Le “amicizie pericolose” di Cesare Pavese: l’accusa, la pena e la difesa

Diversi anni fa (1992) apparve su Panorama una lettera dell’allora ventiseienne Norberto Bobbio indirizzata a Benito Mussolini. Bobbio, insieme ad altri, nel ’35  fu arrestato per supposta “attività antiregime”. Il noto intellettuale e filosofo se la cavò per il rotto della cuffia, anche perché la famiglia, di estrazione alto-borghese, e con numerosi addentellati nello Stato,  lo convinse a  scrivere una lettera “direttamente” a Mussolini in cui egli tentò di stornare da sé ogni sospetto. La cosa, a quanto pare, andò a buon fine, e Norberto Bobbio fu “graziato”.  Nella famosa lettera, tra le altre cose, egli asseriva a propria difesa:

 

“Sono iscritto al P.n.F. e al Guf dal 1928, da quando cioè entrai all’Università, e fui iscritto all’Avanguardia giovanile nel 1927, da quando cioè fu istituito il primo nucleo di avanguardisti nel R. Liceo d’Azeglio per incarico affidato al compagno Barattieri di San Pietro e a me” (Panorama, 1992, p. 529 e N. Bobbio, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Bari, Laterza, 1997, pp. 29-31).

 

Il caso di Bobbio non fu un “unicum”. Scrivere “direttamente” a Mussolini quando pareva che le cose stessero per mettersi molto male fu una pratica tentata anche da altri illustri esponenti della nostra letteratura contemporanea, come nel caso, per esempio, di M. Mila e di Cesare Pavese.

 

Pavese, alla metà degli anni ’30,  fu condannato a tre anni di confino per sospetta attività antifascista, e la cosa lo mise in gravi difficoltà, economiche prima, e di salute poi. A dire il vero, non fu Cesare a scrivere “direttamente” a Mussolini, ma alla bisogna ci pensò la sorella, che, appunto, scrisse una lettera retoricamente molto ben congegnata, dove, con abile captatio benevolentiae, gratificando Mussolini dell’ Eccellenza Vostra nel giro di due righe,  tentando così di “limitare” il più possibile i danni al fratello, addebitando i di lui eventuali errori alle sue “amicizie pericolose”, “più subite che cercate”, e  parendole, proprio in virtù di ciò,  com’ella scrisse, che la condanna a tre anni fosse stata “eccessiva”. La lettera fu ripescata da G. Neri  alla metà degli anni Settanta, e pubblicata.

 

Roma, 20 luglio 1935-XIII

A Sua Eccellenza Benito Mussolini

Capo del Governo

La sottoscritta, sorella del dottr [sic] Cesare Pavese, recentemente condannato a tre anni di confino dalla Commissione Provinciale di Roma, rivolge all’Eccellenza Vostra i voti più ardenti affinché la Eccellenza Vostra voglia benignamente considerare la situazione del di lei fratello, ed accogliere quindi, in occasione del ricorso da questi presentato alla Commissione presso il Ministero degli Interni, la presente istanza.

La ricorrente non ha elemento alcuno che possa comunque autorizzarla a giudicare il verdetto della Commissione Provinciale: da tale verdetto la ricorrente è stata non solo profondamente addolorata, ma anche profondamente stupita, e, tanto più di ogni attività in contrasto con le direttive del Regime: del che pareva all’istante fornire la riprova la di lui appartenenza al Partito Nazionale Fascista [traducendo: tanto che posso fornire le prove dell’appartenenza di mio fratello al partito].

Ma se anche, come pare, circostanze a lui estranee, e contatti da lui certo più subiti che ricercati, hanno potuto creargli una parvenza di colpa [cioè, la colpa è delle sue “amicizie pericolose”], sembra, sommessamente alla ricorrente, la quale se ne appella fiduciosa alla nota giustizia dell’Eccellenza Vostra, che la pena inflitta al proprio fratello sia veramente eccessiva, per la rovina morale e materiale ch’essa reca inevitabilmente con sé.

Cesare Pavese, giovane studioso apprezzato e già noto agli ambienti letterari come scrittore e traduttore, poeta, distintissimo insegnante, era ormai riguardato da tutti coloro che lo conoscevano come una delle più promettenti speranze nel campo letterario ( solo la presente dolorosa circostanza e l’ardente speranza di essere esaudita può indurre la sorella a parlare così del proprio fratello).

La dura pena che a Cesare Pavese è stata inflitta viene senza dubbio, per le conseguenze pratiche ch’essa porta con sé, a tarpargli le ali: il che l’Eccellenza Vostra, incitatrice di ogni giovane e promettente forza in ogni campo, non può volere.

Pesa inoltre sul Pavese la minaccia dell’indigenza: ché egli suppliva col proprio indefesso, onesto lavoro agli scarsi mezzi finanziari famigliari; onde, se così lieve fu la colpa in lui ravvisata da escludere il suo deferimento al Tribunale Speciale, se tale degenerata colpa, comunque, per le circostanze che l’avrebbero accompagnata, per il carattere del Pavese, appare tanto più lieve, e tanto più grave appare quindi la pena inflittagli, voglia l’Eccellenza Vostra, con atto di suprema giustizia o di magnanimità, ridare ad una vita, così gravemente colpita, le radiose possibilità che annunciava; nel pensiero che questa giovane energia, restituita alle sue capacità costruttive, dovrebbe pur sempre considerare con riconoscenza l’atto  di clemente giustizia che ora dalla Eccellenza Vostra si invoca.

