L’Italia e il Veneto postunitari tra accentramento e “disaccentramento”

accentrare

 

 

Come si può evincere dal titolo, il seguente articolo, per necessità stringato,  è dedicato al tema dell’accentramento e del decentramento nell’Italia post-risorgimentale, e in particolare nel Veneto. Nel concludere l’articolo dedicato all’Austria e al Veneto 1866  asserivo che la questione scolastica del nuovo Regno d’Italia non fu  affatto disgiunta da quella dell’accentramento. Vediamo in che senso. Mentre infatti le classi dirigenti  degli stati preunitari, Veneto compreso, preunitario e addirittura pre-austriaco (la Repubblica di Venezia),  ebbero tutto l’interesse a mantenere ignorante e analfabeta il popolo ( e  “il popolo di Venezia è il più ignorante di tutti”,  dichiarò seccamente nel 1797 il “Cittadino Maniago”), il nuovo Regno d’Italia aveva esigenze del tutto assolutamente opposte. Aveva cioè bisogno che le giovani generazioni fossero educate, e sapessero leggere e scrivere per poter assimilare e introiettare il messaggio che il nuovo stato unitario intendeva loro veicolare: l’assoluta necessità storica dell’unità d’Italia guidata da Casa Savoia. Per  questo il nuovo Stato aveva bisogno di una scuola “unidiretta”,  e di quella soltanto: una scuola accentrata.

 

 

Secondo taluni, la storia degli “Italiani” cominciò con l’Unificazione, per qualcuno “imposta” o “decisa”, per altri “definita” da Casa Savoia. Prima dell’Unificazione gli “Italiani” non esistevano, si diceva:

 

“Dov’è dunque l’Italia?, si chiedeva Ferrari. In  che consiste? Qual legame unisce le repubbliche, i signori, i papi?”. Per Gioberti “il popolo italiano è un desiderio non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa” (G. Bollati, L’Italiano).

 

Chi dette un nome a quella cosa fu Casa Savoia, che fece dell’Italia “di una nazione astratta, una nazione concreta. Italiano, io non so che questo”, scriveva A. C. De Meis nel 1869 (Lo Stato). Lo Statuto Albertino del 1848 faceva del sovrano il perno dello Stato sabaudo, in cui tutto lo Stato si riassumeva. Quando furono annessi gli Stati italiani alla Casa Savoia, il “controllo” burocratico-amministrativo  degli stessi fu affidato ai Commissari regi, che costituivano la cerniera tra i territori annessi e il sovrano. I commissari regi furono per decenni il simbolo di un potere accentrato nella figura del sovrano sabaudo:

 

“Ad avvio dell’esperienza statutaria”, scriveva P. Colombo,  “i commissari sono più numerosi che in seguito”, aggiungendo che  Cavour si lamentava del sovrabbondante impiego che si  faceva di queste figure istituzionali. Egli inoltre rammentava come Francesco Racioppi avesse sottolineato che  “nei primi tempi del regime rappresentativo presso di noi non davasi legge di una qualche importanza, per la quale non si addivenisse alla nomina di un commissario regio”. Secondo Racioppi l’ultimo commissario si sarebbe avuto nel corso della XV legislatura (1882-1886);  ma Colombo osservava che  “il dato non sembra affidabile: ancora il 12 febbraio 1888 una legge sul riordino dei ministeri rinvia alla figura del commissario regio” ( P. Colombo, Il re d’Italia).

 

 

Il commissario regio fu del resto una  figura tipica degli Stati d’ antico regime: “Il commissario, scriveva Hans Rosenberg, era il nuovo tipo di burocrate, il campione esplicito della centralizzazione monarchica” ( H. Rosenberg,  Sovrano, Signori della terra, alta burocrazia: la Prussia). E che i commissari fossero vera emanazione del sovrano, addirittura più potenti delle stesse Camere,  lo si evince dalla lettura dell’Articolo 59 dello Statuto Albertino, laddove si dice che

 

“le Camere non possono ricevere alcuna deputazione, né sentire altri fuori dei propri membri, dei ministri e dei Commissari del Governo” (Carlo Alberto per la grazia di Dio re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme. Dato in Torino addì quattro del mese di marzo l’anno del Signore mille ottocento quarantotto e del Regno Nostro il decimo ottavo, p. 6).

 

Premesso questo dato, che rinvia di per sé al concetto di accentramento,  entriamo adesso nel cuore del problema che ci interessa:  l’accentramento e il decentramento. L’accentramento, come vedremo fra breve, non fu mai scalfito “nella sua essenza” nel corso di tutta la storia dell’Italia Unita sotto i Savoia;  e quando ciò accadde, lo fu  se non marginalmente. Ciò perché tale concetto, in area sabauda e poi italiana,  costituiva uno degli aspetti fondanti delle prerogative sovrane,  che nessuno si sognò mai di mettere in crisi “effettivamente” lungo tutti gli anni del Regno d’Italia.

 

Il dato suaccennato ci conduce inevitabilmente ad analizzare il  problema della formazione dello Stato unitario italiano. Quando si discute intorno all’unità d’Italia, oggi si sente spesso parlare di un’azione  che avrebbe “obbligato” le “piccole patrie” dell’epoca, trascinando, di conseguenza,  “anche”  i popoli delle “piccole patrie”,  a subire, giocoforza, l’Unità.

 

E’ qui necessario sgombrare il campo dagli equivoci. E’ ben vero che l’Unità del paese fu perseguita dai Savoia nel corso del Risorgimento, supportati  dai repubblicani di Mazzini e dai garibaldini; ma chi  concretizzò l’Unità nella “realtà effettuale” fu la monarchia sabauda. Tale dato era chiarissimo a Mazzini, il quale si mostrava assolutamente convinto del fatto che l’Unità raggiunta nel 1861 sotto  fosse stata dovuta  ad “una guerra dinastica, mirante all’ingrandimento territoriale del Piemonte” (F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento).

