Il sempiterno fascino di George Maynard Keynes

Keynes

Torno a Keynes con altre considerazioni, partendo dalla grande crisi del ’29. Rovistando tra la letteratura economica degli anni che seguirono la grande crisi del ’29 si scopre subito che non vi furono giudizi condivisi tra gli economisti circa le cause di essa. Hoover, con una faccia tosta da far impressione, affibbiò la colpa all’Europa: “La convinzione, cui partecipò lo stesso presidente Hoover, [era] che la ‘colpa’ della crisi fosse tutta dell’Europa, ossia del pagamento delle ingenti somme che avrebbero dovuto ritornare in America” (1).

Galbraith, nel 1961, rimise un po’ le cose al loro posto, e parlò di “carenze” nella cultura economica della classe dirigente americana, asserendo che, a parer suo, esse non permisero al governo americano di mettere in piedi adeguate politiche fiscali e redistributive del reddito nazionale, che avrebbero permesso ai consumatori americani di spendere un po’ di più (2). Verso la metà degli anni ’30 E. Varga, in un’ottica marxista, parlò più in generale di crisi di sovrapproduzione e di sostanziale asfissia dei mercati (3).

Ma, nel 1936, intervenne sulla questione delle cause della Grande Crisi anche G. Maynard Keynes, che fece letteralmente saltare per aria le interpretazioni “classiche”. Nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Keynes spiegò a chiare lettere che le motivazioni della crisi non consistettero in un “eccesso di investimenti”, come molti asserivano, ma, al contrario, nella loro assoluta “debolezza”. In via preliminare Keynes rigettò del tutto il “credo”, largamente invalso tra gli economisti, per cui la “domanda” di beni sarebbe stata creata dalla cosiddetta “offerta” di beni e servizi, asserendo senza mezzi termini che il problema di fondo stava nel “potenziamento” del potere d’acquisto dei consumatori; cosa che si poteva ottenere soltanto con un intervento diretto dello Stato in economia, aumentando il flusso del denaro verso attività finanziate da prestiti pubblici, “protesi” essenzialmente a favorire l’occupazione; anzi, la “piena occupazione”.

Come è noto, Keynes si batté quindi per il potenziamento degli investimenti dello Stato come “stimolo” assolutamente necessario per dare spazio ai consumi popolari; e ciò senza andare nel panico, anche se  il bilancio dello Stato andava in deficit per la riduzione dei tassi di interesse, che favorivano gli investimenti produttivi con una politica di lavori pubblici, e con una conseguente politica redistributiva dei redditi. Il tutto si poteva fare senza limitare l’iniziativa privata più di tanto.

“L’azione più importante dello stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto” (Keynes).

Inutile dire che le tesi di Keynes furono fieramente avversate da quanti ritenevano che la Grande Crisi fosse sostanzialmente simile a quelle precedenti, e che il tutto doveva essere lasciato alle regole della domanda e dell’offerta, senza interventi da parte dello stato, il cui “interventismo”, a loro parere, avrebbe addirittura aggravato la crisi invece di risolverla. Tutte belle cose, che però mancano di qualcosa d’importante, cioè a dire della “potenza” dell’ipotesi di Keynes. Infatti, Piero Bini, dal cui saggio abbiamo estrapolato il breve passo di Keynes, osserva argutamente:

“Il dubbio che il ‘ritorno’ di Keynes sia più dovuto al pendolo della storia che non ad una approfondita riconsiderazione del suo pensiero è però molto forte […] Sennonché la crisi 2008-2009 sarebbe venuta a squarciare il velo di comodo che avvolgeva l’economia di mercato, e a ridare fiato alle istanze della politica […] Anche se invocare l’intervento pubblico come sostegno del capitalismo, e richiamare alla mente Keynes come il padre nobile di questa concezione, ha ormai il sapore di un luogo comune, penso che le sue letterarie espressioni in proposito continuino a mantenere inalterato il loro fascino originario” (4).

Come si voleva dimostrare.

Note

1) Ottavio Barrié, Gli Stati Uniti nel secolo XX: tra leadership e guerra fredda, Marzorati, 1978, p. 214.
2) J. K. Galbraith, The Great Crash: 1929, Harmond- sworth 1961. In Italiano, J. K. Galbraith, Il grande crollo, trad. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1962.
3) Eugen Varga, La crisi del capitalismo e le sue conseguenze economiche, Jaca Book, 1971.
4) Piero Bini, “Uomini di sistema”, Civil Servants, Imprenditori. Smith e Keynes su intervento pubblico ed economia di mercato, in Scritti in onore di Manlio Resta, a cura di Gianandrea Bernagozzi, CEDAM, 2010, p. 64. La citazione del passo di Keynes è a p. 71.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.