L’error e la sfida di Ovidio ad Augusto

In altra occasione (cfr. l’articolo Ovidio: un poeta dalla vista ‘troppo lunga’), m’è occorso di discutere intorno alle cause dell’esilio di Ovidio, comminatogli, senza possibilità d’appello, da Augusto. In quell’occasione mi soffermavo sulle ipotesi, che allora mi parvero condivisibili, di Francesco della Corte (1). Riprendendo il tema in esame, si rammentano qui  le parole stesse di Ovidio, secondo il quale la sua “relegatio” a Tomi fu dovuta a un “carmen” (quale?) , a un “crimen”, che potremmo tradurre con “peccato mortale”; e  infine a un “error”: secolari problemi critici sui quali ci soffermeremo in questa sede.

Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error, scrisse Ovidio (Trist. II, 207).

Circa il carmen s’è pensato da molte parti all’Ars Amatoria, ma con scarsa convinzione, soprattutto perché l’opera era in circolazione da parecchio tempo, e non si vede proprio per qual motivo Augusto avesse atteso tanto per liberarsi dello scomodo poeta propagatore di malcostume: “Clearly, scriveva deciso G. P. Goold,  this something was not the publication of the Ars Amatoria” (2). Chiaramente, sostiene Goold, quel “qualcosa” che aveva prodotto l’esilio di Ovidio non era certo l’ Ars Amatoria.

Riguardo la critica sul tema in esame,  rinvio all’articolo di Francesco Della Corte sopra citato, limitandomi qui alla menzione (e, talora, al commento) di alcuni studi di notevole spessore e interesse.  Giuseppe Baligan (3), per esempio, ritenne che la causa causarum della relegatio di Ovidio fosse da mettere in rapporto al fatto che il poeta avrebbe goduto dei favori di Corinna-Giulia, figlia di Augusto:

“ A quale colpa fu allora condotto Ovidio dalla sua imprudentia? Corinna (Giulia), una delle volte in cui Ovidio sarebbe stato ricevuto alla Corte imperiale, grazie al suo mirabile ingegno poetico, se ne sarebbe tanto invaghita da manifestargli in qualche lettera la sua passione amorosa, tenendo però occultato il nome. Il poeta […] le avrebbe proposto un incontro, gli fosse anche toccata la sorte di Atteone. Il vederla e l’amarla fu un tutt’uno: ecco il principio, della colpa, della quale si resero responsabili i suoi occhi” (4).  Augusto  lo punì con la relegatio, ricordandosi anche e soprattutto degli Amores, perché, spiega ancora Baligan, “gli Amores contengono, in massima parte, gli illeciti amori di Ovidio e Corinna” (5).

La teoria della “congiura”, asserisce Della Corte, ha avuto largo seguito fra gli studiosi, convinti che Ovidio “avrebbe preso parte a una congiura al fine di eliminare Augusto, impedire la successione di Tiberio e mettere sul trono Agrippa Postumo”  (6). Frances Norwood (7), pur discorrendo di congiura, tende ad assolvere Ovidio da ogni colpa; anzi egli stesso fu vittima di una congiura a suo danno. Dopo aver asserito che “Julia real crime was political and associated with her brother Postumus”, aggiunge: “Ovid was innocently involved and relegated to keep him quiet”  (8). Secondo la Norwood, Giulia, quando andò a far visita al fratello a Sorrento, si portò dietro anche l’inconsapevole Ovidio “as an escort” (9); insomma, in tutta questa vicenda, vediamo un Ovidio assolutamente ignaro di tutto e pressoché ridotto a “ruota di scorta” dell’astuta Giulia, la quale sperava che il “grande poeta” potesse scovare argomenti tali da sollevare lo spirito di Postumo, e a favorirne una riconciliazione con Augusto: “The poor neglected boy needs someone like yourself to awaken his interest”, avrebbe sussurrato Giulia a Ovidio (10). Tanta inconsapevolezza in Ovidio pare esagerata, e comunque sia, la conclusione è che la conoscenza del poeta intorno alla congiura “was limited to a very few” (11).

