Le prime ricezioni di Proust in Inghilterra e in Italia

Alla morte di Proust nel 1922, in Inghilterra C.K. Scott Moncrieff pensò di pubblicare un volume miscellaneo contando  sui contributi di scrittori di prestigio (1). Ma, con suo gran disdoro e disappunto, i nomi allora di maggior  spicco della letteratura inglese nicchiarono, opponendogli  un cortese ma netto rifiuto. Tra i nomi di quanti fecero “il gran rifiuto”, comparivano, tra gli altri, quello di  Virginia Woolf,  di Aldous Huxley e  di E. M. Forster.

 

Le ragioni apportate da ciascuno di essi per “giustificare” la loro rinuncia  furono  sempre più o meno le stesse: “We do not,” was the general answer, “know enough of Proust to venture to tackle such a theme”  (2); in altre parole, la risposta “generale” fu la seguente: “Non ne sappiamo abbastanza su Proust per esprimere giudizi su un tale e così importante scrittore”.

 

Se tanti e tali autori di razza,  della tempra di una Virginia Woolf  o di un Aldous Huxley, si sentirono “disarmati” di fronte a Proust ci doveva essere una ragione “comune” di fondo. Scorrendo i saggi di quanti furono comunque coinvolti da C.K. Scott Moncrieff  per dar vita al suo volume (si trattava in genere di giornalisti che, a loro tempo, avevano pubblicato qualche articolo su Proust), emerge un po’ in tutti i collaboratori del volume miscellaneo  una parola che è probabilmente la spia del “disagio” provato “anche” da Virginia Woolf et alii: “long”. Proust, dunque, sarebbe uno scrittore troppo “long”; e secondo Ralph Wright,  nel suo articolo dal titolo A Sensitive Petronius (3), Proust non soltanto sarebbe “long”, ma risulterebbe addirittura “very long”: troppo lungo.

 

Quindi un po’ tutti, in Inghilterra, ritenevano Proust uno scrittore eccessivamente “long”, che alla fine “ti faceva perdere il filo”.

 

Ora, non si deve credere che gli scrittori della Perfida Albione fossero del tutto “solitari” in Europa, né che essi fossero da ritenersi i soli passibili dell’accusa di “lesa maestà”. Venendo a casa nostra, troviamo intanto Emilio Cecchi, che scrivendo anch’egli in occasione della morte di Proust,   si vantava d’essere stato uno dei primi lettori ed estimatori dello scrittore francese: “Chi scrive questa nota è stato tra i primi a parlare di Proust in Italia” (4).

 

Partendo da Cecchi, nel 1925, Fausto Maria Martini riprendeva il discorso su Proust ma in un’ottica critica che non mostrava timori riverenziali.  Pur attestando in  Proust un grandissimo scrittore, anch’egli, come gli inglesi, riteneva  che lo scrittore francese, almeno di primo acchito, risultasse troppo “lungo”. La differenza con gli inglesi stava però nel fatto che Fausto Maria Martini  spiegò anche le ragioni di fondo per cui Proust era “very long”.

 

Il romanzo era intanto “monumentale”: e l’eccessiva lunghezza  sembrava a Fausto Maria Martini  “una tipica debolezza dello scrittore. L’artista mi appariva, continuava, sprovvisto di ogni immaginazione creatrice, e mi sembrava di accorgermi che il primo ad esserne conscio fosse proprio il romanziere il quale per migliaia di pagine si affaticava  a sostituire la scelta dei tratti essenziali che sola consente la creazione dei tipi che non muoiono nel mondo dell’arte, con la fatica d’una memoria paziente e scrupolosa”.

 

Mentre Balzac sceglie soltanto “gli elementi di realtà che egli ha prescelti”, Proust, che fa?

 

“Sia prodigalità, sia avarizia, [Proust] non osa trascurare nulla, non si preoccupa di separare l’utile dall’inutile. Questo narratore dà tutto, per paura di dimenticare qualche cosa nel disordine di un racconto che precipita e nella sua corsa si aggrega mille inutili scorie: precisa, spiega, si ripete”, a mano a mano che si dipana “il filo imbrogliato del ricordo”.

 

Indi, Fausto Maria Martini, sbotta:

 

“Io vorrei chiedere a quella lettrice che mi vantava l’interesse suscitato dalla figura di Swann se veramente ella fosse riuscita ad averne, dalle pagine che aveva lette, una nozione precisa, a cogliere il suo aspetto fisico e morale; a vederlo, insomma, vivo”.  Poi Fausto Maria Martini, rileggendo il romanzo, riconosceva che sì, ci sono “in quelle pagine tutti gli elementi che basterebbero a farci conoscere Swann”; però, si rammarica ancora il critico, “perché egli viva veramente davanti ai nostri occhi, ci tocca raccoglierli noi, quegli elementi, ci tocca, in un certo senso, rifare il romanzo per conto nostro”.

 

Allora, sic stantibus rebus, da dove proviene mai il fascino fascinoso di Proust, qual era “il segreto di un’arte così appassionante”? La risposta di Fausto Maria Martini, dopo l’enunciazione impietosa delle “mende”, è quella di un lettore attento e intelligente:

“ Io credo che l’arte di Marcel Proust ci sia stata e ci sia cara tuttora per la singolarissima virtù che questo narratore dimostra […] di interpretare liricamente anche i momenti più banali della vita”. Ci sono, nell’opera proustiana, conclude Fausto Maria Martini,  “indimenticabili suggestivi melodiosi brani”, ricolmi di “sinuose bellezze” (5).

 

Con ciò Fausto Maria Martini  ci suggerirebbe, per chi ne condividesse gli assunti critici,  “come” leggere Proust;  il quale, appunto, andrebbe assaporato rapsodicamente, in maniera “antologica”, allo scopo, io credo, di non restare in qualche modo “tramortiti” dal flusso incessante del suo narrare.

 

Che è, ritengo, anche il modo con cui, più o meno, “quasi” tutti leggono oggi Proust,  in Italia, e fuori.

 

Note

1)      Marcel Proust, An English Tribute, collected by C.K. Scott Moncrieff , London,  Chatto & Windus, 1923.

2)      C.K. Scott Moncrieff, Introduction, p. 3.

3)      Ralph Wright, “A Sensitive Petronius”, in Marcel Proust, An English Tribute, cit., p. 32.

4)      F. M. Martini, “Rileggiamo Proust”, in Vent’anni di cultura ferrarese: 1925-1945. Antologia del ‘Corriere Padano’, Bologna, Pàtron, 1978, Vol. I, p. 3.

5)      F. M. Martini, Rileggiamo Proust, cit. p. 5.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.