La battaglia di Eugenio Montale sulla “Linea Ligure”

Riprendo qui un tema (la presenza di una “linea ligure” o “ligustica” in Montale) già affrontato a proposito di Giorgio Caproni, ma con maggior copia di materiali storici e critici.

 

Com’è ampiamente noto, una larga parte della storiografia su Montale, mentore, si dice, “soprattutto” Giorgio Caproni, introdusse nelle patrie lettere l’etichetta di “ligusticità” che inseriva Montale entro una “linea” che comprendeva poeti dell’Ottocento e del primo Novecento ligure. Contro codesta presunta ligusticità vi fu, nei primi anni ’60, una  generale levata di scudi da parte di molti poeti liguri che “contano”: da Barile a Lubrano, e, in testa a tutti, Montale, il quale, senza mezzi termini ebbe a dire che la “linea ligure” a cui “qualcuno” l’aveva ascritto era una pura e semplice “invenzione” di “letterati liguri”:

“La linea ligure è stata inventata da letterati liguri ma ha trovato scarso credito fuori della Liguria. Esiste una poesia fatta da liguri, e alcune di essi hanno vaghe somiglianze tra loro. Ma liguri di nascita erano anche Pastonchi, Jahier ed altri che non hanno mai cantato la Liguria  (1).

Montale, nel suo intervento, fu abbastanza reciso: lui che, in fondo, ci andò sempre piuttosto leggero con la critica che lo riguardava, perché, diceva, per esempio,  a proposito di certe dure prese di posizione di Vittorini nei confronti di Pugliatti:

“ E’ un ragazzo di grande sensibilità; solo deve fare le ossa e imparare a vivere” (2).

Ma allora, se i comportamenti di Montale furono in genere  improntati alla “moderazione”, perché, nel caso specifico della sua presunta ligusticità,  mise nell’angolo  la diplomazia per un giudizio senza appelli? Il motivo di fondo stava, credo e penso, nel fatto che la questione di una “linea ligure” non fosse per nulla un dato “recente”, attribuibile, voglio dire, all’impegno “scherzevole” (vedi più sotto) di Giorgio Caproni tra il 1954-1956 e il  1959, ma avesse radici molto più lontane, che risalivano addirittura alle primissime prese di posizione della critica nei suoi confronti: quando cioè gli Ossi apparvero per la prima volta per le edizioni Gobetti nel 1925 (3).  Per farla breve, la questione della ligusticità, che lo “intrappolava” insieme ad altri  sia pur apprezzati “colleghi”,  Montale proprio non la sopportava. E non gli si può dar torto, perché il poeta degli Ossi fu letteralmente lavorato ai fianchi dai “ligusticisti” sin dal primo apparire degli Ossi stessi. A “rodere” gli Ossi  di Montale con  la “lima ligustica”  ci aveva pensato, fin dal 1925 (più di trent’anni prima di Caproni) Carlo Linati sul “Convegno” (del giugno-luglio 1925), asserendo:

“E vorrei anche dire com’egli (scil. Montale) in qualche modo partecipi di quella tradizione degli ultimi scrittori e poeti di Liguria, nobile casata che va da Ceccardo Roccatagliata allo Sbarbaro, da Boine a Adriano Grande” (4).

Nell’ottobre dello stesso 1925, sulla scia di Carlo Linati, ci si mise pure Emilio Cecchi con un articolo sul Secolo XX:

“Con la solita penetrazione Carlo Linati ha parlato della poesia di Montale nell’ultimo ‘Convegno’, osservando che i modi assai arditi essa si scioglie da un fondo comune a vari poeti e scrittori, come il Montale, genovesi: Ceccardo, Sbarbaro, Boine, Grande”) (5).