Altra  suggestiva ipotesi fu formulata da  L. Hermann, con un saggio molto denso in cui mise a fuoco ogni possibile ipotesi,  tra le quali quella di  J. Carcopino (12), il quale congetturò invece che l’esilio fosse dipeso dall’appartenenza di Ovidio a una setta neopitagorica. Secondo Hermann, “Ovide s’est interessé au culte exclusivement fémininin de la Bonne Déesse », la Dea Bona, da cui erano esclusi gli uomini. In che modo quindi peccarono gli occhi di Ovidio? Egli vide forse Livia “au bain”?

No: “La pudique Livie a été surprise par Ovide non pas au bain mais pendant la célébration des mystères de la Bonne Déesse” (13) ; solo che, nell’espletamento delle sacre funzioni, Livia era “nue”, ossia “non vestita”: una “faute accidentale”, “involontaire” (14), spiegava benevolmente Hermann, dovuta più che altro all’insaziabile curiosità di Ovidio, avido di tutto sapere (15).

Infine, dulcis in fundo, s’è fatto come nella favola  della volpe e dell’uva di Fedro: poiché non si riusciva a cavare un ragno dal buco, si è supposto che tutta la faccenda dell’esilio fosse stata una pura invenzione di Ovidio. Insomma l’esilio o meglio la relegatio non ci sarebbe mai stato. L’ipotesi è, come si vede,  azzardata anzichenò; al che, trattando di siffatta questione, Antonio Alvar Ezquerra  è giunto alla seguente conclusione:

“There are also some scholars who have tried to gain a reputation (naturally, those who choose to deny the truth of the exile) by stating that Ovid was the only Roman writer able to feign and create from fiction a new poetic genre, or that Tristia and Epistulae ex Ponto become much more interesting once considered as purely fictional works rather than autobiographical testimony.” [  Ci sono anche alcuni studiosi che hanno cercato di guadagnarsi una reputazione (naturalmente, coloro che scelgono di negare la verità dell’esilio) affermando che Ovidio era l’unico scrittore romano in grado di “inventarsi” cose fantastiche,  e di creare dalla finzione un nuovo genere poetico;  oppure d’immaginare che i Tristia e le  Epistulae ex Ponto sarebbero diventati molto più interessanti se reputati opera puramente fittizia piuttosto che testimonianza autobiografica (16).

G. P. Goold, nel suo intervento sull’esilio di Ovidio, dopo aver passato in rassegna gli studi sull’argomento, postillava argutamente che al classical detective altro non resta se non rassegnarsi al fatto che la causa causarum dell’esilio di Ovidio continua a permanere un “unsolved puzzle” (17). Ma un puzzle, come si sa, è fatto di tasselli: ora, s’è tenuto conto davvero di “tutti” i tasselli, oppure ce n’è sfuggito qualcuno di sotto il tavolo, tanto che non s’è riusciti proprio né a rintracciare, né tantomeno, al contrario di Ovidio, a “vedere”?

Al di là della congettura  di Carcopino (l’appartenenza di Ovidio a una setta pitagorica), tutta la critica ha appuntato l’attenzione sul fatto che Ovidio avesse mosso gli occhi, comunque, su una donna della familia di Augusto. Francesco Della Corte, senza compromettersi più di tanto nell’individuare chi fosse stata la Dea vista da Ovidio, commentava:

“ Stabilito che il crimen riguarda gli occhi di Ovidio, va altresì detto che esso coinvolgeva una dea, e cioè, nel linguaggio metaforico, una donna della domus Augusta”. Insomma, anche a parere di Della Corte, Augusto avrebbe dannato Ovidio alla relegatio perché aveva osato posare gli occhi su una donna-dea della di Lui famiglia, probabilmente in un frangente in cui ella si trovava in atteggiamenti, diciamo così, scarsamente convenienti al pubblico decoro.

Ora, è proprio la questione della “dea” vista da Ovidio che pare offrire la possibilità di aggiungere un nuovo tassello al puzzle evocato  da G. P. Goold.