 

Tra le varie interpretazioni sulle “origini” dell’Unità, la più dotata di indubbia forza esplicativa fu  quella proposta moltissimi anni or sono da Ettore Rota.  Come spiegò benissimo  Rota nelle prime pagine introduttive de Il problema italiano dal 1700 al 1815. (L’idea unitaria), dopo aver detto che “l’aspirazione ad uno stabile ordinamento politico accompagna, da sempre, sia pur vagamente tutta la storia d’Italia” ( e qui Rota citava vari esempi: Federico II, Gian Galeazzo Visconti et caetera), egli entrava subito in argomento, osservando che la spinta propulsiva verso l’unità del paese provenne fortissima da Casa Savoia.   Essa, a parere di Rota,

 

“è visibile in tutta la politica di Casa Savoia, che sempre avverte la necessità di accentrare le funzioni di governo e di fortificarne i poteri, mentre agguerrisce il Piemonte per la sua più sicura espansione territoriale”.

 

Pertanto, dietro l’impulso unitario, ci fu quella che Rota definì “la ferrigna temperie politica della Corte Sabauda”; “il programma di ingrandimenti territoriali dei Savoia”, che trovavano però ostacolo, anzi, “un grave intoppo nelle dinastie italiane, timorose di perdere la propria indipendenza”. A  supportare, in qualche modo, le pressioni sabaude verso l’unità, concorsero anche gli studi economici. Rota riportava un passo di Alessandro Verri in cui si asseriva:

 

“Se l’Italia fosse suddita di un sol prìncipe, nessuno direbbe ragionevole il vincolare i trasporti da una provincia all’altra, anzi si griderebbe contro di essi”. Quindi Rota spiegava: “la visione del comune interesse economico presiede alla considerazione dell’ordinamento politico d’Italia” (E. Rota, Il problema italiano dal 1700 al 1815. (L’idea unitaria).

 

L’ “explanatio” sulle origini dell’Unità di Ettore Rota rimane ancora potente,  anche a distanza di tanti e tanti decenni dalla sua formulazione (1938). Naturalmente, nel corso del Risorgimento agirono, come abbiamo visto,  altre forze politiche, alcune delle quali dovettero però coagularsi intorno alla “voluntas” di Casa Savoia, se vollero raggiungere lo scopo.

 

Oggi ci si lamenta da più parti del modo con cui fu costruita l’Unità.  Ma l’unità d’Italia va valutata  secondo i “ritmi” della storia d’Italia e secondo la temperie politica che guidò le monarchie dell’Europa ottocentesca, per le quali gli ingrandimenti territoriali costituivano la norma, senza scandalizzarsi o strapparsi le vesti per situazioni, fatti ed eventi che “realmente” accaddero e rimangono  lì, immodificabili, di fronte a noi. Ora, mettersi ex post a “giudicare” secondo i parametri della desiderabilità nel presente eventi come l’Unità e il suo formarsi, significa essenzialmente fare un’azione antistorica che non porta da nessuna parte, se non a polemiche “oziose”, o a “piaceri di sognatori”, come diceva  Tocqueville; il quale  sottolineava come “allorché le cose umane vengono trattate in modo astratto,  e ci si preoccupa soltanto di discutere  genericamente i concetti di bene e di male, del vero e del falso, del giusto e dell’ ingiusto, ciò costituisce soltanto un  divertimento ozioso,  nonché un piacere da sognatori” (A. De Toqueville, Études économiques, politiques et littéraires, (Traduz. mia. Testo originale nelle Fonti).

 

 

“In fondo, diceva giustamente Gina Fasoli,  esercito, militarismo, burocrazia hanno costituito dovunque, in un’epoca ben precisa dell’Europa, gli ingredienti di un nuovo, trionfale, esperimento costituzionale: quello dello Stato moderno, elemento costitutivo e prodotto insieme del sistema europeo degli Stati” (G. Fasoli, Federico II e la seconda Lega lombarda. Linee di ricerca). L’Unità, che lo si voglia o no,  fu concretizzata in Italia non attraverso il popolo ma con  l’esercito di Casa Savoia,  e attraverso l’uso sapiente di una “burocrazia  colta  [che] vuole dirigere lo Stato secondo il principio  attribuito, ma mai apertamente professato da  Giuseppe II:

 

Tutto per il popolo, niente attraverso il popolo [Alles für das Volk, nichts durch das Volk] ( Adam Wandruszka, Il liberalismo austriaco).

 

Ergo,  la volontà di  espansione territoriale dei Savoia, aggregandosi con altre forze, fu l’ energia propulsiva più potente del successivo sviluppo unitario della penisola, e il dato spiega abbondantemente anche le enormi difficoltà cui andò incontro il decentramento.

 

Ettore Rota,  in seguito,  pronunciò anche le parole magiche, che  scatenarono nell’Italia postunitaria un putiferio di polemiche. I Savoia, scrisse dunque Rota,  vollero “accentrare le funzioni di governo e  fortificarne i poteri”. Di qui ne discese che  socialisti, repubblicani, democratici, federalisti, socialisti alla Proudhom  e alla Ferrari, nonché i mazziniani:  tutti erano convinti del fatto che l’Unità raggiunta nel 1861 fosse stata dovuta  ad “una guerra dinastica”.