L’ “unico” che si pose di traverso, in quegli anni, fu Sergio Solmi, al quale non pareva proprio per nulla

“che siano stati del tutto fortunati quei critici che, all’apparire del libretto, hanno situato senz’altro il Montale nella famiglia dei poeti liguri, da Ceccardo a Boine a Camillo Sbarbaro. A me sembra che, a parte l’aspetto locale e paesistico che il Montale ha senza dubbio in comune con costoro, egli abbia d’altro ben poco da spartire” (6). E Solmi conosceva bene Montale, essendogli stato accanto sin dal 1931 nella redazione di Circoli, la rivista a cui collaboravano un po’ tutti i primi “interpreti” di Montale: oltre a Solmi, e Montale, c’erano Gargiulo, Quasimodo, Vittorini e Sbarbaro.

Montale, grazie a Solmi, avrà, si presume, tirato un sospiro di sollievo;  però, più di trent’anni dopo, si trovò ancora suo malgrado “coinvolto” nella mai sopita  e inossidabile  “linea ligustica”, che era stata “rinvigorita”, più che “inventata”, come spesso si dice, da Giorgio Caproni (quasi per scherzo, diceva lui) con una serie reiterata di interventi: ben tre nei numeri 4, 11 e 18 della Fiera Letteraria del 1956 ; e poi con “undici puntate” sul Corriere Mercantile del 1959  (7);  senza contare poi alcune trasmissioni radiofoniche risalenti al 1954, di cui si ha notizia in due lettere di Caproni del 1954:

“A sue trasmissioni radiofoniche sulla linea ligure Caproni accenna in due lettere da Roma a Mario Boselli, rispettivamente del 12 novembre e del 20 novembre 1954”  (8).

Non accettando la “formula ligustica” che l’ “inseguiva”, sgradita compagna di viaggio, e che lo assimilava a poeti che egli sentiva comunque “diversi” da sé, Montale dunque sbottò, dopo anni e anni di “sopportazione”,  in una recisa negazione della propria “appartenenza” a una “linea” che “confondeva” (e il verbo non è scelto a caso, come si vedrà subito)  esperienze di natura molto diversa.

Verosimilmente, egli avrebbe invece sottoscritto con convinzione assoluta il giudizio espresso nel 1928 sul Tevere da Corrado Pavolini, il quale, con tono a mio avviso sincero, scrisse di essere stato colpito nel modo più assoluto dall’ “unicità” della poesia degli Ossi. Per quanto mi riguarda, scrisse Pavolini, la poesia di Montale rivela

“un temperamento lirico fuor del consueto, una personalità inconfondibile” [corsivi miei]. Cioè, alla fine, una poesia che non si “confonde” con altre esperienze poetiche, come quelle di chi s’immaginò l’esistenza della  “linea ligure” (9).

 

La “linea Ligustica” di Caproni

 

La questione di una linea ligustica nella tradizione critica nostrana non è mai, dunque, realmente tramontata, specie a proposito di Eugenio Montale, e al susseguente dibattito sviluppatosi sulla ligusticità del poeta. Con ligusticità s’intende la possibilità concreta, ed esperita da molti critici (vado giù un po’ alla buona), non solo di “concordanze”, per temi e lessico, della poesia di Montale con quella di altri poeti liguri, in special modo con Sbarbaro e Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, ma anche di “dirette” derivazioni .

Poiché non tutta la critica concordava unanime sulle suddette “concordanze”, si attivarono, nel tempo, studi attenti a dimostrazione della loro esistenza (o meno)  in Montale. Una delle analisi pionieristiche  in questo senso fu quella di  Giovanni Cattanei, risalente  alla seconda metà degli anni ’60 (10). Per Cattanei, la ligusticità avrebbe addirittura dato l’imprimatur iniziale alla poesia di Montale, incentrata sul concetto dell’ “angoscioso destino dell’esistere”; e, in seconda battuta, il critico ravvisava  “sicure” concordanze con Sbarbaro, di cui Montale fu ,  ad un tempo stesso, amico ed estimatore, come del resto si evince con chiarezza  dai numerosi oltreché interessanti interventi critici di Montale sullo stesso Sbarbaro.