C’è in realtà un “altro”  punto nell’opera vasta di Ovidio in cui egli confessa di aver veduto un qualcosa che  non avrebbe mai e poi mai né potuto né dovuto vedere: ossia i penetrali del Tempio di Vesta, che solo alle Vestali e al rex sacrorum era dato di vedere. Se fosse vero quanto dice Ovidio nei Fasti, laddove afferma di aver intra-visto, sia pure di sghembo, il locus intimus del Tempio di Vesta, interdetto a tutti,  e di aver intra-visto verità di cui si sentiva soltanto favoleggiare, si sarebbe trattato di un crimen, di un peccato inescusabile, che andava punito. Su questo punto assai delicato per la comprensione del “crimen” di cui parlava Ovidio, una davvero interessante indagine fu quella condotta da Itala Santinelli (non incentrata in modo specifico sulla relegatio di Ovidio),  pubblicata nel 1902:

“Che l’ Aedes Vestae non fosse affatto accessibile agli uomini è stato sostenuto dallo Jordan. Dal  modo con cui si esprime Ovidio, parrebbe ch’egli avesse visto, co’ propri occhi l’interno del tempio. E’ vero ch’egli, rivolto a Vesta, canta: Non equidem vidi … Te, Dea. Nec fueras aspicienda viro. Ma nessuno affermerà, continuava giustamente la Santinelli , che ciò significhi  ‘non vidi il tuo tempio’: bensì: ‘non ebbi né avrei potuto avere la tua visione: nell’estasi della preghiera, unico segno della tua divina presenza fu la purpurea luce che si riflesse sul suolo’: in prece totus eram. Calestia numina sensi, Laetaque purpurea luce refulsit humus. Non equidem vidi, valeant mendaci vatum, Te dea, nec fueras aspicienda viro […] I versi che seguono, continuava Itala Santinelli, potrebbero attestare irrefutabilmente che la cognizione di ciò che si riferisce al tempio di Vesta egli deve unicamente a se stesso, ai propri sensi: Sed quae nescieram, quorumque errore tenebar, Cognita sunt nullo praecipiente mihi (vv. 251-255)” (18).

Riprendendo il passo citato da Santinelli (Fasti, VI, 251 sgg.):

In prece totus eram. Calestia numina sensi;

Laetaque purpurea luce refulsit humus.

Non equidem vidi, valeant mendaci vatum,

Te, dea, nec fueras aspicienda viro.

Sed quae nescieram, quorumque errore tenebar,

Cognita sunt, nullo praecipiente, mihi.

Ovidio quindi dice:

“Mentre ero tutto intento alla preghiera, avvertii la  presenza del Nume, la cui ombra si stagliò netta sul pavimento  alla luce rossa del fuoco. A dir la verità ( e cerco di stare ben alla larga dalle solite baie dei poeti)  non vidi effettivamente Te, o Dea, su cui nessun occhio d’uomo può posarsi; ma certe cose che non conoscevo, e sulle quali sono caduto spesso in errore, mi furono finalmente chiare, senza chieder niente a nessuno”.

In buona sostanza, Ovidio, nei Fasti (VI, 251-255) palesava “senza reticenza alcuna” ad Augusto, il quale era solito leggersi attentamente le cose che lo riguardavano, di aver “visto”, o comunque “intravisto”  almeno l’ “ombra” di una vestale, che si stagliava netta sul pavimento alle rosseggianti fiamme del fuoco. Immaginiamo la faccia di Augusto quando si lesse in anteprima  che qualcuno, che non era lui stesso, l’unico che avesse il privilegio di “alzare gli occhi” su una vestale, aveva avuto “libero accesso” all’ “intimus” del tempio di Vesta. Ora, poiché mi parrebbe da escludere che Ovidio avesse potuto scorgere di soppiatto la Dea nel Tempio del Foro romano, un luogo “pubblico” in cui parrebbe difficile intrufolarsi di soppiatto, è invece più probabile che, per la frequentazione della Domus di Augusto, in cui l’imperatore aveva “ricreato” il Tempio di Vesta, Ovidio si fosse spinto a curiosare in ambienti della Domus in “certi momenti” che non erano certamente “accessibili” né agli ospiti, né agli amici,  né ai poeti di cui l’imperatore era uso circondarsi.

“Il tempio di Vesta, scrive  Attilio Mastrocinque,  era nel Foro romano, mentre sul Palatino, nella Domus di Augusto, fu creato un altro luogo di culto della dea. Questo fu ricavato entro la casa stessa del prìncipe, sorta sul sito dove si credeva fosse esistita l’abitazione di Romolo. Pertanto nel 12  a. C., alla morte di Lepido, Augusto assunse la carica di Pontefice Massimo, e proprio allora fu aggiunto al tempio di Apollo anche il luogo sacro di Vesta” (19).