 

Con ossequio devoto  Maria Sini-Pavese”

 

Nonostante l’abilità oratoria della sorella, le cose per Pavese non andarono lisce, per cui, dal suo canto, egli scrisse diverse lettere a sua discolpa, non a Mussolini ( si vede che quella della sorella gli bastava e avanzava), ma al Ministro dell’Interno, chiedendo la “grazia” e il “condono”. In una di queste (dell’8 agosto 1935) Pavese asseriva:

 

“ Mai io mi ero sognato di fare della politica, di qualunque genere, e tanto meno dell’antifascismo”. In un’altra (del 15 gennaio 1936) , egli riconosceva la “colpa”, ma aggiungeva:

 

“Egli riconosce il provvedimento preso a suo carico, ma fa altresì presente come egli non sia mai stato un elemento dedito ad attività antinazionale e come il suo reato non fosse assolutamente una intenzionale manifestazione politica, ma solo una leggerezza commessa per amicizia”.

 

Poi, in conclusione:

 

“Supplica l’Eccellenza Vostra di volergli concedere il condono, onde curarsi e riprendere le proprie occupazioni normali, assicurando che in avvenire ogni suo passo  sarà calcolato a difendere quell’ordine e interesse nazionale, di cui Vostra Eccellenza è supremo assertore. Con profonda fiducia

 

Cesare Pavese” ( G. Neri, Cesare Pavese e le sue opere, Reggio Calabria,  Edizioni Parallelo, 1977, pp. 42-44. L’autore annotava che “le lettere citate sono nel fascicolo di Cesare Pavese. Confinati politici, presso l’Archivio Centrale dello Stato. Roma).

 

Il “finale” della lettera di Pavese richiamava molto da vicino quello di M. Mila, il quale scrisse:

 

“Mai più mi permetterò di fare o esprimere qualche cosa che possa essere, direttamente o indirettamente, comunque ostile, o contrario, o dannoso al Regime” (Panorama, 1992,  p. 536)

 

Poi, G. Neri, a proposito di Pavese,  chiosava:

 

“Certo, queste  lettere rivelano un aspetto sconcertante della personalità dello scrittore. Crolla il mito dell’antifascista puro e dell’ideologo, ed è impossibile presentarlo come simbolo della  Resistenza” (p. 45). Infine, queste lettere “riportano la figura di Pavese a quella che fu effettivamente: grande lo scrittore, tormentato l’uomo”.

 

Ben detto. Ma non credo sia proprio il caso di stracciarsi le vesti e di invocare chissà quali “valori eterni”. Son tutte cose che vanno bene forse per i comizi e per gli esercizi oratori, e tra l’altro, è sempre estremamente arduo pontificare sul comportamento di uomini vissuti in tempi molto duri e difficili.

 

Aggiungerei soltanto che tutti i soggetti summenzionati non hanno compiuto nulla di particolarmente immorale o altro, esercitando essi semplicemente un elementare diritto giuridico, ossia il  “diritto di difendersi”, tentando di salvaguardare se stessi e il proprio posto di lavoro. Come diceva in tempi non sospetti, e dal profondo dell’Ottocento G. Carmignani,

 

“ L’accusa e  la pena sono parto della politica. La difesa discende dal diritto della natura” (G. Carmignani, “La difesa”, in  Compendio degli elementi di criminale diritto,  in Raccolta di Trattati e Memorie di legislazione e giurisprudenza criminale,   Firenze, L. Pezzati, 1822, Tomo Quinto,  p. 63).

 

A Carte Rovesciate

 

La ri-prova della correttezza dell’assunto di G. Carmignani, secondo cui “l’accusa e  la pena sono parto della politica”, viene osservando ciò che accadde in Italia dopo la caduta del fascismo. Quando cominciarono le “epurazioni” nella pubblica amministrazione e nelle università,  la maggior parte degli impiegati, funzionari e professori universitari se la cavò, ma altri ci cascarono dentro con tutte e due i piedi.

 

Per esempio, il prof. Marco Agosti, dell’ Università Cattolica di Milano,  “iscritto al P.N.F. dal 1933 […] si rifiutò, asseriva la Commissione,  costantemente […] di prestare giuramento alla repubblica sociale italiana; ma poi, per evitare possibili persecuzioni, firmò il foglietto a stampa […] con la formula del giuramento […] La Commissione, pur tenendo conto delle condizioni in cui il candidato venne a trovarsi, e che è padre di sei figli, è costretta a proporre nei suoi riguardi la sospensione” (G. Rumi, “In margine al centenario di Agostino Gemelli: due documenti su Università Cattolica e fascismo”, in Storia Contemporanea, 1979, n. 4/5,  p. 1034 e p. 1040).

 

Interessanti sono anche le “Conclusioni” della Commissione epuratrice riguardo a sei professori:

 

“Sei delle proposte di sospensione sono motivate dal giuramento alla repubblica sociale italiana […] In questo giuramento la Commissione ha voluto vedere un grave atto di debolezza non scusabile”.

 

Così, a “carte rovesciate” possiamo verificare in corpore vili  come G. Carmignani avesse tutte le ragioni a sostenere che “l’accusa e  la pena sono parto della politica”:  negli anni del fascismo, se non eri iscritto al P.n.F.,  il lavoro lo vedevi col binocolo; finito il fascismo, ti trovavi lo stesso disoccupato e in braghe di tela,  se eri stato iscritto al P.n.F.

 

Misteri della politica? Al, reputo e credo, sagace lettore l’ardua sentenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.