Avversi a questo indirizzo critico, sicuramente da tenere in considerazione, furono, dopo la “repulsa” di Sergio Solmi,  gli altrettanto pionieristici studi  di Adriano Guerrini,  il quale, pur non credendo all’esistenza effettiva di una linea ligustica,  si pose nell’ottica di analizzare i rapporti fra Montale e Sbarbaro, raccogliendo molti materiali  da Montale, il quale, negli Ossi di Seppia, aveva dedicato a Sbarbaro due liriche; e dagli interventi critici dello stesso Montale apparsi sulla rivista L’Azione, il 10 novembre del 1920  (11).

Partendo da un livello prettamente biografico, la ligusticità di Sbarbaro è facile a dimostrarsi, essendo egli sempre vissuto in Liguria, e in special modo a Spotorno (“Spotorno, terra avara […] Ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro a un pallido mare”). L’accenno al “mare”, parola chiave nella poesia montaliana  (e sulla quale la critica s’è esercitata parecchio), e quello alla “spiaggia sterposa” rinviano alle potenti immagini della Liguria di Montale, suffragando, ancor di più, l’ipotesi di una forte consonanza della poesia di Montale con quella di Sbarbaro: una sintonia difficile da mettere in discussione, almeno a prima vista.

Ma il problema critico reale fu dato dalla difficoltà  di stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, se si potesse effettivamente parlare di “influenze dirette” dei poeti liguri su Montale; o se, per converso, non fosse stata la Liguria, con il suo ambiente regionale,  il mentore di tutti. Su questo tema si avverte un’ impasse difficilmente superabile; ma l’impressione  è che  sia alquanto arduo parlare, se non latu sensu,  di influenze “dirette” dei poeti liguri su Montale; e che, per converso,  la ligusticità possa invece ridursi  al fatto che  il paesaggio ligure avesse potuto suggerire alle varie sensibilità poetiche immagini “simili” .

Questa seconda ipotesi, nonostante i lavori di scavo sul background di Montale, resta un’explanatio potente e difficile da scalfire. Se è ben vero che Montale ebbe, come dicevamo sopra, parole di grande apprezzamento per Sbarbaro, è altrettanto vero che le critiche, anche severe,  nei confronti dell’amico non mancarono; come quando, per esempio, egli asseriva che “della prima plaquette, [cioè di Resine], non mette conto di occuparsi: sonetti e quartine e strofi varie, oneste tutte e decorose ma niente più. Lo Sbarbaro vero non è ancora nato”] (12).

Una  linea ligure della poesia, a quanto pare, potrebbe sussistere, ma la ligusticità non sarebbe comunque da intendersi come il  “passaggio del testimone” da un poeta all’altro, quanto come una (mal sopportata)  “convivenza” tra poeti che si mossero giocoforza in un “comune” ambiente ispiratore d’ immagini e sentimenti;  anche se, come Paolo Zoboli  rileva, “Guerrini respinge giustamente ogni ligusticità a priori, quasi un’idea platonica che si rifletterebbe sui singoli individui” (13).  Adriano Guerrini parlò di una sorta di “sociologismo” che sembrava aver pervaso la critica a proposito della supposta linea ligure:

“Da parecchi anni, asseriva Guerrini,  ma particolarmente in questi ultimi del dopoguerra, forse a causa di un certo sociologismo che ha penetrato la nostra critica, si è parlato un po’ dovunque di una linea ligure” (14).

Resta comunque la netta impressione  che il reale retroterra della  ligusticità sia stato proprio la Liguria, suggeritrice di “comuni” immagini suggestive. Se andiamo ad analizzare poeti, per esempio, come  Boine (Allora la strada che imbocco, lento, è la mia, queta, tra i muri degli orti, un ciuffo di canne, bisbigliando, ci spia) (15), è impossibile non correre subito con la memoria a Montale, il quale,  ne I limoni, ricordava “le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne  e mettono negli orti” .

