Il “rombo” della Grande Roma

rombo

Non vorrei che il titolo “rombo” traesse in inganno i lettori. Con “rombo” non mi riferisco tanto al “rombo di tuono” della potenza militare romana, bensì ai più modesti “rombi” che erano spesso imbanditi sulle mense dei romani pieni di grana. Trimalcione, reso immortale da Petronio Arbitro, non era l’unico liberto arricchito che facesse sfoggio ostentato delle proprie enormi fortune.

Giovenale, che proprio non sopportava il livello assurdo di corruzione della società del suo tempo, nella Satira IV, ci tramanda anche il nome di Crispino, uno schiavo egiziano rotto ad ogni sorta di turpitudine, un vero “mostro” vizioso senza alcuna possibilità di redenzione [“monstrum nullam virtutem redemptum/ a vitiis” (IV, vv. 2-3)], il quale, avendo goduto i favori dell’Imperatore Domiziano, era diventato così disgustosamente ricco da potersi permettere sulla propria mensa una triglia di circa due chili e mezzo [“Mullum sex millibibus emit,/Aequantem sane paribus sestertia libris” (IV, vv. 15-16)], che gli costò la bellezza di circa 6.000 sesterzi, corrispondenti pressoché a un milione delle vecchie lire [ Riguardo al rapporto sesterzi-vecchie lire, cfr. quanto dice M.G. accorsi, “Frittate d’autore”, Sellerio, 2007, p. 258].

Se al “servo” arricchito, definito da Giovenale “scurra Palati”, quasi un “buffone di corte”, bastavano le triglie, non così poteva essere per un imperatore della stazza di Domiziano, al quale, ci erudisce lo stesso Giovenale nella medesima Satira IV, era stato regalato un rombo di una grandezza inaudita e mai vista, tanto che lo stesso imperatore ritenne idoneo alla sua maestà convocare nientepopodimeno che il “Consiglio di Stato”, l’unico istituto di Roma ritenuto all’ altezza di decidere come e qualmente il detto rombo dovesse cucinarsi per esser degno delle auguste ganasce dell’imperatore.

Solo che, dietro questa tragicomica sceneggiata, c’era un obiettivo politico ben preciso nella mente di Domiziano: umiliare a sangue i senatori componenti il Consiglio di Stato, e con essi, “tutto” il Senato di Roma, e far loro intendere chi era il “padrone”. La cosa fu progettata da Domiziano con ragguardevole perfidia. “Prima” convocò tutti i senatori e il fortunato pescatore dell’immenso rombo; “poi” chiamò dinanzi a sé “soltanto” il pescatore, lasciando letteralmente fuori dalla porta tutti i senatori, che, infine, furono “invitati” a decidere “come il rombo doveva essere cucinato”.

Lo stile solenne con cui Giovenale descrive l’ “appello” dei senatori di fronte all’imperatore stride con la dura realtà dei fatti: il Senato era chiamato a deliberare su quisquilie: “Vocantur in consilium Proceres” (IV, vv. 72-73) [ “I Senatori sono chiamati a Consiglio”]. L’umiliazione del Senato fu totale, e d’una platealità assolutamente disonorevole per quanti furono chiamati a subirla.

L’umiliazione si poteva addirittura “leggere” sugli stessi volti dell’Onorevole Consesso chiamato a decidere su tanto importante materia. Giovenale ci assicura che i loro volti erano pallidi come cenci, lividi d’una rabbia impotente:
“In quorum facie … pallor” (IV, vv. 74-75) [“Sui volti dei quali era dipinto un livido pallore”].

Il “rombo” della Grande Roma Repubblicana e senatoriale era veramente finito (1)

Nota

1) Per il testo di Giovenale mi sono servito della vecchia ma sempre valida edizione a cura di R. Vescovi, “Le Satire di Decio Giunio Giovenale”, a cura di Raffaello Vescovi, Firenze, Sansoni, 1875, pp. 71-83. Il dotto prof. Vescovi non aveva peli sulla lingua, e forse si fece un po’ intrigare dalla veemenza di Giovenale. Così descrisse i tempi in cui il poeta visse:

 

“Decimo Giunio Giovenale, come egli stesso ci fa sapere, sortì i natali in Aquino. L’anno della sua nascita non è certo; ma secondo le congetture del dottissimo archeologo Borghesi, fu il 47 dell’era cristiana; mentre l’ Impero trovavasi nelle mani di un vecchio imbecille, e d’ una femmina così rotta a lussuria, che la storia della prostituzione non saprebbe trovarne un’ altra per farne la pariglia.

