomini e delle donne del popolo del suo tempo (Gregorii I Papae Registrum Epistularum), dei quali s’affannava a “prendersi cura” per quanto era in suo potere. Non meno bene gli erano noti i temi politici riguardanti i rapporti con i Bizantini, essendo stato a Bisanzio come Legato Apostolico di Papa Pelagio II:

 

“Ora la menzione fatta  de’ sacerdoti inviati dal romano pontefice a Costantinopoli,  a me fa credere che sia da riferire a questi tempi l’andata di san Gregorio Magno a risiedere in Costantinopoli col titolo ed impiego di Apocrisario Pontificio.  Oggidì chiamiamo Nunzj apostolici questi riguardevoli ministri della Santa Sede. Soleano [Erano soliti] allora i papi tenerne sempre uno presso dell’ imperadore [sic] in Costantinopoli,  e un altro ancora in Ravenna presso dell’esarco[a] [sic] affinché nell’una e nell’altra corte accudissero agli interessi e bisogni della Chiesa Romana. Certo è che Pelagio II papa quegli fu che, avuta considerazione alla nobiltà della nascita alla prudenza e [e]sperienza negli affari e al sapere e alla rara pietà di san Gregorio, conobbe di non poter scegliere miglior nobile di lui per valersene in quell’uffizio” (Annali d’Italia, di Ludovico Antonio Muratori).

 

Quando fu chiamato a ricoprire il Soglio Pontificio egli recalcitrò, ma poi alla fine cedette alle pressanti richieste. Egli accettò una carica così gravosa, in una situazione politica interna ed internazionale devastata, soprattutto perché intuiva nel profondo di essere uno dei pochi, se non l’unico, in quel frangente, a possedere tutti i requisiti intellettuali e morali per poter far fronte ad una sì eccezionale bisogna. Egli sentiva, tutto sommato, di essere “pronto” al governo della Chiesa, altrimenti non si capirebbero certe sue espressioni, come queste, per esempio, tratte dalla sua Regola Pastorale:

 

“Niuna arte e niuna cosa si debba presumere di insegnare, se in prima con intenta meditazione non si impara. Con qual temeritade adunque e con che stoltizia ricevono coloro che non sono dotti, il magisterio [sic] pastorale, considerando che ’l reggimento dell’anime sia arte delle arti?”.

Traducendo più alla moderna:

 

“ Non  si può presumere d’ insegnare alcuna arte,  se prima non la si è ben imparata. E dunque, con quale temerità coloro che sono sprovvisti d’ogni conoscenza  presumono di accedere al Magistero Pastorale, considerando che la cura delle anime è l’arte delle arti?” (Il Libro della Regola Pastorale di S. Gregorio Magno).

 

Gregorio Magno, al contrario di altri pretendenti al Soglio Pontificio, era invece  preparato ad affrontare una situazione difficilissima. E lo dimostra soprattutto la politica che egli instaurò nei rapporti del papato con tutti i potentati, in Italia, e fuori, con l’impero bizantino. Egli attivò una politica  estremamente difficile a concretizzarsi: non si schierò con nessuna di queste forze, elevandosi invece “al di sopra” di esse, ed affrontando gli avversari con la tensione crescente  di mutarne i comportamenti.

 

Non trattò i Longobardi da “nemici” da battere a tutti i costi; ma, con un’attività stringente e avvolgente,  cercò in ogni modo di “convincerli”, spronando  per un’attività sempre più pressante  di conversione dei popoli,  anche in terre lontane (inviò, per esempio,  Agostino a convertire l’Inghilterra). In politica estera evitò accuratamente il  confronto egemonico con la Chiesa d’Oriente, facendosi piccolo. Cosicché, quando il Patriarca di Costantinopoli,  “il monaco Giovanni di Cappadocia, sopranominato il Digiunatore a cagione delle sue grandi astinenze” (Storia dei papi da san Pietro a Pio IX),  gli comunicò altezzosamente che il titolo di “chiesa ecumenica” o universale spettava soltanto alla chiesa di Costantinopoli, Gregorio ebbe un’intuizione pressoché geniale d’un effetto psicologico dirompente, smorzando ogni polemica, e definendo se stesso Servus Servorum Dei,  “Servo dei servi di Dio”. Diciamo che il Digiunatore aveva digiunato forse troppo; cosa che, alla lunga, può esser di  nocumento alla salute, nonché alla fama presso i posteri, datosi che egli, il Digiunatore, è ricordato negli Annali soltanto per il fatto d’essersi contrapposto in forme superomistiche a Gregorio Magno, che lo rintuzzò da par suo, facendogli fare una ben misera figura:

