Il “disordine mondiale” di Maurice Baumont e il “ritorno” a Keynes

1929

E’ sotto gli occhi di tutti che siamo in una fase economica molto critica, e tutti, economisti e politici, avanzano le più svariate ipotesi circa una sua risoluzione, vicina o lontana che possa essere. Molti osservatori si dichiarano “moderatamente ottimisti”, prevedendo una ripresa a breve termine; altri, invece, pongono la soluzione della crisi economica mondiale su orizzonti ancora molto lontani. Chi ha maggiori possibilità di avere ragione?

Senza pretendere di essere profeti, forse sono molto più vicini alla verità i cosiddetti “pessimisti”. Ciò perché questa nostra crisi è difficilmente comparabile con quelle “normali” che l’hanno preceduta. In questo senso, basta pensare ai trend negativi delle trascorse recessioni mondiali, come quella del 1974-1975, che si ridusse a due anni (sia pure con un incremento del prezzo del petrolio), e a cui seguirono almeno quattro anni di ripresa, fino al successivo “shock” economico del 1979, che coincise, anche quella volta, con una crisi biennale (1980-1981).

Oggi però lo scenario economico internazionale è molto cambiato rispetto a quegli anni. L’entrata in gioco di paesi prima esclusi dai grandi scenari economici internazionali (Cina, India, Russia) ha comportato, per il mondo occidentale, una crisi di posti di lavoro che si registra in tutti i paesi di lunga tradizione industriale, nessuno escluso. Ciò implicherebbe, in questi stessi paesi, un ripensamento circa il proprio ruolo produttivo in un mondo globalizzato che ha minato il tranquillo trend delle classiche crisi economiche del passato. Una cosa è certa: non usciremo indenni da una crisi “non classica” senza un impegno fattivo e massiccio dello Stato e degli Stati. La posta in gioco è altissima, perché, se lasciata a se stessa, questa crisi rischia di provocare una “rivoluzione mondiale” dei disperati e stravolgimenti sociali apocalittici, e ci troveranno a vivere in un mondo estremamente pericoloso.

In questi ultimi tempi ho voluto fare un’ampia carrellata della letteratura economica internazionale, per monitorare un po’ il polso della situazione e soprattutto per vedere se in giro c’era qualcuno in grado di dare una qualche risposta, in positivo o in negativo, rispetto a questa interminabile crisi economica. Gli inglesi scrivono molto, ma si soffermano un po’ troppo sui dettagli, per cui manca alla fine una prospettiva d’insieme. Forse gli economisti italiani sono migliori sotto questo profilo, ma in realtà, al di là dei mille dinieghi e dei diecimila distinguo fatti a volte (spesso) a suon di formule matematiche, a me pare che il “sistema” più semplice e sicuro per mettere in moto l’economia sia ancora quello keneysiano. La necessità di un ritorno a Keiynes è sotto gli occhi di tutti, specie se, guardando ai “classici”, ci è dato di toccare con mano gli esiti esiziali che ebbe nel mondo la “Grande Crisi” del 1929, che è molto simile a quella che stiamo oggi vivendo e che ebbe persino le stesse scaturigini “speculativo-finanziarie”. Maurice Baumont è un classico, e dopo aver letto certi suoi passi viene davvero voglia di trovare qualcuno che possa offrire un qualche sbocco per una crisi che, giorno dopo giorno, assomiglia sempre più agli scenari apocalittici illustrati molti anni fa da Maurice Baumont:

“La crise nourrit la crise: stagnation des entreprises ; fermeture des usines, les automobiles et les constructions navales étant particulièrement frappées; marasme du tourisme; extraordinaire diminution du trafic, avilissement des frets….” . La traduzione di questo fondamentale passaggio rende bene l’idea che Baumont si era fatto della « Grande Crisi », un passo da meditare in profondità, anche se Baumont sembra lontano, essendo il suo libro stato pubblicato all’inizio degli anni ’50 :