“Il tempio di Vesta nel Foro, continuava Mastrocinque, continuò a svolgere le sue funzioni anche al tempo di Augusto”; ma è indubbio che egli  [Augusto] “ricreò nell’area della sua casa, che era l’area della casa di Romolo, l’abbinamento fra Regia, domus del pontifex maximus e tempio di Vesta” (20).

Il problema dell’effettiva presenza di un tempietto di Vesta nella Domus di Augusto è stato ampiamente dibattuto di recente. La più decisa sostenitrice della “realtà” del tempio nella Domus augustea è stata Margherita Guarducci, la quale, contra Degrassi et alii, ritiene che

“l’esistenza di un tempio (o tempietto) di Vesta sul Palatino è, dunque, cosa certa” (21). Comunque,  la “cosa” fu ventilata a chiare lettere anche in tempi a noi molto lontani, e con pezze d’appoggio ragguardevoli.

Nel 1828, Vincenzo Ballanti, Socio dell’Accademia Romana d’Archeologia, scriveva:

“Questa posizione del tempio di Vesta Palatina, vicino a quello di Apollo, ed ambedue innanzi la casa di Augusto, perfettamente combina con gli avanzi che esistono delle fabbriche medesime: solo del tempio di Vesta poteva dubitarsi, ma la scoperta fatta dal sig. Thaon del muro circolare […] fa credere con moltissima probabilità, che ivi fosse questo tempio, combinando oltremodo questa posizione con ciò che è detto dagli antichi scrittori” (22).

E’ quindi pensabile che Ovidio, avendo libero accesso alla Domus,  si fosse preso certe “libertà” che non doveva proprio prendersi, andando a sbirciare in luoghi “proibiti” a tutti gli individui di sesso maschile,  tranne che ad Augusto, alle donne e al rex sacrorum, carica  assorbita nella figura del  Pontifex Maximus di cui Augusto fu incarnazione, e a cui l’imperatore dava importanza altissima nel contesto della sua renovatio dello Stato romano, tutto incentrato sulla di lui divinizzazione  (23).

Dovremmo allora pensare che Ovidio non si fosse accorto sino in fondo dell’enorme rilevanza che Augusto dava al tempietto sito “dinanzi” alla sua Domus, accanto a quello di Apollo?

Impossibile! I Fasti sono lì a testimoniare che Ovidio aveva coscienza assoluta dei fini dell’imperatore:

Aufert Vesta diem cognato Vesta recepta est

Limine, sic iussi constituere Patres.

Phoebus habet partem, Vestae pars altera cessit.

Quod superest illis tertius ipse tenet (Fasti, IV, 949 sgg.).

“Accetta questo giorno, Vesta, Vesta è stata accolta entro la Casa di un consanguineo; così stabilì il Senato. Apollo ne abita una parte, l’altra fu data a Vesta. Il resto della Casa è dell’imperatore”. Insomma, Augusto s’era portato il culto di Vesta a casa propria, accanto al culto dei Penati; un tempio era dedicato ad Apollo, l’altro a Vesta, e il resto della Domus se lo tenne per sé.

“Permanent  degentes in Dea Fano, a cuius aditu nemo arcetur interdiu, sed pernoctare intus fas est viro nemini”, diceva Dionigi d’Alicarnasso  (24).

Che a nessun uomo fosse lecito “pernoctare” nel tempio di Vesta Ovidio lo sapeva benissimo, così come  sapeva altrettanto bene che il culto di Vesta era strettissimamente connesso alle Origines di Roma e a Enea, di cui Augusto vantava la discendenza:

Ortus ab Aenea tangit cognata Sacerdos

Numina; cognatum, Vesta, tuere caput.

“Il Sacerdote [Augusto] disceso da Enea ha cura estrema degli Dei suoi parenti; proteggi, Vesta, il tuo consanguineo” (Fasti, III, 425-426).