Questo esempio può essere, credo, abbastanza indicativo del fatto che la ligusticità di Montale non pare tanto ricavata da influssi di “altri” poeti liguri, quanto da suggestioni ambientali, in cui i paesaggi “tipici” della Liguria si affacciano all’attenzione dei poeti ligustici, per poi  “caricarsi” della sensibilità individuale del singolo. Certo, prestiti dai  poeti liguri precedenti esistono certamente in Montale, ma ciò rinvia semplicemente ad affinità linguistiche che investono l’intero corpus della poesia italiana: un fenomeno che non costituisce certo sorpresa per nessuno.

Nel caso di Montale, gli sforzi per individuare “relazioni” e “concordanze”, quasi a costituire una sorta di albero genealogico dei poeti liguri, è stata operazione meritoria sotto il profilo degli studi, ma  criticamente non produttiva a “dimostrare” derivazioni “dirette” da precedenti poeti liguri. Sembra pertanto,  che si possa parlare di un “pattern” ligustico comune ai poeti liguri, ma che tale background non vada molto oltre la “geografia” dei paesaggi, gli unici che sembrerebbero creare “convergenze” tra poeti molto diversi l’uno dall’altro, e per i tempi e per resa poetica.

La linea ligustica fu un’ etichetta particolarmente fortunata, non certamente “inventata” (nella sostanza), ma “perpetuata”, dopo i primi assaggi nell’immediata pubblicazione degli Ossi, da un poeta, ligure per adozione, della statura di Giorgio Caproni, il quale, in un’intervista a Minnie Alzona del ’67, asserì, senza ambagi, d’essersi divertito “a tessere una linea che per primo [preferì] dire ligustica”. Poi Caproni proseguiva, rammaricandosi che la sua “battuta” avesse avuto eccessiva risonanza critica, dispiacendosi che la sua “proposizione” avesse goduto di sì grande fortuna, “fino a meritare gli onori di confutazioni ‘critiche’ come per esempio quella dell’amico Guerrini, cui certamente sfuggì il vero senso del mio –molto vezzeggiativo- concertino” (16).

Certo che, più che un “concertino”, derivante dall’aver individuato quasi “per ischerzo” una linea ligustica, la presunta boutade di Caproni si mutò invece in un “concertone”, i cui echi sono arrivati fino a noi. Il concetto di ligusticità fu dunque fatto passare da Caproni come una boutade, presa più sul serio da altri che da lui stesso; avendo così, aggiungeva ancora Caproni,  gli onori di una “parallela” linea critica  di “confutazione”.

Coloro che presero “sul serio” la presenza di una linea ligure furono parecchi. E, a tal proposito, rinvio al saggio di Giorgio Taffon del 1980 (17), il quale partì nella sua precisa e accurata rassegna dall’intervento di G. Mariani del 1958 (18), in cui il critico individuava “l’impegno della tradizione poetica ligure nei versi di Montale”. “Esso consisteva, continuava Taffon, innanzitutto nella ripresa di alcuni motivi essenziali della weltanschauung boiniana, di un Boine mediato da Sbarbaro, quali ‘visione della realtà come faticoso travaglio, interpretazione dell’esistenza come dura conquista e amara approssimazione alla verità’ […] Tali motivi costituivano ‘la prima, lontanissima origine di quell’atteggiamento che nella lirica di Montale si concreterà in voci di aspra suggestione umana’” (19).

Agli inizi degli anni ’60, Pietro Bonfiglioli) (20)  avvertiva in Montale ‘la mediazione lessicale operata da Sbarbaro […] o quando imputava certo tecnicismo marinaresco montaliano più che al Pascoli alla stessa tradizione ligure; o ancora quando rinveniva in certe serie nomenclatorie di tipo zoologico-botanico un tramite sicuro, tra Pascoli e Montale, in Sbarbaro e Ceccardo […] inventore, secondo Bonfiglioli, del tema orto-muro-mare”  (21). Taffon si soffermava inoltre sull’intervento del 1965 di Silvio Ramat (Montale, Firenze, Vallecchi, 1965), il quale “stabiliva l’importanza avuta da Sbarbaro nell’apprendistato lirico montaliano”. Indugiando poi su Giovanni Cattanei (La liguria e la poesia italiana del Novecento, Milano, Silva, 1966), Taffon rilevava come “il Cattanei attribuiva ai legami ‘ligustici’ di Montale il primo vero punto di partenza della sua poesia”  (22).