 

“ Della sua infanzia e adolescenza questo solo ci è noto, che studiò la grammatica e la rettorica [sic]: e pare che i suoi maestri maneggiassero bene, all’ occorrenza, anche il nerbo; e non fossero men severi di quel bussatore Orbilio che fece scuola ad Orazio. Lasciata la nativa città, e fissatosi alla capitale, declamò, a detta di tutti, fino alla metà del corso di sua vita; cioè dette opera a quei vani esercizi e a quelle ostentazioni rettoriche, in cui erasi ridotta l’eloquenza romana, da che avea [= da quando aveva] perduta la libertà dei Rostri e dei Comizi : e questo facea [=faceva] per semplice fantasia e passatempo, e non per prepararsi alla scuola o al foro , essendo egli in tale stato di fortuna da potere essere ascritto all’ordine equestre; e l’appellativo di facondo datogli da Marziale in un epigramma, dimostra che si era acquistato qualche nome nell’ eloquenza. Fu probabilmente in questo tempo che strinse amicizia con Stazio e Quintiliano, dei quali parla con lode nello sue Satire ; e fece la conoscenza di Marziale che, a quanto sembra, non gli andò mai troppo a sangue […]

 

“Tanto l’anonimo scrittore della ‘Vita’ apposta a Svetonio, quanto tutti gli altri scoliasti e grammatici che hanno parlato di Giovenale, sono unanimi nel dire, che avendo egli mosso l’ira e il sospetto dell’ Imperatore, fu, sotto specie di onore e col pretesto di un ufficio militare, mandato in esilio negli estremi confini dell’ Impero : né discordano nell’ allegare la causa di quello sdegno, attribuendolo tutti in coro ad alcuni versi, che si leggono nella settima satira, dove il poeta dà una stoccata al pantomimo Paride, il quale dispensava a suo capriccio cariche e favori. Ma sul nome dell’ Imperatore , e sul luogo dell’ esilio si contraddicono; tanto che in questa controversia, anziché stabilire nulla di certo, non è poco se si può acquistare qualche probabilità.

 

“Stando all’autorità degli antichi, il dubbio intorno alla persona verte unicamente fra Domiziano e Trajano. Ma alcuni moderni hanno voluto mettere in campo anche il nome di Adriano: non perché nei detti versi non sia abbastanza chiara l’allusione al regno di Domiziano; ma perché in Trajano, o in Adriano, sarebbe nato il sospetto che Giovenale con quella tirata contro Paride volesse figuratamente beccare i vizi del loro tempo […] La nobiltà dei sentimenti, la franchezza del dire, una ricchissima vena e un generoso sdegno formano il carattere principale di queste Satire. Lo scopo del Poeta fu di percuotere a sangue il vizio allora trionfante, e costernare i malvagi. Coraggiosa impresa ! ma scriveva in un secolo tanto abominevole, che poco era da sperare sull’ efficacia delle sue riprensioni. Tuttavia pare che qualche buon frutto lo portassero ; perché infatti da quel momento gl’imperatori e i costumi migliorarono alcunché.

 

Egli assale i vizi colla fierezza di un eroe, che va a misurarsi col più feroce de’ suoi nemici […] Ben di rado si serve del ridicolo. La sua arme prediletta è l’amaro sarcasmo; quando non preferisce di svergognare i facinorosi col mettere al nudo la loro ributtante mostruosità. Ciò a cagione che talvolta dice troppo scopertamente e alla libera certe cose che la buona creanza condanna. Se non che tale libertà è in qualche modo scusata dalla natura del soggetto, e dallo stato morale di quel secolo sciaurato [sic], nel quale a scuotere i tristi ci voleva altro che urbanità di frasi e verecondia di parole” [Prefazione, pp. X-XIV, XLVIII).

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.