 

L’accentramento, e, il suo contrario, il  disaccentramento, aulico termine poi vulgiter tradotto con decentramento,  furono il refrain che accompagnò  la storia dell’unità d’Italia fin dalla sua primissima formazione. Contro l’accentramento, e i suoi  effetti ritenuti nefasti sulle “piccole patrie” preunitarie ne discesero innumerevoli discorsi, proteste, trattati, pamphlet, e chi più ne ha più ne metta. Il risultato pratico, al di là della bibliografia immensa che si potrebbe citare sul tema, fu uno e uno soltanto: che l’accentramento  non fu mai scalfito “nella sua essenza”, se non marginalmente. Tra l’altro, l’accentramento ebbe  insigni propugnatori che ne “giustificarono” l’adozione, sotto il profilo teorico, con argomenti validi,  e, soprattutto, considerando situazioni storiche “particolari”. Tocqueville non aveva buona opinione dell’accentramento; ma egli non si ergeva mai a “giudice” dei fenomeni storici, ma si sforzava di capirli. Cosicché, riguardo l’accentramento, egli sottolineava come

 

“ Le nazioni che, a poco a poco,  assumono una struttura democratica, di  solito, dunque, iniziano la loro strada  accrescendo le attribuzioni del potere règio. Ciò perché il principe ispira loro minori gelosie e anche minori paure rispetto alla nobiltà; e,  d’altra parte, nel corso di  eventi rivoluzionari, è già tanto trasferire il potere  da una mano all’altra […] Cosicché, quando i popoli si avviano verso uno Stato democratico, finiscono sempre per concentrare il potere nel Sovrano” (A. De Tocqueville, Mélanges, fragments historiques  et notes sur l’ancien régime, la révolution et l’empire) (Traduz. mia. Testo originale nelle Fonti).

 

In questo senso, a parere di Tocqueville,  non bisogna “ni louer ni blâmer Napoleon d’avoir concentré dans ses seules mains presque tous les pouvoirs administratifs [né lodare né biasimare Napoleone per avere accentrato soltanto nelle sue mani pressoché tutti i poteri amministrativi]”. Infatti, continuava Tocqueville, nel caso “d’una rivoluzione violenta, le classi che gestivano gli affari locali scomparvero repentinamente in questa tempesta; e la massa confusa, che non possedeva ancora né l’organizzazione né le abitudini che le permettessero di assumere l’amministrazione degli affari di Stato, altro non vedeva se non  lo Stato stesso che potesse prendersi cura di tutti i dettagli del governo. L’accentramento diventa pertanto un fatto assolutamente necessario. Non si deve né lodare né biasimare Napoleone per avere accentrato soltanto nelle sue mani pressoché tutti i poteri amministrativi, perché, dopo l’ improvvisa scomparsa della nobiltà e dell’aristocrazia,  questi poteri gli arrivarono quasi da se stessi”(A. De Tocqueville, De la démocratie en Amérique . (Traduz. mia. Testo originale nelle Fonti).

 

Tanto che, dal Veneto stesso, Carlo Salvadori poteva asserire sardonico:

 

“Abbiamo un bel gridare Decentrate, quando fino gli operai pretendono lavoro dallo Stato, quando non si cercano che impieghi e per tutti” (Carlo Salvadori, Critica e filosofia).

 

Storicamente, ed anche “empiricamente”, possiamo pertanto asserire senza tema di smentita che il cosiddetto “Stato macchina” fu un retaggio incontrovertibile, possente e indiscusso dell’Europa moderna degli Stati, piccoli o grandi che fossero (dalla Repubblica di Venezia alla Spagna, dalla Francia alla Prussia e alla Russia); dove, come diceva Federico Chabod, “ogni Stato continua a fare la propria politica nel proprio esclusivo interesse”; dove “lo Stato riposa ancora sul senso di fedeltà al re, alla monarchia”; e dove ogni “azione effettiva di governo […] emana, ogni giorno, dal Prìncipe e dai suoi ufficiali” ( F. Chabod, Scritti sul Rinascimento).

 

Nel caso  dell’Italia, chiosava Claudio Pavone, il problema del disaccentramento era in genere malvisto dalle classi dirigenti, perché il paese in effetti risentiva di “un’opaca e conservatrice corposità”:

 

“Quel tanto di democrazia, proseguiva Pavone,  che era stato fatto spingeva i notabili, aristocratici e moderati, a Nord e a Sud, quale che fosse il loro amore per i ‘corpi intermedi’ a rafforzare il centralismo […] perché la democrazia era più sperata o temuta che realizzata […] La conseguenza era che rimanevano, sulle spalle degli italiani, un nuovo Stato accentratore e vecchi gruppi dominanti locali” ( Claudio Pavone, La scelta dello stato accentrato).

 

Ma Luigi Pianciani, in un suo poderoso volume tutto in-centrato sul disaccentramento, scriveva:

 

“È scopo di questo lavoro di discutere della libertà amministrativa; e ciò non solo perché siamo convinti che di essa particolarmente abbisogni l’ Italia a consolidare e fecondare la unità nazionale,  ma perciò che vediamo in quella il modo di rafforzarla: del che la indipendenza sarà la conseguenza di educarla alla vita libera,  lo che avrà per effetto sicuro lo svolgimento progressivo delle libertà costituzionali” (Luigi Pianciani, Il disaccentramento).

 

“Ora la libertà amministrativa, proseguiva  Pianciani,  noi riassumiamo in una sola parola disaccentramento;  e perciò con quella parola abbiamo intitolato il nostro scritto. Insino a che una autorità una collettività qualunque si attribuisce di fare ciò che un individuo o persona collettiva può senza offesa di altri fare da se stesso, a mio credere, non esiste libertà. Insino a tanto che il governo amministri per altri quello che altri può amministrare; insino a che egli si attribuisce un diritto di tutela sulle amministrazioni che non rappresentano un interesse generale non esiste libertà amministrativa” (Luigi Pianciani, Il disaccentramento).

