Lungo la strada di Federigo Tozzi: da “Novale” alle Novelle Postume

 

Dopo la morte di Federigo Tozzi, la moglie Emma,  devota depositaria degli autografi del marito, ne raccolse gli spunti di diario, e molte lettere, componendo Novale, titolo che sembra esserle stato suggerito  da Luigi Pirandello, teste Glauco Tozzi: “Con la occasione, va detto che il titolo di Novale fu proposto ad Emma circa il 1924, alla presenza di chi scrive queste righe, da luigi Pirandello” (1).

 

Si tratterebbe allora di conoscere il motivo per il quale  Pirandello scelse questo titolo. Un’ipotesi suggestiva fu ventilata a suo tempo da Maryse Jeuland Meynaud, secondo  cui Pirandello, più che a un “novale” (terreno incolto poi dissodato) avrebbe pensato al poeta Novalis, dotato di uno spirito fortemente religioso assimilabile a quello, altrettanto forte, di Tozzi:

 

“Chi sa in effetti se Pirandello”, scrisse la Meynaud,  non avesse pensato proprio a Novalis quando suggerì  “ad Emma Tozzi il titolo di Novale per la raccolta  delle lettere a lei inviate dal defunto sposo” (2).

 

L’ipotesi, come dicevamo, è molto avvincente, ma forse quella “tradizionale” risulta alla fine più produttiva, anche se però va “integrata” da qualche altro spunto critico particolarmente interessante.  Novale est, quod alternis annis seritur  [“Si dice Novale il terreno seminato ad anni alterni”], scriveva coscienzioso Plinio il Vecchio. “Il riposo del terreno, detto anche maggese o novale, e jachére dai francesi, sottolineava a sua volta G. Cantoni,  consiste nel non coltivare e nell’abbandonare a se stesso per un anno il terreno, ogni nove, ogni sette,  cinque e persino ogni tre anni. Il riposo suppone mancanza di mezzi di lavorare e di concimare, mancanza d’una rotazione e l’abitudine od il bisogno di ripetere la medesima coltivazione nello stesso terreno” (3).

 

Infatti Novale, questa sorta di “diario intimo” ricavato da un terreno a lungo “lavorato”,  coltivato con alacrità, ma anche spesso “abbandonato”,  costituisce una fonte sicura per comprendere a fondo Tozzi uomo e scrittore. Come nelle fiabe, Federigo vide morire la madre, si trovò ad avere a che fare, in famiglia, con una matrigna che, se non lo maltrattava (a questo ci pensava il padre), lo lasciò comunque privo di affetti sinceri. Emma, la moglie, mentore Pirandello, attraverso la pubblicazione di Novale, volle per aenigmitate far comprendere come il  “podere” di Federigo,  da incolto che era, fu poi seminato con grano buono, e a prezzo di diuturne fatiche, lasciando una potente testimonianza dell’incoercibile voluntas dello scrittore al cambiamento radicale di se stesso e della propria difficile esistenza. A tutto questo provvidero, come sappiamo,  le letture sia pur disordinate e il molto studio.

 

Nel dialetto siciliano il termine “novale” ha lo stesso significato di quello  sopra menzionato. C’è però un’espressione siciliana, riportata dal Pasqualino, il quale sottolineò che in siciliano ricorre l’espressione “fari majisi”:

 

“Metaforicamente si dice di colui che per via d’artifizj s’insinua, e si apre la strada a’ suoi disegni, farsi la strada a checchessia [farsi la propria strada verso un qualsivoglia progetto], trovare la strada. Viam sibi ad aliquid facere [Aprirsi la strada verso un qualcosa], sternere [spianare, spianarsi,  sottinteso, “la strada]” [Aprirsi la strada verso qualcosa]”  (4).

Se Pirandello avesse guardato a Tozzi come ad un uomo che “s’era fatto la propria strada” tra mille difficoltà,  e perciò avesse pensato alla suddetta espressione siciliana per il titolo di Novale, bisognerebbe dargli atto di avere centrato un titolo che s’è dimostrato sia adeguato allo “stile dell’uomo”,  sia fortunato sotto il profilo strettamente editoriale.  E’ un dato di fatto che Tozzi cercò affannosamente di trovare la propria strada  con uno studio disperato,  che lo portò a letture “sterminate”. Poi, dopo tanto leggere e studiare, alla fine Tozzi s’interrogò:

 

“Ma che fa lo studiare, e la Biblioteca? Non devo studiar più, come studia — per esempio — un professore; cioè per sapere. Conviene che studi come prima, cioè torni a vedere ciò che mi è intorno. Questa sala non mi deve interessare se non come un oggetto della mia attenzione creatrice. Ma devo avere pazienza che si combinino insieme tutti i frammenti disparati che ho nella mente. Allora sorgeranno le idee” (5).