Pertanto,  il crimen compiuto da Ovidio nel tempietto di Vesta annesso alla Domus imperiale si configurò, agli “occhi”, ritengo “attoniti” di Augusto di fronte a tanta temerarietà, come un’offesa inestinguibile, un vero e proprio delitto di lesa maestà, che sarebbe dovuto essere punito con la pena capitale.

Ma ciò avrebbe dato la stura a una curiosità insaziabile a Roma, dove tutti, nessuno escluso, avrebbero almanaccato intorno alle ragioni che avessero potuto indurre Augusto a una soluzione così radicale: e il Dominus et Deus, a denti stretti, e per non allargare uno scandalo “inaudito”, si risolse per la relegatio, che, come si sa, “appare”, e “apparve” probabilmente anche ai contemporanei, come una punizione minore  rispetto all’esilio, perché permetteva al reo (Ovidio) la possibilità di mantenere intatti i propri averi,  e non lasciava assolutamente trasparire implicazioni di lesa maestà, “limando” in qualche modo anche la curiosità popolare. La “clemenza” nei confronti di Ovidio fu dunque dettata da ragioni di “contenimento” di uno scandalo devastante per Augusto, il quale, per dirla con la Norwood, “avoided gossip” (25); ma, proprio perciò, la suddetta “clemenza” stride fortemente con il periodo in esame, in cui l’imperatore si mostra invece inesorabile con chi gli si mette di traverso.  Nel periodo fra il 4 e il 9 d.C., scrive Alberto Dalla Rosa, si osserva infatti a Roma una situazione politica piuttosto pesante:

“A partire dal 6 d.C., l’Impero fu scosso da una grave serie di ribellioni e disordini  […] Cassio Dione registra delle difficoltà nell’approvvigionamento granario di Roma già per il 5 d. C. […], e nel 6 d.C., Roma fu duramente colpita da una serie di incendi ”; senza poi mettere nel conto  che tutto ciò innervosiva moltissimo il Dominus et Deus; di qui, dunque, “un generale inasprimento delle reazioni di Augusto di fronte alle più forti espressioni del dissenso” (26). La crisi della Roma del tempo fu opportunamente rilevata anche dalla Norwood:

“From Dio we have an account of the disturbed conditions in Rome in A.D. 6. Tiberius was engaged in serious fighting on the frontiers; the populace was distressed by famine, fire, and the new inheritance tax; there was talk of revolution” . [Da Cassio Dione abbiamo un resoconto dettagliato delle condizioni piuttosto agitate di Roma nel 6 d.C. Tiberio era impegnato in pesanti combattimenti sulle frontiere; la popolazione era afflitta dalla carestia, dagli incendi e dalla nuova tassa di successione: si parlava addirittura di rivoluzione] (27).

Proprio perché Roma era in evidente fibrillazione, e non era certo il caso di peggiorare una situazione già di per sé difficilissima da gestire, l’imperatore volle si calasse il più assoluto silenzio sul fattaccio di Ovidio; e si può immaginare che le minacce al poeta fossero state talmente terrificanti (e perciò efficacissime) da sigillargli la bocca in sempiterno; mentre, per sovrapprezzo di punizione, Augusto fece in modo che sull’intero corpus delle opere di Ovidio calasse la mazza di una censura pesantissima: una sorta di damnatio memoriae.

Infatti, la condanna alla relegatio dell’ 8 d. C. lasciò “interrotti” i Fasti ai primi sei libri. E la “confessione” di Ovidio, si osservi,  di aver “visto” quel che aveva intravisto nel tempio di Vesta si trova proprio nel libro VI, che fu l’ “ultimo” che gli fu dato di scrivere, si sottolinea, a Roma; ma che  “nessuno”, a Roma, ebbe  la possibilità concreta non dico di leggere, ma  di “vedere” neppure col binocolo:

“Quando a Ovidio venne imposto di lasciare Roma […] l’opera più impegnativa, Le Metamorfosi, è compiuta, ma non ha ancora ricevuto gli ultimi ritocchi e comunque non è stata ancora pubblicata (sottolineatura mia). La stesura dei Fasti è ancora in corso” (28): il che significa che la bozza dei Fasti era nota soltanto a una cerchia ristrettissima di lettori, e all’imperatore in primis.