 

“Noi ripetiamo ancora: non vogliamo rivolgimenti che valgono a compromettere la nostra unità, che rappresenta nell’attualità delle circostanze la nazionale […] La questione del disaccentramento […] è questione a nostro giudizio, più d’ogni altra interessante, è questione di vita o di morte per la Italia […] per noi si tratta invece di esistere o non esistere” (Luigi Pianciani, Il disaccentramento).

 

Le parole di Pianciani, potrebbero forse apparire esagerate, ma erano tutte enunciazioni che persino Lo Zenzero, giornale satirico di Firenze,  aveva già espresso sin dal 1862, dopo l’annessione degli Stati centrali al Regno d’Italia, parlando dell’accentramento come di un Cerbero:

 

“Forti nei nostri diritti che sono riposti della legge noi seguiteremo a battere la strada senza curarci degli spropositi del Urbano Rattazzi […] perché ci siamo proposti di sostenere gli interessi delle provincie toscane in compatibilità con quelli della Nazione, della quale ci gloriamo di esser parte non ultima.  Protestammo e protesteremo finché ci resti filo di voce contro un sistema insano ed insopportabile di governare, che fino ad ora ci venne imposto, ma non potrà mai riuscir gradito alla troppo classica e vetusta civiltà Toscana. Ci lamentammo di leggi inopportune, gravose e dettate in barbara lingua come della tracotanza burocratica dei cancellieri della Capitale presente,  i quali è incerto se più meritino misericordia o non san quel che fanno. Gridammo contro  i Feudatarj perché ci siamo accorti che il Cerbero dell’accentramento ci stremava le nostre migliori risorse e ci minacciava una ad una tutte le nostre tradizioni”. (Lo Zenzero, Giornale politico popolare, Firenze, 7 settembre 1862).

 

Di fronte al montare delle proteste “disaccentratrici”, la classe politica  della Destra Storica, e poi quella della Sinistra, su su fino a Giolitti, cercarono di operare una sterzata ( ma  molto, molto  soft) a pro’ dei “petulanti” disaccentratori, e comunque sempre  nel ferreo contesto della camicia di forza  dell’accentramento. Si cercò pertanto, nell’ampio contesto di una inscalfibile “uniformità”, un coordinamento dell’amministrazione statale periferica intorno ai prefetti, si usarono le camere di commercio, si istituirono  commissioni a non finire (quasi  sempre costituite con  carattere di “eccezionalità” e mai  “strutturali”),  organi consultivi intermedi, ma

 

“appare chiara la volontà di non smantellare l’accentramento dell’organizzazione amministrativa, pur razionalizzandola attraverso l’inserimento di rappresentanti anche delle forze subordinate” (R. Ruffilli, Esigenze della borghesia e organizzazione della pubblica amministrazione). Potremmo pertanto dire  che l’accentramento, partorendo questo tipo di “disaccentramento-accentrato” ebbe l’effetto indesiderato di moltiplicare per mille i quadri burocratici, con gli impiegati regii che divennero, secondo taluni, semplicemente legioni. Tanto che il  deputato Levi, ormai stremato,  già all’altezza del 1860, poteva dichiarare alla Camera che il budget previsto dallo Stato per l’assunzione di nuovi impiegati  era andato letteralmente a farsi friggere:

 

“Governare il meno possibile, amministrare col minor numero d’impiegati, tale la massima che deve proporre a sé libero reggimento. La massima invece fu invertita. Gl’impiegati non si contano più a schiere, sono divenuti legioni! Fu tutta un irruzione di burocratici [= burocrati] d’ ogni specie, d’ogni colore, che invase i dicasteri sempre angusti a tanta piena. Agli impiegati sardi, austriaci, delle provincie annesse,  si aggiunsero  i nuovi,  che i nuovi servigi,  o i nuovi favori hanno suscitati. Essi formano altrettanti sedimenti diluviani,  antidiluviani e d’ultima creazione. E sotto tanti strati il budget, per quanto rotondo e poderoso, va stremato e sparisce” (Atti del Parlamento italiano, Sessione del 1860, Discussioni della Camera dei deputati).

 

Questa era già la situazione nel 1860. Cosicché, nella tornata del 13 marzo 1866, troviamo ancora un sempre più disperato Pianciani,  che, mai prono ad arrendersi all’accentramento, in un suo intervento alla Camera tuonava da par suo  ancora in  favore  di un disaccentramento ormai diventato una vera e propria  Araba Fenice (che ci sia ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa):

 

“Quando l’ente Stato conserva sempre tutte le sue attribuzioni,  che egli le deleghi o no a un altro,  l’accentramento vi  è sempre. Né ciò basta: l’ accentramento diviso tante parti dello Stato non solo non è un disaccentramento, ma è un accentramento in dodicesimo peggiore del primo: e credo che sia peggiore del primo per lo Stato, per l’ordine per le popolazioni” (Svolgimento Camera dei Deputati. Sessione del 1866, in Rendiconti del Parlamento Italiano, Sessione del  1865-1866).

 

Il disaccentramento, per le ragioni sopra dette, e nonostante i mille contorsionismi dell’accentramento per fargli un po’ di spazio, non  ebbe mai libera circolazione nell’Italia postrisorgimentale, tanto da far dire a Carlo Morandi parole fatidiche:

 

“Sta di fatto che, in Italia, una vera democrazia moderna intesa come pratica d’autogoverno e come sviluppo delle autonomie regionali, cioè degli interessi particolari nell’ambito dello Stato Unitario non si ebbe né con Depretis né con i suoi successori. E rimane un problema aperto, forse una possibilità del domani” (Carlo Morandi, La Sinistra al potere e altri saggi).

