Il lungo “cammino in penombra” di Camillo Sbarbaro

sbarbaro

 

Se c’è stato un poeta  studiato e valorizzato dalla critica fin dagli esordi della sua carriera di poeta, questi è stato Camillo Sbarbaro. Peccato che, a livello di grande pubblico, Sbarbaro sia ancora poco conosciuto, forse perché  gli  è mancato il filtro della scuola, che in genere si sofferma ampiamente (se non esclusivamente) sulla triade  Ungaretti,  Montale, Quasimodo.

 

Come dicevamo sopra,  tutti (e quando dico tutti, intendo proprio tutti, o quasi) i maggiori critici italiani , a partire dai primi del Novecento, si accorsero di Camillo Sbarbaro; quest’uomo solo, che ogni tanto si sedeva lungo la via a chiedersi cosa ci faceva al mondo, mentre la fantasia si sbrigliava, e  avrebbe voluto essere come una cosa, immobile, ad osservare gli eventi di un mondo che sarebbe esistito anche quando egli se ne fosse andato. Sbarbaro era tutto questo, un uomo che camminava in penombra lungo le vie del mondo, con addosso una struggente “noia esistenziale”, che lo faceva girovagare con i suoi pensieri, sempre, o quasi, assorto in se stesso:

 

Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo

come in sonno tra gli uomini mi muovo.

Di chi m’urta col braccio non m’accorgo,

e se ogni cosa guardo acutamente

quasi sempre non vedo ciò che guardo.

Stizza mi prende contro chi mi toglie

a me stesso. Ogni voce m’importuna.

Amo solo la voce delle cose.

M’irrita tutto ciò che è necessario

e consueto, tutto ciò che è vita,

com’irrita il fuscello la lumaca

e com’essa in me stesso mi ritiro. ( Da Pianissimo)

 

Sbarbaro non sembra un poeta difficile; in genere il suo periodare si snoda sulle vie del sentimento in modo piano e scorrevole. E non si può neppure dire che mancasse di rapporti e sentimenti di profonda “simpatia” verso gli altri, come nella poesia in cui dice d’essere disposto al sacrificio della vita piuttosto che veder  togliere la felicità a quella bambina “che canta sola/ e salta per la strada” ricolma di felicità.

 

La bambina che va sotto gli alberi

non ha che il peso della sua treccia,

un fil di canto in gola.

Canta sola

e salta per la strada; ché non sa

 

che mai bene più grande non avrà

di quel po’ d’oro vivo sulle spalle,

di quella gioia in gola

 

A noi che non abbiamo

altra felicità che di parole,

e non l’acceso fiocco e non la molta

speranza che fa grosso a quella il cuore,

se non è troppo chiedere, sia tolta

prima la vita che quel solo bene (da Pianissimo).

 

Nell’intervista a Camon egli disse:

 

“ Camon- A me pare […]  che la sua alienazione si configuri non come ‘sentire gli altri come nemici’ o come ‘incomunicabilità’, ma come indecisione e bisogno di solitudine, che può portare fino all’appartarsi e all’estraniarsi (al limite, alla totale rinuncia o pura passività).

 

Sbarbaro- Ignoro il significato preciso di ‘alienazione’. Certo non ‘sento gli altri come nemici’; e sono (eccetto nelle crisi depressive) sin troppo comunicativo. Se nei rapporti con la gente non vado molto oltre, è che  prevedo, temo la delusione. In questo borgo dove vivo dal ‘51, conosco  tutti, m’interesso ai casi di tutti, e tutti, pare, mi vogliono  bene; non approfondisco però, lascio che i rapporti rimangano superficiali, di convivenza, perché l’esperienza m’insegna che è saggio fermarsi all’apparenza, accontentarsene”.

 

Ma  è esistito uno Sbarbaro “prima maniera”, quello di Resine, un libro rifiutato dallo stesso poeta, e che Montale stroncò senza molti complimenti:

 

“Della prima plaquette, [cioè di Resine], non mette conto di occuparsi: sonetti e quartine e strofi varie, oneste tutte e decorose ma niente più. Lo Sbarbaro vero non è ancora nato” (Montale, 1920).

