La psicanalisi, l’Altro, e il “Cocai” di Giuseppe Berto

Sarà un puro caso, ma  dopo il faticoso Je est un autre di Rimbaud trattato nell’articolo precedente, m’è capitato di scontrarmi con altri io piuttosto invadenti scovati tra gli anfratti della letteratura italiana contemporanea. Premesso che anche la presente materia sarà esplorata con altrettanta serietà d’intenti, entriamo subito in media res.

Quando il gran linguaiolo Carlo Emilio Gadda vergò le numinose righe qui di seguito,  non immaginava neppure de lohn che una sua espressione sarebbe stata usata per dare il titolo a un romanzo che avrebbe fatto fortuna nella storia della psicoterapia (di massa). Scrisse dunque Gadda:

“Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato sconscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immediato ”  (1).

L’accorto lettore, sin dalla prima riga della sopra riportata citazione gaddiana, si sarà accorto in un attimo a quale romanzo intendo riferirmi, e cioè al Male oscuro di Giuseppe Berto, dato alle stampe nella prima metà dei mitici anni ’60. In esso romanzo Giuseppe Berto non nascose la fonte donde aveva tratto il titolo del suo romanzo, ma non immaginava certo, Berto, che quel titolo avrebbe aperto la stura alla scoperta di massa della psicanalisi in Italia, oltre che a innumerevoli citazioni d’esso titolo che andò per davvero sotto la penna di tutti.

C’è però il dato non trascurabile che Berto mostrava di non credere in modo incondizionato nella psicanalisi. In realtà, nonostante Berto riconoscesse a Freud meriti innumeri e altissimi, non v’è dubbio  che in lui persistessero molte e molte esitazioni a dare credito assoluto alla psicanalisi.

Nella sua aspra “lotta col padre”, Berto asserisce d’essersi affidato alle cure della psicanalisi, e, rivolgendosi al lettore, afferma di credere che

“ormai tutti o quasi abbiano un’idea sia pure approssimativa di questo genere di cure psicoanalitiche che cominciano ad essere di moda ovunque, e quindi anche da noi”  (siamo nei primissimi anni della prima metà degli anni ’60) (2).

Anche se, dice Berto, la terapia psicanalitica sembra piuttosto semplice a farsi (basta stendersi sul lettino “ideato dal dottor Sigmund Freud”) (3), l’impressione è che essa non abbia poi quegli effetti benefici che ci si attenderebbe da essa, perché,

“con quel suo lettino o divanetto rilassatorio, non l’ha, a mio avviso, imbroccata giusta, e in effetti per quante volte mi sono disteso su quel lettino, mai una volta mi pare che mi sia rilassato per bene, sempre sono rimasto lì col mio grumo di tensione dentro”  (4).

Berto non sembra fidarsi insomma più di tanto della psicoterapia freudiana, anche se

“pare che faccia bene se la si fa seriamente, così almeno dicono i nostri amici quelli che sono favorevoli alla psicoanalisi”  (5).

Berto, in conclusione, e nonostante i meriti indubbi della psicanalisi, riconosciuti da lui stesso ( se non altro aveva imparato a scrivere secondo i ritmi del flusso di coscienza: periodi ampi e qualche sparsa virgola), affermava tuttavia d’essere rimasto profondamente deluso dalle terapie psicanalitiche; “deluso” allo stesso modo di quando gli toccò fare la sceneggiatura del Conte di Montecristo (che non aveva mai letto)  (6),   poiché il suo male continuava sempre e sempre a rimanere tuttavia oscuro.

Ci sarebbe dunque un cono d’ombra incombente sull’umana psiche, insondabile anche dalla psicanalisi, la  scienza per antonomasia la più qualificata  a dare una risposta definitiva alla presenza dei cosiddetti “oggetti interni” della psiche, i quali, come diceva Jacques Lacan, “intralciano e paralizzano il soggetto” (7).

Ciò nonostante, e nonostante Berto asserisse che nei primi anni ’60 la psicanalisi fosse diventata “di moda anche da noi”, egli è  considerato un po’ il battistrada a una conoscenza di massa della psicanalisi in Italia, nei confronti della quale,  secondo gli studi di Michel David, si registravano fortissime “resistenze”  (8); per cui “il successo” dell’opera più famosa di Berto “non può che rallegrare”, dice David, per aver aperto gli italiani  alla conoscenza di Freud, poiché

Il male oscuro ha offerto a tanti lettori sprovveduti […]  lo smascheramento della faciloneria di tante diagnosi di esaurimento nervoso”  (9).