 

Se hanno un qualche valore le argomentazioni sopra esposte, gli insuccessi clamorosi del disaccentramento furono  dovuti  per gran parte o in tutto alle radici prime della formazione  dell’Unità, portata avanti da  uno Stato, quello sabaudo, che mantenne sostanzialmente inalterate le strutture tipiche dello stato moderno d’antico regime. Ed è ancora una volta  Tocqueville che ci conforta e ci supporta in questa ipotesi:

 

“Se mi si chiedesse come questa parte dell’antico regime [= l’accentramento] si sia trasferita interamente nella nuova società e sia riuscita  ad incorporarvisi, direi  che sì, l’accentramento non è morto con la rivoluzione, per via del fatto  che esso stesso costituì l’inizio e il segno di questa rivoluzione; e vorrei altresì aggiungere che, quando un popolo è riuscito ad espellere dal suo seno l’aristocrazia, esso corre veloce verso l’accentramento come un sol uomo. Ci vuole molto meno sforzo a scivolare su questa china piuttosto che a mantenersi indenni dal suo potere. Nel suo seno,  tutti i poteri tendono naturalmente verso l’accentramento, e ci vuole  per davvero un’arte sopraffina  per tenerli divisi. La rivoluzione democratica che ha distrutto tante istituzioni del vecchio regime doveva dunque consolidarlo, e l’accentramento trovò così naturalmente il suo posto nella società in cui si era formata questa rivoluzione,  che possiamo considerarlo  facilmente come una delle sue opere più evidenti” (A. De  Tocqueville, L’ancien régime et la révolution) ( Traduz. Mia. Testo originale nelle Fonti).

 

 

Mazzini s’era dovuto rassegnare alla “guerra règia” per conseguire l’Unità; agire in senso opposto avrebbe significato,  a suo avviso, scadere nel ridicolo. Jessie White Mario, moglie di Alberto Mario, la “hurricane Jessie”, come la definì Mazzini stesso,  promotrice del federalismo alla Cattaneo insieme con il marito,  nella  biografia su Mazzini riportava una di lui lettera a Benzi, da cui si evince senza ombra di dubbio che egli avrebbe tanto desiderato un’ “insurrezione popolare”; ma, egli scriveva:

 

“Ho predicato con voi tutti guerra d’iniziativa popolare: Veneti e Italia non l’hanno voluta. Intanto viene guerra governativa. E’ guerra per Venezia contro l’Austria, con un fine nazionale. E’ chiaro che dobbiamo prenderci parte. Il continuare a dire: Vogliamo guerra d’iniziativa popolare quando nessuno risponde, in verità tocca il ridicolo” (Jessie White Mario, Della vita di Giuseppe Mazzini).

 

Mazzini era un uomo pragmatico,  e, pur di addivenire al conseguimento dell’agognata unità,  era disposto a sacrificare  le sue idee repubblicane, almeno nell’immediato:

 

“Primo nostro intento, scriveva Mazzini, e sospiro antico dell’anima nostra era, ed è, l’indipendenza dallo straniero […] A chi dunque mi avesse assicurato l’indipendenza, e agevolato l’unità dell’Italia, io avrei dunque sacrificato, non la fede, c’era impossibile, ma il lavoro attivo […] Il voto supremo dei repubblicani era l’unità d’Italia […] Quello per cui paventavamo era la nazionalità, l’unità della patria, alla quale eravamo pronti a sacrificare, non già la fede, ma la sua immediata realizzazione” (F. Della Peruta, I Democratici e la rivoluzione italiana) . Mazzini si trascinò dietro anche Garibaldi in simile prospettiva unitaria; quel Garibaldi che,  oggi, è spesso lapidato da certa cultura storica  “fatta in casa”, che lo ha caricato di responsabilità risibili (ed evidentemente per sviare i colpi da altri e ben più importanti bersagli che lascio al lettore individuare), quasi fosse stato lui l’unico responsabile d’aver “fatto” l’indesiderata, per molti, unità d’Italia. Ma dai:  Garibaldi era un soldato, che agiva per amor patrio e  secondo convincimenti simili a quelli portati avanti dall’onda mazziniana volta all’Unità a tutti i costi.

 

Se la proposta sabaudo-mazziniana (e garibaldina) fu quella vincente fu anche perché, dall’altra parte, tra i democratico-liberal-federalisti alla Carlo Cattaneo, e  i socialisti alla Ferrari non c’era comunanza d’intenti; anzi, non c’era pressoché concordia in nulla,  anche se idee simili talvolta li accomunavano.

 

Cattaneo era fieramente avverso  all’Unità sotto l’egida dei Savoia,  corroborata da Mazzini e coadiuvata da Garibaldi. Per Carlo Cattaneo l’unità non era affatto una priorità:  anzi,  era l’ultimo dei suoi pensieri. Cattaneo era un intellettuale di multiforme ingegno, per il quale ciò che contava era la “libertà” dei singoli popoli degli Stati italiani. La stessa  Federazione di Stati, secondo Cattaneo, sarebbe venuta (forse) su tempi molto lunghi, e comunque dopo che si fosse riusciti a creare nei popoli dei vari stati italiani “l’opinione repubblicana e rivoluzionaria, destando nel popolo, con un lungo e tenace apostolato di idee, la coscienza dei suoi diritti il sentimento della padronanza” (F. Della Peruta, I Democratici e la rivoluzione italiana, p. 191). E soltanto dopo si sarebbe  potuta attivare una federazione, ma fatta “salva sempre la intera padronanza d’ogni popolo in casa sua” (F. Della Peruta, I Democratici e la rivoluzione italiana, p. 247).