Il risultato, però,  fu una generale “rivolta” dei maggiori poeti inseriti nella presunta linea ligustica: da Angelo Barile a Renzo Laurano, e, naturalmente, Montale,  i quali, intervistati sul tema da Minnie Alzona nel 1967 (tutti insieme accomunati), fecero, appunto, “insubordinazione”,  rifiutando di netto d’essere dislocati  lungo una linea diventata col tempo un po’ troppo “rovente”, come il “muro” di Montale, e perciò molto “fastidiosa” (per Montale addirittura asfissiante per calura), tanto da rendere tutti quanti insofferenti all’etichetta.

Di qui Montale, il quale, lapidario, sentenziò che  “la linea ligure è stata inventata da letterati liguri” (23).

Renzo Laurano fu altrettanto categorico:

“Mi sembra proprio di non appartenere, e non ho da dolermene né da compiacermene, al filone ligure per tono e ispirazione anzi alla linea ligustica, come la chiamano gli addetti” (24).

Angelo Barile fu molto più sfumato, limitandosi a parlare di “premesse” sbagliate e “superficiali”:

“Non mi sembra del tutto esatta la premessa che io abbia in comune con Montale e Sbarbaro la stessa utilizzazione (brutta parola!) del paesaggio ligure. E’ un avvicinamento piuttosto generico e superficiale” (25).

Taffon ricordava al proposito come Cattanei, nel 1966, avesse lanciato la proposta, che tuttavia non possedeva “un sufficiente spessore critico”, d’inserire  “a pieno titolo  […] nella ‘linea ligustica’” anche Barile  (26). Tornando poi a un’altra intervista di Minnie Alzona a Angelo Barile, pubblicata nel 1968, Taffon chiosava:

“D’altronde lo stesso Barile si era dichiarato alquanto scettico riguardo alla stessa presenza della linea nella poesia italiana novecentesca; tale giudizio costituì l’argomento di un articolo di Minnie Alzona, pubblicato col titolo di Angelo Barile nega che esiste una ‘linea ligure’, in Il Gazzettino Veneto, 3 maggio 1968”  (27).

Ora, la “negazione” di Barile dettata a Minnie Alzona fu pubblicata del 1968, ma era del 1967, essendo il poeta morto in quell’anno; cioè ad appena un anno dall’ inserzione “a pieno titolo” di Barile stesso nella linea ligustica proposta dal volume di Giovanni Cattanei, pubblicato nel 1966. Va da sé che la “negazione” di Barile fa il paio con quella, altrettanto recisa di Montale. Come dicevamo sopra, l’ embrassons nous della critica italiana “ispirata” da Caproni sembra non fosse stata per nulla digerito dal poeta degli Ossi, dimostratosi, in tal frangente, un osso fin troppo “duro” per Caproni.  Si è parlato, in tal senso, di un evidente e gelido “raffreddamento” dei rapporti tra i due:

“E’ possibile, scrive Adele Dei, che tra le ragioni del totale silenzio di Montale su Caproni, pesante e certamente deliberato, ci siano stati proprio quegli articoli:  sempre senza mai nominarlo. Montale risponderà anni dopo in un’intervista con gelida recisione: ‘la linea ligure è stata inventata. Esiste una poesia fatta da liguri’” (28) [corsivi miei].

A stemperare un po’ l’atmosfera, verrebbe da dire che non è  poi detto che dal “gioco” di Caproni non fossero poi  scaturiti risultati “seri”. In questo senso, gli scandagli condotti sulla lingua  dei poeti liguri hanno portato alla luce aspetti e relazioni  prima “invisibili”, e sicuramente  con profitto (29).