Con tutto ciò, oggidì nessuno potrebbe asserire a cuor leggero che Berto esagerasse quando mostrava di non credere fino in fondo alla cura psicanalitica come risolutiva dei grumi profondi dell’individuo.  Secondo gli studi di Mauro Fornaro, dubbi e molte perplessità permangono circa l’efficacia della terapia psicanalitica:

“La psicoanalisi, spiega Mauro Fornaro chiarendo i dissensi di Jaspers con Freud, nella misura in cui vuole raccogliere la psichicità in una teoria unificante – mirando a spiegare alcunché con pochi concetti, al limite con uno solo, quello di sessualità – contravviene al carattere sempre singolare, infinitamente multiforme delle espressioni dello psichico” (10).

In un precedente articolo, il prof. Fornaro si soffermò sulla dicotomia venutasi ben presto a creare tra psicanalisi e neuroscienze:

“Se è vero che il proprio della psicanalisi è lo psichico in quanto rappresentazione, parola, oggetto interno, è però anche vero che il teorico non può prescindere dalla questione del rapporto di esso col biologico. Detto altrimenti,  non ci pare possa ritenersi chiusa la partita con una spartizione di campo” (11).

Per farla breve, nonostante gli esperti  aprano  alla speranza, in realtà siamo ancora in alto mare. Il che suffraga ancor di più la tesi di Berto secondo cui la psicanalisi in fondo (a parte la questione dei sogni) non offre ancora risposte adeguate all’impellente bisogna della “recepente” e “recipiente” società di massa, largamente traumatizzata e perciò necessitante di adeguate ancorché indolori soluzioni alle problematiche inerenti i conflitti sempre aperti dell’io, e dell’io Versus l’Altro.

Poiché il problema di fondo di Berto ( a quanto par di capire) resta sempre e comunque il  rapporto conflittuale del suo io con l’Altro (il Padre; anzi, “la lotta col padre” (12), cercheremo di sviscerare  la vexata quaestio in tutte le sue implicazioni. La suddetta questione,  secondo me, è stata non soltanto correttamente posta da Jacques Lacan, ma anche risolta una volta per tutte. Il problema, dice ordunque Jacques Lacan, è il seguente:

“Ci sono due altri da distinguere, almeno due – un altro con un’A maiuscola,  e un altro con una a minuscola, che è l’io. L’Altro, è di lui che si tratta nella funzione della parola.” Per risolvere i problemi del nostro io minuscolo con l’Altro, dice Lacan, ci sono due metodi assolutamente sicuri. Il primo (che ha consigliato anche ai suoi allievi) è quello di leggersi attentamente il Parmenide, “in cui la questione dell’uno e dell’altro viene affrontata nel modo più vigoroso e organico” (13).

Il secondo metodo, per i più pigri o meno versati negli studi filosofici, è quello di darsi alle parole (in)crociate:

“Non dimenticate,  asserisce Lacan, che in un testo vi ho consigliato molto formalmente di fare le parole crociate. La sola cosa essenziale è tener desta l’attenzione […] Si tratta solo di questo –fare attenzione. E’ la cosa più difficile da ottenere dal lettore medio, per via delle condizioni in cui si pratica lo sport della lettura” (14). Mi pare che la soluzione di Lacan sia  ottima  e alla portata di tutte le tasche e di tutte le esperienze culturali. Se poi qualcuno mostrasse di essere “deluso” anche da questa opzione, si ricordino le dotte ammonizioni di Lacan a quanti si mostravano delusi dalle sue terapie:

“Quando si è delusi, sentenziava paradigmatico Lacan, si ha sempre torto. Non bisogna mai essere delusi delle risposte che si ricevono, perché se lo si è, è meraviglioso, prova che si tratta  di una vera risposta, ossia che non  ce la si aspettava proprio” [corsivi miei]  (15).

Nessuno al mondo avrebbe supposto che bastassero le parole incrociate per risolvere il problema con l’Altro. Se a Berto non fosse sciaguratamente sfuggito questo passo di Lacan, sicuramente avrebbe fugato tutti i suoi dubbi e sulla psicanalisi e sulla reale possibilità di risolvere il suo problema col Padre, cioè con l’Altro (Egli odiava, per esempio,  il fatto che il padre si ostinasse “a firmare col cognome e nome, invece che col nome e cognome”) (16).  Quasi certamente Berto avrebbe comunque sottoscritto un abbonamento annuale alla Settimana Enigmistica, o altre similari pubblicazioni; e il Male, da oscuro, sarebbe diventato finalmente chiarissimo, addirittura baluginante nella di Lui mente.