“La crisi nutre la crisi: stagnazione delle imprese; chiusura delle fabbriche essendo particolarmente colpite le automobili e le costruzioni navali; marasma del turismo; straordinaria diminuzione del traffico, crollo dei noli; l’economia generale a pezzi; e un gonfiarsi, senza precedenti, delle statistiche della disoccupazione, con tutto ciò che essa implica di sofferenze e di amara demoralizzazione per la gioventù senza lavoro: tali furono le conseguenze più notevoli del dramma che ebbe inizio nel 1929. Nel 1932, al culmine della crisi, il mondo contava trenta milioni di disoccupati, tre volte di più che nel 1929; cifra enorme, che anzi non comprendeva né i formicai umani dell’Asia, ove non è stata fatta nessuna statistica di disoccupati, né la legione dei disoccupati parziali che conservavano i loro impieghi lavorando in imprese chiuse parecchi giorni alla settimana. Le famiglie di questi sventurati e tutte le persone che erano a loro carico, decine di milioni, conducevano un’esistenza di semi-fame.
A coloro che questo flagello moderno priva di mezzi di acquisto bisogna aggiungere le centinaia di milioni di contadini, che hanno dovuto cessare di consumare i prodotti manifatturati. Vendendo le derrate che strappano al suolo a prezzo troppo vile, essi non possono acquistare gli articoli industriali, tuttavia offerti in abbondanza; essi non rinnovano i loro strumenti, non riparano le loro case, rinunziano ai fertilizzanti chimici; ripiegano su se stessi, mentre le fabbriche si vuotano degli operai e i salari dei lavoratori, che hanno mantenuto il loro impiego, diminuiscono con una diminuzione parallela al potere di acquisto.

Sorge un paesaggio economico da tragedia

“Sorge un paesaggio economico da tragedia, con l’industria inoperosa, l’agricoltura boccheggiante e le banche in pericolo. Moltitudini miserabili, cortei di senza lavoro, che assediano i dispensari di zuppe popolari nei paesi ad alto livello di vita; altrove, depositi enormi di derrate invendute; depositi di grano e di mais, balle di cotone, sacchi di caffè, masse di bestiame che si accumulano per essere dati alla distruzione. Spettacolo assurdo di folle affamate innanzi a granai troppo pieni!”.

Il “disordine universale”

“Una dislocazione così completa della società si spiega attraverso un cumulo di cause non tutte di ordine economico. La crisi si scompone in un intreccio di crisi sovrapposte. Partendo dal più generale, si trova il passaggio da un movimento di caro prezzo ad un movimento di basso prezzo; dopo gli anni grassi, gli anni magri. Poi si trovano gli effetti dovuti al successo stesso del capitalismo autoritario, così come ha agito nel corso del secolo XIX, con una agricoltura ed una industria sovrabbondantemente fornite e ponenti la produzione dei beni al di sopra della capacità di consumo; per mancanza di consumatori, l’abbondanza è causa di rovina per i produttori. il margine di disponibilità implicando la diminuzione dei costi. L’evoluzione brusca del « macchinismo » è aggravata da una convergenza di difficoltà che nascono dalla guerra e dalla sua faticosa liquidazione: il nazionalismo economico fa strage, mentre le fluttuazioni delle monete e dei cambi esercitano una influenza perturbatrice sul commercio internazionale, aggiungendo contemporaneamente altre cause ed altri effetti ai disordine universale”. (Cfr. M. Baumont, La Faillite de la paix (1918-1939), Presses Universitaires de France, 1967 [1951], p. 339 sgg.).

Insomma, se la crisi non è controllata nei modi più efficaci, rischiamo davvero che la situazione ci sfugga completamente di mano. Assisteremo nuovamente a quello che successe nel 1932, anno in cui, come ci raccontava Maurice Beaumont, nel mondo c’erano quasi trenta milioni di disoccupati, con un’industria inoperosa, un’agricoltura boccheggiante e le banche in pericolo; non ci saranno più consumatori, e ciò porterà alla rovina i produttori. Sarà, come diceva Beaumont, il “disordine universale!”. I capi di Stato che si impegnano per un intervento “keynesiano” in politica economica dimostrano a mio avviso lungimiranza; così come quegli economisti che invocano un impegno maggiore degli Stati. Qualunque cosa possano pensare i “liberisti puri”, bisogna oggi dismettere i modelli classici e impegnarsi con il più forte pragmatismo, “accettando”, al di là delle alchimie economiciste e delle nostalgie liberiste una sorta di “revival keynesiano” in materia economica. Ma, e l’Europa? I lacci e lacciuoli? La “Spendig Review” e il fatidico “pareggio di bilancio”? Ragazzi, vediamo di lasciar perdere. Vogliamo uscire dalla crisi? Abbiamo Keynes: e forse è arrivata l’ora di rimetterlo in circolazione questo benedett’uomo.

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.