Tuttavia, come sottolineò a suo tempo Alberto Frattini ,

“i raggruppamenti per linee sono utili per un primo orientamento”; ma tale metodo “è, ad un esame critico più rigoroso, sempre discutibile”; poiché “un’altra grossa difficoltà che agevolmente si riscontra è che il ‘nesso regionale’ nelle famiglie di poeti […] non basta a spiegare certe sostanziali qualità dei singoli scrittori  e artisti, e comunque tanto meno quando più vigorosa è la loro personalità” (30).

E un qualche ripensamento ci fu anche in Caproni, e probabilmente in forza della sollevazione generale dei ligustici “per forza”. Egli infatti confessò a Silvio Ramat nel 1966 che, forse, non era proprio il caso di “prendere proprio alla lettera la tesi fino a un certo punto fondata d’una ‘linea ligure o ligustica’ allora da me assunta per semplice comodità di un discorso che voleva rimanere e rimane soltanto descrittivo” (31).

L’anno successivo, nel 1967, Caproni, intervistato da Minnie Alzona, continuò a cospargersi il capo di cenere. Alla domanda dell’intervistatrice:

“Ha qualcosa da obiettare alla sua appartenenza alla linea ligure che molti critici le riconoscono?”, Caproni confermò quanto aveva detto a Ramat:

“L’unica cosa che ho da obiettare è che non credo, criticamente parlando, a una linea ligure” (corsivi miei)  (32).

Ma si vede proprio che l’ excusatio non petita di Caproni risultò troppo tardiva, perché, come si arguisce anche dall’intervista di Minnie Alzona, che è del 1967, essa non riuscì a “riscaldare” il “freddo” Eugenio Montale, il quale disse quello che disse, “senza mai” nominare Caproni, dice Adele Dei.

Excusatio non petita, accusatio repetita (chi si scusa, s’accusa), dice il proverbio. Il che fu il caso di Caproni, che pagò per tutti, anche per Carlo Linati ed Emilio Cecchi, che nell’ormai lontano 1925 fecero da battistrada alla famigerata (per Montale et alii) linea ligure.

 

Note

1)          Sezione Poeti e Narratori liguri, “Intervista di Minnie Alzona”, in AA. VV., Genova libro bianco, Genova, Sagep, 1967, p. 121.

2)         Cfr. G. Mariani, “I primi giudizi sulla poesia di Montale”, in Cultura e Scuola, gennaio-marzo 1983, n. 85, p. 47.

3)         Eugenio Montale, Ossi di Seppia, Torino, Gobetti, 1925.

4)         Cfr. G. Mariani, I primi giudizi sulla poesia di Montale, cit., p. 44.

5)         Ivi, p. 44 nota 16.

6)         Ivi, pp. 44-45.

7)         Ivi, p. 56 nota 32.

8)         Paolo Zoboli, “Caproni, Toba e il gibbone: la ‘Calata nel limbo’ e la ‘Città dell’anima’, in Otto/Novecento, 2003, n. 1, p. 129 nota.

9)         Cfr. G. Mariani, I primi giudizi sulla poesia di Montale, cit., p. 41 nota 2: C. Pavolini, “Scrittori giovani. Eugenio Montale”, in Il Tevere, V, 1928, n. 97.

10)       Giovanni Cattanei, La Liguria e la poesia italiana del Novecento, Milano, Silva, 1966, pp. 239-241.

11)       Adriano Guerrini, “Montale e Sbarbaro”, in Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del poeta, Genova, Bozzi, 1977.

12)       La “stroncatura” di Montale su Sbarbaro apparve in E. Montale, “Camillo Sbarbaro”, in  L’Azione, 10 novembre 1920, poi raccolta in E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 189.

13)       Paolo Zoboli, “Linea ligure: Sbarbaro, Montale, Caproni”, in Interlinea, 2006, p. 94.

