La “roba” di Svevo e la musica della bora

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Soffermandomi sullo stile di Italo Svevo, in altro articolo ( Svevo tra arcaismi e germanismi), osservavo che lo stile di Italo Svevo è sempre stato un “topos” della critica, a partire da Gianfranco Contini e Giacomo Devoto. Dicevo anche che  a Svevo si rimproverava “di sentire la lingua italiana come seconda o terza”, se teniamo in considerazione gli influssi del dialetto triestino e del tedesco.

 

Appuntando pertanto lo sguardo sulle opere prime di Svevo, O. Lombardi  poneva essenzialmente l’accento sulla   “faticosa elaborazione dei costrutti e persino lo sforzo del tradurre in lingua un pensiero nato dentro nella più schietta veste dialettale”. Quindi Lombardi rilevava altresì che tutti i tentativi di correzione messi a punto da Svevo nel tentativo di dare una patina più moderna alla sua prosa risultarono alla fine  inefficaci, limitandosi a “qualche ritocco esterno meramente formale”, mentre persistevano espressioni dialettali gergali come “Sei invelenà?”  per “sei arrabbiato?”. Le successive indagini linguistiche, specie quelle molto interessanti di D. Cernecca, hanno sostanzialmente confermato le osservazioni di Lombardi.

 

Vorrei però aggiungere qualche altra considerazione a quanto scrivevo precedentemente.  Aggiungerei  che, per quanto si può notare nello stile complessivo  di Svevo, effettivamente c’è una persistenza di forme desuete, ma talvolta, anche nelle opere prime come Senilità si possono tuttavia rivenire forme più vive, come nel ritratto di Angiolina, descritta come “… una bionda dagli occhi azzurri, alta e forte, ma snella e flessuosa”: un’espressione non malvagia, e che  e denota già uno “scatto” verso una prosa più moderna ( Senilità).

 

Se poi con “stile” vogliamo intendere non soltanto l’aspetto linguistico, ma anche la presenza di altri motivi tipici dello Svevo più maturo, non possiamo non riconoscere il fatto  che Senilità prelude all’avvio dello scavo psicologico, e anche alla presenza di quell’ironia che in seguito costituirono gli aspetti salienti della personalità dello scrittore triestino. Se quindi assumiamo per verosimile che lo stile va oltre la lingua, per coinvolgere l’intero assetto della personalità di uno scrittore, non si può negare una persistenza di motivi nello stile di Italo Svevo, uno scrittore  che, purtuttavia,  venne a trovarsi sul confine tra aree linguistiche estremamente differenti l’una dall’altra, per cui egli, nella sua intera carriera, non riuscì a modellarsi quella lingua italiana moderna che sarebbe stata auspicabile.

 

Montale, al solito, individuò subito l’ “impasse” che venne patendo Svevo con l’italiano, sottolineando da par suo il fatto che Italo Svevo “guardò sempre con invidia alla lingua toscana”. Scrivendo allo stesso  Montale, Svevo, con una punta d’ironia diceva:

 

“Il mio dottore esige ch’io vada a passare un mese in Svizzera. Io lotto ancora, ma mia moglie  crede troppo nei  dottori. Io avrei preferito un piccolo luogo in Toscana che ha ‘quasi’ la roba che m’occorre” (Carteggio con gli scritti di Montale su Svevo).

 

Insomma Svevo avrebbe voluto farsi, alla stregua di Manzoni, un viaggetto in Toscana alla ricerca di quella “roba” che gli serviva, ossia di quella lingua viva di cui sentiva il bisogno, ma senza mai trovarne l’opportunità, perfino a causa di quei “dottori” in cui egli nutriva, al contrario della moglie, scarsa fiducia. Tuttavia, è rimarchevole il fatto che lo scrittore, pur “cercando” l’adattamento ad un italiano meno desueto, era comunque “affezionato” al suo dialetto, per cui la scelta di mantenere certe espressioni gergali fu “voluta” perché sentita come un qualcosa che faceva parte della sua natura di uomo.

 

Lo stesso Zampa sottolineò questo dato importante:

 

“La consapevolezza con cui il triestino fece uso del dialetto non ha bisogno, oggi, di essere sottolineata. Sempre nel Profilo autobiografico  si legge:

 

“D’altronde egli [Svevo] ben sapeva che la sua lingua non poteva adornarsi di parole ch’egli non sentiva. Non si può raccontare efficacemente che in una lingua viva e la sua lingua viva non poteva essere altro che la sua loquela triestina” (Zampa, Introduzione, p. XIII).

 

Pertanto, siamo di fronte a una “persistenza” dello stile, che inizia d’impeto  con Senilità e poi continua “consapevolmente” nella sua opera maggiore. Svevo sentiva di aver bisogno di quella “roba” che si poteva avere soltanto in Toscana, ma intanto, saggiamente, stava attaccato alla “sua roba”. Il che, chissà perché, rimanda a quella novella di Pirandello, dal titolo emblematico, La roba, dove troviamo Mazzarò che la “sua roba” se la voleva portare con sé, anche dopo morto, ché “la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita”.

 

Fatte le debite proporzioni, in fondo c’è una forte similarità tra Mazzarò e Svevo, se non altro perché ambedue erano visceralmente attaccati alla propria “roba”.

 

E di fatto Montale concludeva:

 

“Resta il problema, a molti fastidioso, del suo linguaggio. Ma chi ha detto che questo scrittore guadagna con le traduzioni? Gli uomini e le donne di Svevo parlano la lingua di Tergesteo, la lingua dei vecchi commercianti triestini; è questa la musica, insieme con quella incessante della bora”.

 

Se l’ “assoluzione” viene da siffatto pulpito, a noi poveri mortali non altro resta da fare che “star fermi al quia”, anche perché il termine “Tergesteo” di Montale  non solo rinvia a Tergeste o “Terges”, il nome romano di Trieste, ma anche a quel palazzo dove aveva sede la Borsa di Trieste: viste come sono andate le cose, a dispetto di una lingua  che talvolta “fastidisce” qualcuno, le “azioni” di Italo Svevo sono ancora oggi molto quotate in Borsa.

 

 

Fonti:

G. Devoto, “Le correzioni di Italo Svevo”, in Studi di stilistica, Firenze, 1950 e G. Contini, “Italo Svevo”, in Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze, 1968.

O. Lombardi, “Maturazione dello stile di Italo Svevo”, in Lingua Nostra, 1954, pp. 18-20.

D. Cernecca, “Manzoni e Svevo di fronte al dialetto”, in Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia, Zagreb, 1975, Vol. 39.

Carteggio con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori,  1976, p. 56.

E. Montale, “Il vento è mutato”, in Carteggio con gli scritti di Montale su Svevo, p. 112 sgg.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.