 

“Parlammo altrove sulle formole de Pontefici nelle loro lettere apostoliche [e di quella]  di Gregorius servus servorum Dei.  Questa adottò san Gregorio I per rintuzzar la tracotanza di Giovanni Digiunatore che si arrogava il titolo di vescovo universale nel declinar del secolo” (Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica).

 

All’attività legata esplicitamente al suo Magistero, egli inoltre avviò un’azione di aiuto concreto agli indigenti. Insomma, di fronte ad un mondo che appariva chiaramente devastato nonché  “diviso” (Longobardi, Bizantini,  popoli affamati, chiesa orientale), dove tutto tirava al suo contrario, Gregorio Magno si pose “al di sopra” di una  disgregazione che appariva ormai “universale”, per avviare un’unificazione, attraverso la conversione,  in cui tutti si potessero riconoscere.

 

Alla fine dell’Impero romano, l’unico che tentò di coagulare nazioni e popoli diversi e profondamente divisi fu Gregorio Magno: un grande Papa, per una grande crisi.

 

Egli agì con eccezionale forza di volontà, mai facendo intendere che la sua bontà potesse essere scambiata per debolezza. Infatti, egli diceva, saprà ben governare soltanto

 

“Colui […] il quale non desidera l’altrui cose, anzi dona le sue; il quale, per le viscere della pietade, che in lui sono, prestamente si piega a perdonare le ingiurie, ma perdonando non più che si convenga, giammai non si diparte dalla rocca della dirittura”.

 

Traducendo: “Può governare bene  le cose del mondo  soltanto colui che non desidera i beni degli altri; ma, al contrario, dona del suo; colui che, con animo pietoso, è altresì pronto a perdonare le offese, ma senza eccedere, e senza mai allontanarsi dalla rettitudine, dando segnali di debolezza” (Il Libro della Regola Pastorale di S. Gregorio Magno).

 

Non ci si  poteva augurare papa più Grande, Magnus, per quei lontani e terribili anni della prima storia d’Italia e d’Europa.

 

Fonti:

 

“Gregorius Presbiteris Diaconibus et Clero Mediolanensis Ecclesiae”, in Gregorii I Papae Registrum Epistularum, in Monumenta Germaniae Historica, Tomus I, Berolini, 1891,   pp. 186-187, pp. 324-325, p. 23.

 

“Vitae Sancti Gregorii Papae Magni”, in Opera Omnia, Venetiis, MDCCLXXV [1725], Tomus Decimumus Quintus,  p. 318.

 

Il Libro della Regola Pastorale di S. Gregorio Magno. Volgarizzamento inedito del secolo XIV, tratto da un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana da Antonio Ceruti, Milano, Tipografia e Libreria Vescovile, 1869, p. 3 e  p. 22.

 

Annali d’Italia ed altre opere varie di Ludovico Antonio Muratori. Dall’anno 476 all’anno 997, Milano, Tipografia de’ Fratelli Ubicini, 1838, Vol. II,  p. 128.

 

Storia dei papi da san Pietro a Pio IX, a cura di A. Bianchi Giovini, Milano, Sanvito, 1865, Vol. II,  p. 68: “Nel 585 essendo morto Eutichio, patriarca di Costantinopoli, gli succedette il monaco Giovanni di Cappadocia, sopranominato [sic] il Digiunatore a cagione delle sue grandi astinenze; il quale i greci hanno posto fra i santi e forse lo stesso onore gli avrebbono [avrebbero] concesso i latini senza il demerito di avere conteso con un altro santo”. Il che sarebbe potuto anche essere, se soltanto il Digiunatore avesse saputo dismettere per un momento i panni di Superman.

 

S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1963, pp. 29-32 e 19-21.

 

Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Compilato dal Cavalier G. Moroni Romano, in Venezia, Dalla Tipografia Emiliana, MDCCCXLVI [1846], Vol. XXXVIII,  p. 135.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.