 

Non si poteva, secondo Cattaneo, unire forzatamente i popoli e soffocarli “con vincoli innaturali”; per lui “Federazione” significava “Unione libera” (F. Della Peruta, I Democratici e la rivoluzione italiana, p. 247). Quando i popoli italiani si fossero sentiti pronti a tale “unione libera”, soltanto allora,  essi “tanto più fortemente avrebbero sentito la necessità di stringersi e abbracciarsi affine di proteggersi in terra e in mare contro le colossali potenze del secolo”.

 

Per tutte queste ragioni, Cattaneo non voleva proprio sentir parlare di alleanze con i Savoia, perché “l’unità egemonica sabauda […] si sarebbe attuata soltanto con pregiudizio grave della libertà, uniformando a forza quella varietà delle ‘patrie singolari’  radicata nella terra e negli uomini, opera del lavoro dei secoli” (F. Della Peruta, I Democratici e la rivoluzione italiana, pp. 244-245). Sulla stessa lunghezza d’onda erano poi i Montanelli e molti altri, per i quali l’unità non era assolutamente la priorità. Più o meno allo stesso modo la pensava anche il socialista Ferrari, per il quale

 

“oggi l’unità non è che una parola […] L’unità parte dall’alto, suppone capi, dittatori […] spegne la discussione sui diritti del popolo, sulla eguaglianza degli uomini […] L’unità è regia, nel fatto”. Secondo Ferrari, “all’unità si opponevano la mancanza di un centro preponderante e la presenza di otto capitali, nessuna delle quali poteva rivendicare per sé il titolo di metropoli esclusiva; tanto meno Roma, che per pretendere al ruolo di Parigi italiana avrebbe dovuto essere dieci volte più ricca, più popolosa, più accessibile” (F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, p. 154).

 

Vicini nell’avversione all’egemonia sabauda e all’Unità, Cattaneo e Ferrari erano comunque su sponde opposte circa le “tattiche politiche”  da adottarsi de facto; per cui, in buona sostanza, tra i liberal-democratico-federalisti alla Cattaneo e i socialisti alla Ferrari non c’era alcuna politica comune praticamente esperibile. Sta di fatto che , mentre essi facevano dell’accademia, discutevano, s’abbracciavano e poi si lasciavano ,  i Savoia e l’esercito regolare,  Mazzini e Garibaldi con i loro uomini “agivano”, arrivando infine al conseguimento dell’unità.

 

Anche  Alberto Mario, dal Veneto, ammiratore senza reticenze  di Carlo Cattaneo, si metteva di traverso contro l’idea di un’alleanza con i Savoia in nome dell’unità, sperando in cuor suo che il “guerriero” Garibaldi non si facesse affascinare troppo dall’altro “guerriero”, Vittorio Emanuele II:

 

“Riguardo alla tua proposta di essere collaboratore in un giornale col programma Il Re e Garibaldi ti dirò: accetto di portare in palma di mano Garibaldi, ma non il re. E non per testardaggine di partito. Tu sai che dopo la pace di Villafranca credetti che il re potesse farsi il salvatore d’Italia, e lo scrissi nel Pensiero ed Azione: ma i fatti mi smentirono. Non voglio due delusioni di questo genere. Voglio credere che il re, animato dalle migliori intenzioni, ma caduto nelle unghie di Buonaparte, non sa né può uscirne. Perciò egli non sarà mai né consigliere di audaci propositi né iniziatore. Il re sarà con l’Italia se l’Italia non aspetterà da lui la parola d’ordine; ma agirà solo interrogando il proprio diritto, il proprio interesse, il proprio dovere. Su questa base è già in corso un’ ampia associazione, di cui io scrissi il programma che ti acchiudo. Se riuscirà, chiamerà Garibaldi alla testa del moto; e spero che Garibaldi saprà emanciparsi dal fascino che il re guerriero esercita su lui guerriero. Fra poco verrà ripubblicato il Pensiero ed Azione; il quale correrà su questa rotaia.

Come vedi, meno il re, siamo d’accordo” (A. Mario, Scritti letterari e artistici).

 

Venendo poi all’annessione di Venezia, il venetissimo  Alberto Mario fu addirittura beffardo nel suo giudizio, vedendo il Veneto addirittura svenduto per un osso di cane:

 

“Venezia, unica città, dove la realtà corrisponde all’ideale, m’incantava: e per me fu contagioso il delirio dei Veneti, che, dopo diciotto anni  di incessante domanda: I va, I va? [Se ne stanno andando?], visto partire dalla laguna l’ultimo austriaco, esclamarono con una sola voce prorompente dal cuore di tutto un popolo: I xe andai [Sono andati via]. Ma amara cosa per Alberto veneto, che ricordava le migliaia di veneti morti per l’Italia, il vedere gettata come un osso di cane quella nobile provincia italiana dall’Austria a Napoleone III e da costui al re d’Italia” ( A. Mario, Scritti letterari e artistici).

 

E’ andata così. Si sono tuttavia sottolineati da varie parti (e la cosa è storicamente, ed a tutt’oggi  “empiricamente” esperibile in corpore vili) anche gli aspetti positivi dell’ accentramento, come l’ unità linguistica del paese, per esempio, che non è stata certamente un frutto trascurabile dell’Unificazione sia pur sabauda; o lo sviluppo delle “ infrastrutture che hanno avvicinato aree lontane della penisola (si pensi all’autostrada del sole, terminata in meno di dieci anni); e grazie all’industrializzazione e alla diffusione nel territorio della grande distribuzione commerciale” (R. Gualdo, La dialettica tra nazionale  e regionale nel recente linguaggio politico). Diciamocela tutta: la faccenda delle infrastrutture, stradali e ferroviarie, non è stata cosa di poco conto. Vogliamo fare una rapida panoramica sulla situazione della rete ferroviaria negli stati preunitari?