 

In effetti, Montale non aveva tutti i torti, perché Resine sembra una raccolta di “esercizi di stile”,  che ricordano talvolta da vicino non soltanto moduli dannunziani e pascoliani, ma anche  certa poesia barocca sugli “oggetti”, come quella dedicata al “calamajo”, che mi evoca nella memoria, specie nei primi versi, la poesia sull’ “orologio” del poeta friulano Ciro di Pers (Mobile ordigno di dentate rote/lacera il giorno e lo divide in ore …:

 

Apri la bocca circolare e dondoli

il ventre rotondetto, o calamajo,

come un borghese placido

che faccia il chilo ne la sedia a sdraio.

Io co ’l pennino

a frugarti le viscere m’ostino;

pesco a tentoni ne ’l tuo muco nero

il filo del pensiero.

E lì il pennin si tinge

come avvenga non so, di croco e d’ostro:

eppure ne ’l tuo stomaco,

ò bel guardarci, ma non c’è che inchiostro.

(Al calamajo, in Resine, vv. 1-12)

 

 

Però c’è anche qualcosa del “vero Sbarbaro” anche in Resine, specie  in quelle liriche dove il poeta prova “ripugnanza” nello  svegliarsi, perché si vede come sull’orlo di un burrone.

 

Svegliandomi il mattino, a volte io provo

sì acuta ripugnanza a ritornare

in vita, che di cuore farei patto

in quell’istante stesso di morire.

 

Io sono in quel momento proprio come

chi si desti sull’orlo d’un burrone,

e con le mani disperatamente

d’arretrare si sforzi ma non possa.

Come il burrone mi riempie di terrore

la disperata luce del mattino ( da Resine).

 

 

La natura tanto amata, in tutta la sua forza, si mostra “anche” in Resine:

 

Il vento

 

Sotto il tuo passo piegasi

la selva e si divincola,

tutta scrosciando; anche i graniti, immobili

ossa del mondo fremono.

Svetta il cipresso; fischiano

i salci e si dibattono;

ampia la quercia rumoreggia immobile;

gli ulivi trascolorano (da Resine)

 

Dobbiamo anche dire che, forse,  la “stroncatura” montaliana, che risale al 1920,  possa aver avuto una sua incidenza su Sbarbaro, perché poi, con Trucioli, del 1920, (pubblicati, guarda caso, proprio all’altezza della stroncatura di Montale), s’incomincia ad intravvedere un altro tipo di poeta, meno legato al lessico prezioso e al periodare classicheggiante di Resine. Con Trucioli siamo già verso una prosa poetica che testimonia la presenza dei temi prediletti di Sbarbaro, come quelli che ne mostrano l’affezione profonda verso la natura,

 

Spotorno, terra avara. Vi imbianca l’olivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri.

 

Ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro a un pallido mare.

 

Spotorno, paesaggio dell’anima; cielo che a guardarlo si beve. (da Trucioli)

 

Forse Montale esagera un po’ quando dice che con Resine “lo Sbarbaro vero non è ancora nato”. Era sì nato, ma ancora in fasce.

 

Comunque sia, resta pur sempre vero il fatto che, nonostante passino gli  anni, più di cento anni dalla prima apparizione di Resine (1911), Sbarbaro persiste ad essere un poeta sostanzialmente “sconosciuto” ai più, ed egli appare più che mai il  “maestro in ombra” della letteratura italiana del Novecento, e, a livello di grande pubblico, tuttora  in penombra anche agli inizi del nuovo millennio.

 

Fonti:

 

Camon a Camillo Sbarbaro, in F. Camon, Il Mestiere di poeta, Garzanti, 1982.

 

La “stroncatura” di Montale apparve in E. Montale, “Camillo Sbarbaro”, in  L’Azione, 10 novembre 1920, poi raccolta in E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 189.

 

Un’edizione moderna di Resine in C. Sbarbaro, Resine, edizione critica a cura di Giampiero Costa, Milano, Scheiwiller, 1988.

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.