Augusto, ben sapendo che Ovidio, proprio per la leggerezza dei suoi temi, poteva contare su un pubblico più ampio di quello dei dotti poeti augustei per eccellenza, Orazio e Virgilio tanto per citare i maggiori (29), temeva “sicuramente” la pubblicazione dei Fasti, in cui si sarebbe letto che l’imperatore, o avrebbe “permesso” ai suoi intimi di infrangere le leggi alle quali tutti erano sottoposti (l’impossibilità per un uomo di accedere al tempio di Vesta è la prima in assoluto); oppure, ancor peggio, che qualcuno, Ovidio nella fattispecie, avrebbe “raggirato” addirittura il Dominus et Deus, carpendone la buona fede e permettendosi di sia pur “intravvedere” secreta inaccessibili a tutti, e per di più nella di Lui Domus. Di fronte a una simile prospettiva, apocalittica agli occhi di Augusto, egli decise inesorabilmente di mettere la parola “fine” alla divulgazione dell’opera di Ovidio, relegandolo a Tomi. La relegatio ebbe infatti conseguenze assolutamente devastanti per Ovidio, le cui opere, anche quelle dell’esilio, furono rifiutate persino dalle biblioteche pubbliche (30).

Di qui dunque si spiega perché Ovidio accusò i propri occhi di crimen, cioè di un “peccato mortale” del quale stava pagando amaramente le conseguenze. Quanto al carmen, egli, per quanto s’è detto sopra, si riferiva a mio avviso, ovviamente,  ai Fasti, rimasti incompiuti. Riguardo all’ error lamentato da Ovidio, egli, in realtà,  commise l’ errore fatale  di pensare di poter scrivere tutto quello che gli passava per la testa senza prendere le giuste misure precauzionali di fronte a un pericolo da lui stesso ventilato palam et aperte proprio nei Fasti,  e che poi Augusto, “sadicamente”, a mio avviso,  “concretizzò”, scegliendo il modo più sbrigativo e il meno compromissorio per levarsi di torno un poeta a dir poco scomodo, e un po’ troppo “canterino”.

Parlando della garrulità del canto degli uccelli, Ovidio ne individuò però un crimen: essi cioè cantano, ma al tempo stesso “ascoltano” i discorsi dei potenti, i quali, a un certo punto, temono che essi siano divulgati, per cui i sunnominati uccelli finiscono per essere “sacrificati” agli Dèi (Fasti, I, 441).

Intactae fueratis aves solatia ruris,

Assuetum silvis, innocuumque genus :

Quae facitis nidos quae plumis ova fovetis,

Et facili dulce editis ore modos :

Sed nihil ista iuvant, quia lingua crimen habetis,

Diique putant mentes vos aperire suas.

Cioè : “Eravate un tempo sicuri, voi, uccelli innocenti, sollazzo dei campi; voi, che fate i vostri nidi, che covate le uova sotto le piume, e cantate con dolci cinguettii. Ma ciò vi giova a poco: quel che vi danna è la  lingua, poiché gli Dèi sospettano che voi palesiate i loro discorsi”

Ovidio, in fin dei conti, con la relegatio a Tomi, aveva dunque fatto la fine di quei “garruli uccelli” ai quali gli Dei permettono sì di cinguettare, ma dei quali ben presto si liberano, quando in essi insorge il sia pur lontano sospetto che i suddetti uccelli “palesino i loro discorsi”. Proprio perché Ovidio fu perfettamente consapevole dei rischi che correvano i “garruli uccelli”, cioè, fuor di metafora,  i poeti di corte, vien da pensare che l’ “ingenuità” da lui professata fosse stata soltanto un espediente (assolutamente insufficiente) per cercare di scusarsi con Augusto.

Diceva infatti della Corte:

“Dunque di un crimen, per pura imprudenza, si resero responsabili gli occhi di Ovidio, che non aveva saputo prevedere (Trist. III, 5, 49 s.) quale funestum malum (Trist. III,6, 28) ne sarebbe nato” (31).

Se dovessimo anche accettare che la “pura imprudenza” di cui parlava Della Corte contiene un fondo di verità, dovremmo inferirne che Ovidio s’era fidato un po’ troppo del fatto che  i suoi “licenziosi” versi giovanili ante relegatio circolassero tuttavia, in dispregio al volere di Augusto, orientato a imporre a Roma castigatezza di costumi, illudendosi che anche coi Fasti l’avrebbe fatta franca.