 

Ora, lungo la strada dissestata della sua ricerca,  la sua “attenzione creatrice”  fu gravemente colpita e ferita da un duro “frammento”, da una scheggia che diventò nella sua narrativa  un nodo tematico ineludibile: la profonda consapevolezza d’essere un uomo violento. Fisicamente, Federigo Tozzi era molto simile al padre: era alto, forte, e con un carattere ombroso. A. Borgese, che lo vide un giorno arrivare in bicicletta, in pieno agosto, con un cappellaccio in testa e una giubba pesantissima per la stagione, lo definì “un toro”:

 

“Aveva un collo di toro, una gran testa quadrata, con occhi chiarissimi che guardavano come fari, polsi di contadino, e il torace massiccio con polmoni che dovevano essere come mantici” (6).  Più o meno così lo descrisse anche lo scrittore danese Johannes Joergensen, amico di Tozzi,  in un  racconto dove lo scrittore senese assumeva il nome d’arte di Lombardi:

 

“Un attimo dopo mi trovo faccia a faccia col giovane scrittore, un tipo robusto e dalle spalle quadrate, dagli occhi azzurri […] e con un ciuffo di capelli tirato da dietro su di una fronte imponente” (7).

 

Il padre di Federigo, l’oste del “Pesce Azzurro”, lo aveva avvezzato sin da piccolo a far uso dei “pugni” per risolvere alla brava tutte  le questioni. La spia di questo tipo d’educazione emerge da un episodio narrato da Tozzi in Novale, quando il padre, irritato del fatto ch’egli era tornato a casa malaticcio e “magro” da Roma, un po’ troppo magro, secondo il  padre, e quindi “debole” ed incapace di difendersi, sbottò: “Guarda, ti posso prendere a pugni senza che tu riesca a reagire per nulla. Tu non sei mio figlio, sei un degenerato” (8):

 

“— Vigliacco, mascalzone, voglio sapere che facevi a Roma. Tu non mangiavi, perché sei magro.  Ed io : — Non mangiavo? Mangiavo meglio che in casa tua. — No, non mangiavi. Adesso con me non potresti fare ai pugni. Sei il più debole, ora. — Io non voglio fare ai pugni. Se dici che non mangiavo o stavo male, sei un imbecille. Perché ho mangiato e bevuto alle spalle tue. Allora egli mi prese e mi piegò in terra, facendomi un poco male a un fianco e pigiandomi uno zigomo. Poi mi tenne un ginocchio su lo stomaco, sempre ingiuriando e dicendo che mi voleva ammazzare. Io mi difesi solamente. Gridavo a tutta la gente ch’era intorno a noi che non mi facessero percuotere e che andassero a chiamare le guardie. Allora egli mi lasciò. Io mi feci rendere il cappello, ch’era caduto sopra una tavola ed uscii, dicendo : — Sei ammattito. In casa de’ matti non ci sto … Tra le altre ingiurie è questa: – Tu non sei il mio figliuolo. No, non sei. Tu sei un degenerato”.

 

Federigo, figlio “degenere”, in realtà aveva sicuramente “condiviso” quel tipo d’educazione non soltanto  nei verdi anni della sua infanzia e giovinezza, ma anche per parecchio tempo nella sua vita di uomo maturo. Tozzi ricordava, per esempio, d’aver preso a pugni un amico soltanto perché lo aveva “disturbato” mentre scriveva:

 

“Un mio amico m’interrompe per voler sapere quello che io scrivo, ma con un pugno lo ricaccio al suo posto e continuo a scrivere. Questo accenno rapidissimo le darà così un’idea del mio modo di fare facendole conoscere un lembo della mia vita e in qual ambiente si svolga. Ma non mi creda un triviale! Nella rozzezza degli atti esteriori, conservo intatta la purità della mia anima” (9).

 

In un altro episodio assistiamo ad un  ennesimo attacco del padre nei suoi confronti; ma si capisce che Federigo, col tempo, aveva via via maturato convinzioni molto diverse da quelle coltivate  per lunghi anni, meditando purtuttavia sul fatto che  l’educazione al “pugno” e alla violenza fisica era un  tratto diffuso nel suo ambiente, dove, chi possedeva “muscoli”, doveva sapersene valere a tempo opportuno:

 

“Io andai a piedi al podere dove era andato egli con la moglie. Al podere mi disse : — Che cerchi qui ? — Niente. Sono venuto a sentire se me ne devo andare anche di qui ; dato che tu l’avessi regalato. — Sì : anche questo. — Non stento a crederlo. A quella… ragazza che hai in casa. Allora m’assalì e mi picchiò molti pugni, senza che io mai reagissi. Tre o cinque dei contadini, che erano sotto un arco a mangiare, si alzarono e lo tennero a stento. Mentre che m’allontanavo, prese un palo. Fu tenuto, ed egli me l’attraversò senza colpirmi. Quel signore, che è similissimo al padre mio, gli ha dato ragione, perché lo volevo forzare a questa cosa. Capirai che mio padre è irriducibile. Io non ho nessun rimorso, ed anche una minuzia me lo farebbe avere. Mio padre s’è voluto imporre con i pugni, e quel signore stamani ha approvato, e molto, tale sistema. Noi, dicono, abbiamo i muscoli buoni e  combattiamo così” (10).