14)       Adriano Guerrini. “La linea ligure”, in Diogene, V,  6, dicembre 1963, p. 12.

15)       Giovanni Boine, Frantumi, seguiti da Plausi e Botte, Firenze,  Soc. An. Editrice La Voce, 1921, p. 72.

16)       “Risposte a Minnie Alzona”, in Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990, a cura di Melissa Rota. Introduzione di Anna Dolfi, Firenze University Press, 2014,  p. 75. Le Notizie sui testi, p. 461 n. 17, rinviano  a una intervista di Minnie Alzona sul “Gazzettino” di Venezia: “Intervista ai poeti e narratori liguri di nascita o d’adozione”, a cura di Minnie Alzona, in il “Gazzettino” di Venezia, 1967. Minnie Alzona, a quanto è dato vedere, fece diverse interviste ai poeti ligustici, come quelle ad Angelo Barile: Minnie Alzona,  “Angelo Barile e la linea ligure”, in  Il Gazzettino, 3 maggio 1966. Cfr. Alberto Frattini, Poesia e regione in Italia, 1983, p. 69, nota 19. E ancora, Minnie Alzona, “Angelo Barile nega che esiste una  linea ligure” , in  “Il Gazzettino” di Venezia, 3 maggio 1968 .

17)       Giorgio Taffon, “Un ventennio di studi sui poeti liguri contemporanei. III. Eugenio Montale e Angelo Barile”, in Cultura e Scuola, aprile-giugno 1980, n. 74.

18)       G. Mariani, “Eugenio Montale”, in Poesia e tecnica della lirica del Novecento, Padova, Liviana, 1958, pp. 137-168.

19)       Giorgio Taffon, Un ventennio di studi sui poeti liguri, cit.,  pp. 35-36.

20)       Pietro Bonfiglioli, “Pascoli e Montale”, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, Bologna,  1962, I,  pp. 219-243.

21)       Giorgio Taffon, Un ventennio di studi sui poeti liguri, cit., p. 36.

22)       Ivi, p. 37.

23)       Sezione Poeti e Narratori liguri, “Intervista di Minnie Alzona”, cit., p. 121.

24)       Ivi,  p. 117.

25)       Ivi, p. 121.

26)       Giorgio Taffon, Un ventennio di studi sui poeti liguri, cit. p. 42.

27)       Taffon, p. 39 nota 13.  Cfr. anche quel che scrive Chiara Daniele: “Barile e Grande, ripensando in seguito l’esperienza di Circoli, hanno negato con diverse motivazioni l’esistenza all’interno della rivista di una linea ligure che da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fosse giunta fino a loro attraverso Novaro, Boine e Sbarbaro, e hanno rivendicato la dimensione e il respiro nazionale dato a Circoli dalla molteplicità delle esperienze poetiche proposte” ( Circoli (1931-1935), a cura di Chiara Daniele, Presentazione di Carlo Bo,   Edizioni scientifiche italiane, 1997,  p. 24).

28)       Adele Dei, Le carte incrociate. Sulla poesia di Giorgio Caproni, San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 62.

29)       Giorgio Taffon, come esempio particolarmente significativo, citava il saggio di Vittorio Coletti (“Modelli linguistici in concorrenza (Primavera di Angelo Barile)”, in Atti del Convegno di Studi su La Poesia di Angelo Barile, Genova, Resine, Quaderni Liguri di Cultura, 1978, p. 168), il quale, venendo a parlare di Pupilla,  vi osservava la presenza di elementi che  ‘si innestano bene in un  patrimonio linguistico ‘ligure’, da Ceccardi a Boine a Montale’” (p. 47).

30)       Alberto Frattini, Studi di poesia e di critica, Milano, Marzorati, 1972, p. 217.

31)       Cfr. Silvio Ramat, Omaggio a Montale, Milano, Mondadori, 1966, p. 399.

32)       “Risposte a Minnie Alzona”, in Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990, cit., p. 75.

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.