Ma la consapevolezza assoluta che mostra Ovidio nei Fasti dell’eccezionale importanza “politica” che possedeva il tempietto di Vesta agli occhi di Agusto e dei veti a esso connessi; e anche dei pericoli cui sarebbero andati incontro i “garruli uccelli”, fa ritenere, au contraire,  che non di semplice “imprudenza” si fosse trattato, ma che, addirittura, il poeta  si fosse messo in testa di poter sfidare Il Dominus et Deus.

Non è un mistero per nessuno che sia gli Amores sia l’ Ars Amatoria avevano lavorato ai fianchi l’imperatore, e che  avevano messo a dura prova i nervi e le capacità di sopportazione di Augusto, tutto volto a una “restauratio” del mos maiorum. Nello specifico, scrivono Jennifer Ingleheart e Katharine Radice, l’Ars “ particularly offended Augustus”, soprattutto perché Ovidio fu molto esplicito, e perciò l’ “offesa” probabilmente scaturì, essenzialmente, “by the lack of ambiguity in the portrayal  of clearly adulterous relationships and the cheerful flouting of the spirit of the Augustean legislation in several of the poems in the Amores ” [dall’assenza di un’area di ambiguità nella rappresentazione di relazioni chiaramente adulterine, e dall’allegra disinvoltura nel trasgredire lo “spirito” della legislazione augustea in molte delle poesie degli Amores”] (32). Più analitico è stato Vicente Cristóbal López, il quale passò in rassegna tutti i passi delle opere di Ovidio ante relegatio che avevano letteralmente sfiancato l’imperatore: poco rispetto della religione e degli ideali militari che guidavano Augusto, volto alla conquista dei mari e del cielo, e il farsi beffe dell’antica simplicitas et rusticitas, minando con ciò “alla radice”  gli sforzi compiuti dell’imperatore per la moralizzazione dei costumi secondo i placita maiorum (33).

Se così fosse stato, se cioè Ovidio si fosse imbarcato “anche” con i Fasti,  (che, come abbiamo visto,  caddero in un momento particolarmente complicato della vita politica di Roma), in una sorta di  sfida al Dominus et Deus, essa gli procurò guai a palate: non solo la stroncatura rovinosa di una carriera che sembrava avviata a orizzonti luminosi,  ma anche della vita privata, ridotta agli stenti in una terra inospitale, dove, diceva lui, non c’era neppure un medico a cui affidarsi per i propri acciacchi.

Se il crimen era stato gigantesco, l’error fu  mastodontico, e degno davvero di punizione “divina”. Non è scritto nelle Tavole della Legge che il tassello da noi aggiunto al puzzle dell’esilio di Ovidio sia da considerarsi quello che dà completezza almeno ai contorni del quadro; però una cosa possiamo dirla, carte alla mano: il Sesto Libro dei Fasti fu l’ “ultima” opera romana di Ovidio; “dopo” di che registriamo soltanto la condanna alla relegatio perpetua, cui neppure Tiberio volle metter mano, se non altro perché, come scrisse la Norwood, egli, al contrario di Postumo, sotto il pater Augusto  “was perfectly  free to live where he pleased”  (34).

I Fasti  si rivelarono, dunque, affatto ne-fasti all’antico e divertito cantore degli Amores.

 

Note

1)        Francesco Della Corte, “Il reato segreto di Ovidio”, in Cultura e Scuola, aprile-giugno 1990, n. 114, pp. 48-53. Studio complessivo puntuale è  anche quello di Dean Caputo, Carmen et error. The Mystery of Ovid’s Crime and Relegation, HUMN510, America Military University, 2015.

2)        G. P. Goold, “The Cause of Ovid’s Exile”, in Illinois Classical Studies, J. K. Newman Editor, Vol. VIII.1, 1983, p. 99.

3)         Giuseppe Baligan, “ L’esilio di Ovidio” , in Atti del Convegno Internazionale di Sulmona (Sulmona 1958), Roma,  Istituto di studi romani, 1959,  Vol. I, pp. 49-54.