 

“Alla vigilia dell’Unificazione, scriveva C. Carozzi,  l’Italia settentrionale disponeva di una rete sufficientemente delineata e continua nella Valle Padana, dove erano di fatto percorribili le due grandi linee che toccavano le città poste ai piedi delle fasce alpine ed appenninica; si trovavano invece in una condizione di isolamento, per l’assenza di collegamenti trasversali e di un terzo asse longitudinale addossato al corso del Po, tutti i centri della parte centrale della pianura. Assai più grave era l’isolamento dell’Italia centrale, se si eccettua la Toscana, ed assoluto quello dei centri dell’Italia meridionale. Buona parte delle città siciliane, nessuna  delle quali era ancora servita dalla ferrovia, si trovava in una condizione di drammatica segregazione anche per lo scarsissimo sviluppo della viabilità ordinaria. La Sardegna dovrà attendere il 1861 prima che venga realizzato il moderno tratto da Cagliari a Villasor, di una cinquantina di chilometri, lungo la Sassari –Cagliari” ( C. Carozzi & A. Mioni, L’Italia in formazione).

 

Al Nord, e molto prima dell’Unità (1841), il  “prìncipe” dei federalisti lombardo-veneti, il “grande” Carlo Cattaneo, come soleva definirlo Carlo Dossi, si batteva, nei suoi “scritti” a favore della costruzione della “strada ferrata da Milano a Venezia”, tra mille ostacoli finanziari, perché nessuno, a quanto pare,  voleva cacciare una lira. Cosicché, Cattaneo terminava la sua relazione con queste parole:

 

“Fra poco sì adunerà nella nostra città il congresso degli azionisti , la più parte stranieri. Che volete che dicano di noi? che non ci curiamo dei nostri interessi? oppure che non siamo in grado d’intenderli? O che ci manca l’animo di prendere un impegno  di poche centinaja di lire, quando  tanti capitali si lasciano inoperosi? […] L’impresa, quando venga governata con ordine, con avvedimento, con sollecitudine, non può non sortire uno splendido ésito [con l’accento acuto, perché Cattaneo era un “purista”]; perché, bisogna ripeterlo ancora; o le strade ferrate non si devono fare in alcun paese del mondo […] [oppure] i Belgi, gli Inglesi, gli Americani, i Francesi, i Tedeschi, i Russi, sono tutti deliranti” (Carlo Cattaneo, Rivista di varj scritti intorno alla strada ferrata da Milano a Venezia). Si capisce l’amarezza di Cattaneo, anche se bisogna pur rimarcare il fatto che egli stava paragonando il minuscolo Lombardo-Veneto ad alcune tra le più possenti e secolari  organizzazioni statali dell’Ottocento.

 

Per ovviare alla pressoché totale “insussistenza” degli Stati preunitari in fatto di infrastrutture viarie, e ferroviarie, il Regno d’Italia dovette addossarsi un onere finanziario enorme, che nessuna società privata di nessuno stato preunitario sarebbe stata in grado né di sostenere né addirittura di “presupporre”;  perché, tra le altre cose, bisognava  pagare anche gli espropri. Cosicché C. Carozzi sottolineò che “quello delle ferrovie fu uno dei problemi più complessi che il nuovo Stato dovette affrontare”; tanto che, concludeva Carozzi, “la caduta della Destra e l’avvento della Sinistra, nel marzo del 1876, avvenne proprio per la presentazione di un progetto di legge che prevedeva il riscatto in proprietà e l’esercizio statale dell’intera rete” (C. Carozzi, L’Italia in formazione, p. 292).

 

Chi si dovesse ritenere comunque, e sempre, sostanzialmente insoddisfatto degli aspetti “positivi” brevemente sopra accennati,  si può consolare col fatto che la storia è sì costituita di eventi compiuti in sé immodificabili, ma anche di “discontinuità” rispetto ad essi, poiché, come si sa,  la politica è pur sempre il regno delle infinite possibilità.

 

Fonti:

 

“Ai poveri di Venezia il Cittadino Maniago”, in Raccolta di carte pubbliche, istruzioni, relazioni del Nuovo Veneto Governo Democratico, Venezia, Dalle Stampe del Cittadino Silvestro Gatti, L’Anno Primo della Veneta Libertà, MDCCXCVII [1797], p. 121: “Ma bisogna pur confessarlo, diceva il Cittadino Maniago dopo la conquista napoleonica del Veneto,  il popolo di Venezia è il più ignorante di tutti;  e fu per questo che operò dopo tutti la sua rigenerazione.  Il popolo di Venezia, ch’era il più colto di tutti quando l’Europa era rozza, è il più rozzo di tutti or che l’Europa è coltissima”.

 

G. Bollati, “L’Italiano”, in Storia d’Italia Einaudi. I Caratteri originali, Torino, Einaudi, 1989, Vol. II, p. 954 e 959.

A. C. De Meis, Lo Stato, Bologna, Tipi Fava e Garagnani, 1869, p. 17.

P. Colombo, Il re d’Italia: prerogative costituzionali e potere politico della Corona (1848-1922), Angeli, 1999, p. 264.

H. Rosenberg, “Sovrano, Signori della terra, alta burocrazia: la Prussia”, in La formazione dello Stato moderno, a cura di A. Caracciolo, Bologna, Zanichelli, 1973, p. 146.

E. Rota, Il problema italiano dal 1700 al 1815. (L’idea unitaria), Milano, I.S.P.I., 1938, in particolare le pp. 7-23.

A. De Tocqueville, Études économiques, politiques et littéraires, Paris, M. Levi Frères, Libraires Editeurs, 1866, p. 6 : « Tant qu’on ne considère d’une manière abstraite les choses humaines et qu’on ne s’occupe qu’à discuter en général les notions du bien e du mal, du vrai e du faux, du juste e de l’injuste, ils ne la que des amusements d’oisifs, des plaisirs de rêveurs ».