Ergo, quando avrete concluso le sedute con il vostro psicanalista, non mostrate mai di essere delusi dalla terapia come Berto Giuseppe, ma anzi asserite con voce forte e decisa:

“Me l’aspettavo!”.

E, mi raccomando, esordite con la fatidica frase “Me l’aspettavo!” soltanto nel momento preciso in cui pagate la parcella del vostro illustre e amatissimo psicanalista, perché sia chiaro e non “oscuro” che  il vostro io (minuscolo) ha perfettamente capito, finalmente, chi è l’Altro Io (maiuscolo).

Poi, a mo’ di risarcimento di possibili o (im)possibili delusioni (secondo Lacan), emulate l’ormai espertissimo Giuseppe Berto, ormai versato in tutte le secrete cose della psicoanalisi, e prendetevi un cane. Infatti Berto, nei suoi Colloqui col cane, trovò un modo del tutto originale di risolvere i problemi con l’Altro. Berto litigava  come un ossesso col suo cane Cocai: “Questo è il nome del mio cane, dice Berto,  il quale lo deriva assai tortuosamente da Merlin Cocai, pseudonimo di […] Teofilo Folengo” (17). Berto, come si diceva, non si fece più tiranneggiare dall’Altro, ma litigando combatteva, e talvolta rideva col suo cane o si faceva ridere dietro dal molto saggio Cocai. Ciò fa sorridere, come la comica figura del suo omonimo Bertus del Baldus, il quale, ricorderete, anch’egli padrone d’un poderoso mastino, armato d’un enorme cucchiaio, s’apprestò ad affrontare di petto gli intrusi, ovvero l’Altro:

“En mastinus abit contra bau bauque frequentat. Bertus more suo casulae chiavaverat ussum; vix audit baiare canem, penetralibus exit, 160 cucchiarumque tenet dextra, lumenque sinistra, namque suae coenae schiumabat alhora menestram »  [Ed ecco il mastino s’avventa abbaiando come un ossesso contro la porta. Berto, secondo suo costume, aveva chiuso l’uscio della sua casupola col chiavistello. All’improvviso sente l’abbaiare insistito del cane, e varca la soglia della sua Dimora, tenendo il cucchiaio con la destra e il lume con la sinistra: proprio in quel momento infatti la minestra della sua cena stava schiumando sui fornelli] (Traduz. mia)  (18).

Verrebbe da dire che il Duo Berto (il Berto del Baldus e il Berto Giuseppe) avessero infine trovato nel cane un ottimo strumento di difesa sia verso  l’ io minuscolo che nei confronti dell’ Altro Io maiuscolo. E poi  una risata sgombra di sovente gli orizzonti di ciò che potrebbe apparire oscuro. E ciò allo scopo primario (et non secondario) d’ evitar di farsi irridere persino dal proprio cane,  come  accadde, au contraire, al  Berto, Giuseppe, intendo:

“Il cane si mise a ridere: ‘E questo saresti tu?’”  (19).

 

 

Note

1)      Il passo di Gadda (C. E. Gadda, La cognizione del dolore) è citato in Giuseppe Berto, Il male oscuro, Milano, Rizzoli, 1964, p. 5.

2)      Ivi, p. 10.

3)      Ivi, p.11.

4)      Ivi, p. 12.

5)      Ivi, p. 282.

6)      Ivi, p. 194.

7)      Jacques Lacan, “L’analisi oggettiva”, in Il Seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicanalisi. 1954-1955, a cura di G. B. Contri, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1991,  p. 321.

8)      Michel David, La psicanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1966, p. 6.

9)      Ivi, p. 555.

10)    Mauro Fornaro, Jaspers e Freud, ovvero i limiti della psicoterapia ad orientamento fenomenologico (prima parte), in POL.it (The Italian on line Psychiatric Magazine).

11)    Mauro Fornaro, “La questione della neurofisiologia in psicanalisi”, in Cultura e Scuola, aprile-giugno 1986, p. 165.

12)    Giuseppe Berto, Il male oscuro, cit., p. 8.

13)    Jacques Lacan, “Introduzione all’Altro”, in Il Seminario. Libro II, cit.,  p. 300.

14)    Ivi, p. 301.

15)    Ibidem.

16)    Giuseppe Berto, Il male oscuro, cit., p. 16.

17)    Giuseppe Berto, Colloqui col cane, Venezia, Marsilio, 1986, p. 9.

18)    Merlin Cocai (Teofilo Folengo), “Baldus”, in  Le Maccheronee, a cura di Alessandro Luzio, Bari, Laterza & Figli, 1911, Vol. I, p. 69.

19)    Giuseppe Berto, Colloqui col cane, cit.,  p. 73.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.