4)         Ivi, p. 53.

5)         Ivi, p. 51.

6)         Francesco Della Corte, Il reato segreto di Ovidio, cit., p. 49 nota 3.

7)         Frances Norwood, “The riddle of Ovid’s relegation”, in Classical Philology, 1963,  n. 58, pp. 150-163.

8)         Ivi, p. 151.

9)         Ivi, p. 156.

10)       Ivi, p.157.

11)       Ivi, p. 162.

12)       L. Hermann, «La faute secrete d’Ovide», in Revue belge de Philologie et d’Histoire, 1938,  XVII; il riferimento è a  J. Carcopino, Intorno alle cause dell’esilio di Ovidio, Ovidiana, Paris, 1958,  p. 713.

13)       Ivi, p. 717.

14)       Ibidem.

15)       Ivi, p. 723.

16)       Alvar Ezquerra, “Ovid in Exile: Fact or Fiction?”, in  Analele  Ştiinţifice ale  Universitatii  Ovidius din Constanta. Seria Filologie, 21 (2010), pp. 107-126; p. 126.

17)       G. P. Goold, The Cause of Ovid’s Exile, cit.,  p. 107.

18)       Itala Santinelli, “Alcune questioni attinenti ai riti delle vergini vestali”, in Rivista di Filologia e istruzione classica, Torino, Loescher, 1902, Vol. XXX, p. 258.

19)       Attilio Mastrocinque, “Roma quadrata”, in Mélanges de l’ École français de Rome. Antiquité, Volume 110, Parte 2 , 1998, p. 694.

20)       Ivi, p. 694 nota 63.

21)       Margherita Guarducci, “Enea e Vesta”, in  Scritti scelti sulla religione greca e romana e sul cristianesimo, Leiden, E. Brill, 1983, p. 223.

22)       Il Palazzo de’ Cesari restaurato da Costantino Thaon, architetto della Corte di Russia…, Illustrato da Vincenzo Ballanti, Socio dell’Accademia Romana d’Archeologia, Roma, Per la società tipografica, 1828,  p. 22.

23)       Sull’importanza che agli occhi di Augusto rivestiva il rex sacrorum e la carica di Pontifex Maximus, cfr. Edoardo Bianchi, Il Rex Sacrorum a Roma e nell’Italia Antica, Revisione e aggiornamento al 2017 del volume, Milano, 2010, in particolare il cap. “L’Età imperiale, il rex sacrorum da Augusto alla tarda antichità”,  pp. 156-173.

24)       Dionysii Halicarnassei Antiquitatum, Sive Originum Romanarum, Libri X, Sigismundo Gelenio Interprete, apud Seb. Gryphium, Lugduni, 1555, p. 204.

25)       Frances Norwood, The riddle of Ovid’s relegation, cit., p. 153.

26)       Alberto Dalla Rosa, “Gli anni 4–9 d.C.: riforme e crisi alla fine dell’epoca augustea”, in Augusto dopo il bimillenario. Un bilancio,  a cura di  Simonetta Segenni, Milano, Le Monnier Università eMondadori Education, 2018, p. 91, e pp. 94-96.

27)       Frances Norwood, The riddle of Ovid’s relegation, cit.,  p. 153.

28)       Mario Citroni, “Ovidio e l’evoluzione del rapporto poeta-pubblico tra tarda repubblica e prima età imperiale”, in Continuità e trasformazioni fra repubblica e principato. Istituzioni, politica, società, a cura di Mario Pani, Bari, Edipuglia, 1991, p. 153.

29)       Ivi, p. 144.

30)       Ivi, p. 142 e nota 16.

31)       Francesco Della Corte, Il reato segreto di Ovidio, cit., p. 51.

32)       “General Introduction”, in Ovid Amores III,  Edited by Jennifer Ingleheart and Katharine Radice, London, Bristol Classical Press, 2011, pp. 14-15.

33)       Publio Ovidio Nason, Amores, Arte de amar, Sobre la cosmetica del rostro feminino, Remedios contra el amor, a cura di Vicente Cristóbal López, Madrid, Biblioteca Clásica Gredos, 1989, p. 23.

34)       Frances Norwood, The riddle of Ovid’s relegation, cit.,  p. 151.

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.