F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 166.

G. Fasoli, “Federico II e la seconda Lega lombarda. Linee di ricerca”, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, Bologna, il Mulino, 1976, II, p. 52.

Adam Wandruszka, “Il liberalismo austriaco”, in Il liberalismo in Italia e Germania dalla rivoluzione del ’48 alla prima guerra mondiale. Annali dell’Istituto storico italo-germanico. Quaderno 5, Bologna, Il Mulino, 1980,  p. 329.

A. De Tocqueville, Mélanges, fragments historiques et notes sur l’ancien régime, la révolution et l’empire, Paris, 1865, in Œuvres Complètes d’Alexis de Tocqueville, Vol. VIII, pp. 35-36, e p. 38 : « Les nations qui tournent à la démocratie commencent donc d’ordinaire par accroître les attributions du pouvoir royal. Le prince y inspire moins de jalousie et moins de crainte que les nobles, et d’ailleurs, en temps de révolution, c’est déjà beaucoup faire que de changer la puissance de main […] C’est ainsi que les peuples dont l’état social devient démocratique, commencent presque toujours par concentrer le pouvoir dans le prince ».

 

A. De Tocqueville, « De la démocratie en Amérique », in Œuvres Complètes d’Alexis de Tocqueville, Paris, 1868, Vol. III, p. 488: Nel caso « d’une révolution violente, les classes qui dirigeaient les affaires locales disparaissant tout à coup dans cette tempête, et la masse confuse qui reste n’ayant encore ni l’organisation ni les habitudes qui lui permettent de prendre en main l’administration de ces mêmes affaires, on n’aperçoit plus que l’Etat lui-même qui puisse se charger de tous les détails du gouvernement. La centralisation devient un fait en quelque sorte nécessaire. Il ne faut ni louer ni blâmer Napoléon d’avoir concentré dans ses seules mains presque tous les pouvoirs administratifs, car après la brusque disparition de la noblesse et de la haute bourgeoisie ces pouvoirs lui arrivaient d’eux-mêmes ».

F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi, 1967, in particolare le pp. 593-604.

C. Salvadori, Critica e filosofia, saggi e riviste, Venezia, Dal premiato Stabil. Tip. di Petro Naratovich, 1870, p. 215.

C. Pavone, “La scelta dello stato accentrato”, in Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 45.

L. Pianciani, Il disaccentramento e i bilanci per l’anno 1869. Studi, Firenze, Presso Eugenio & F. Cammelli Editori Librai, 1869, pp. 10-11.

R. Ruffilli, “Esigenze della borghesia e organizzazione della pubblica amministrazione”, in Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, p. 69.

 

Atti del Parlamento italiano, Sessione del 1860, Discussioni della Camera dei deputati,  Tornata del 28 giugno, Torino, 1860, Eredi Botta, 1860, p. 815. I lavori furono preceduti da questa introduzione: “Questa mattina S.M. il Re ha inaugurato la nuova Sessione legislativa. Se negli anni scorsi questa cerimonia fu sempre splendida solennità,  questa volta ha raggiunto proporzioni maggiori. È stata la prima volta in cui, accanto al rappresentanti delle antiche Provincie degli Stati sardi, sono venuti a sedersi quelli delle Provincie lombarde, toscane, modenesi, parmensi e romagnole”.

 

Svolgimento Camera dei Deputati. Sessione del 1866, in Rendiconti del Parlamento Italiano, Sessione del  1865-1866, Discussioni della Camera dei Deputati,  Firenze,  Tipografia Eredi Botta, 1866, Vol. II, p. 1422.

C. Morandi, La Sinistra al potere e altri saggi, Firenze, Barbèra, 1944, p. 116.

A. De Tocqueville, L’ancien régime et la révolution , Paris, 1860,  p. 111 : « Si l’on me demande comment cette portion de l’ancien régime a pu être ainsi transportée tout d’une pièce dans la société nouvelle et s’y incorporer,  je répondrai que si, la centralisation n’a point péri dans la Révolution, c’est qu’ elle était elle-même le commencement de cette révolution et son signe ; et j’ajouterai que quand un peuple a détruit dans son sein l’aristocratie, il court vers la centralisation comme de lui-même. Il faut bien moins d’efforts pour le précipiter sur cette pente que pour l’y retenir. Dans son sein tous les pouvoirs  tendent naturellement vers l’unité, et ce n’est qu’avec beaucoup d’art qu’on peut parvenir à les tenir divisés. La révolution démocratique qui a détruit tant d’institutions de l’ancien régime devait donc consolider celle-ci, et la centralisation trouvait si naturellement sa place dans la société que cette révolution avait formée, qu’on a pu aisément la prendre pour une de ses œuvres ».

Jessie White Mario, Della vita di Giuseppe Mazzini, Milano, Sonzogno, 1908, p. 432.

F. Della Peruta, I Democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Feltrinelli, 1974 (I Ediz. 1958), pp. 14-15.

F. Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 154.

A. Mario, Scritti letterari e artistici, a cura di G. Carducci, Bologna, Zanichelli, 1901, p. XCVII e p. CLX.

R. Gualdo, “La dialettica tra nazionale e regionale nel recente linguaggio politico”, in Regione e regionalismi nel secondo dopoguerra, a cura di M. Ridolfi & S. Cruciani, Centro stampa d’Ateneo, Viterbo, 2008, p. 152.

C. Carozzi & A. Mioni, L’Italia in formazione, Bari, De Donato, 1980, p. 284.

C. Cattaneo, Rivista di varj scritti intorno alla strada ferrata da Milano a Venezia, Milano, Coi Tipi di Luigi di Giacomo Pirola, 1841, p. 68.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.