 

Nell’episodio testé citato, Tozzi osserva: “Allora m’assalì e mi picchiò di molti pugni, senza che io mai reagissi”. La non-reazione di Federigo all’attacco inusitato e violentissimo del padre adombra ciò che sembra essere più di una possibilità, ossia  il fatto che egli desiderasse essere profondamente diverso da lui. La meditazione e contrario di Tozzi era probabilmente maturata su quelle letture un po’ disordinate ch’egli aveva negli anni condotto alla Biblioteca pubblica di Siena. Tra queste, lo stesso Tozzi ne  citò una molto interessante, che s’insinua nel contesto di un discorso dove egli stesso “sentiva” nel profondo d’essere “naturalmente” un uomo violento: il Socialismo e scienza positiva del Ferri:

 

“Il mio socialismo? Io seguo la teoria rivoluzionaria del Ferri ; ma vi sono giunto non per via scientifica (come sarebbe meglio) ma per via sentimentale : ossia naturalmente mi sento portato alla ribellione aperta, magari violenta. Nei momenti di eccitazione mi balenano imagini criminose d’anarchico. Odio i potenti, i preti e i soldati. È un odio implacabile che morirà con me. Dopo che ho letti i suoi libri ho sempre amato idealmente il Ferri, e quando vi potetti conversare mi parve un sogno nella realtà. Del resto per farsi un’idea chiara di quello che è il socialismo non basta dirlo così in una lettera. Bisogna leggere molti libri e molto… indigesti. Leggerebbe Ella La teoria materialistica del Marx, L’origine della famiglia dell’ Engels, Socialismo e scienza positiva del Ferri, ecc. ecc.?. Se vuole gliene posso fare dei riassunti” (11).

 

In quel libro Enrico Ferri s’era in effetti soffermato a lungo sulla “violenza individuale”, distinguendola in tre categorie: la violenza del criminale nato, violento per “tendenza congenita”; quella del criminale “pazzo”, e infine la violenza del “criminale per passione politica”  (12). Poiché Enrico Ferri era considerato da Tozzi un vero nume ispiratore (“Ho letti i suoi libri”), è certo che lo scrittore senese cominciò a meditare a lungo sul proprio carattere violento.

 

E’ difficile dire in quale delle tre categorie del Ferri egli si situasse: se tra i violenti “congeniti”, i “pazzi”  o tra i violenti  per eccessiva passione politica. Pensando al padre, sempre violentissimo nei suoi riguardi, egli probabilmente si vedeva pressoché costretto a  porsi tra i violenti per “tendenza congenita”. L’impressione che si ricava è che Federigo coltivasse  nel profondo l’idea d’essere un violento per “ereditarietà” (quindi, senza scampo). Pertanto lo  “studiare” e la “Biblioteca” gli servivano non per un “sapere” fine a se stesso, ma  per cercare e, infine,   “trovare” le idee, e  “la propria strada” nella vita, e nell’arte:

 

“Oltre” Novale,  rimandi alla propria “violenza”,  ci giungono da altre lettere meno note di Federigo Tozzi, inviate  allo scrittore danese  Johannes Joergensen, un amico che egli aveva conosciuto ai tempi della sua frequentazione con Giuliotti: due “antichi compagni di avventura della rivista La Torre, pubblicata nel 1913-1914” (13). In una lettera a Johannes Joergensen, Tozzi menzionava espressamente la sua “violenta volontà”:

 

“ Assicuratevi che vi sono amico, nel senso più speciale, al di sopra di tutto ciò che appartiene e si riferisce alla vita, della quale sono tediato assai: tanto più che ogni giorno mi cambia completamente ciò che il giorno innanzi mi aveva portato. E’ così.  A questa luce elettrica, s’imparano molte cose; e al di fuori dell’intelligenza, non c’è niente, nella vita. Con Dio mi trovo bene; e la mia stessa violenta volontà è quella che più mi avvicina a lui” (14).

 

Sia pure in tono amichevole, il temperamento focoso, irruento e violento di Tozzi emerge in una lettera di risposta (di stile un po’ “futurista” in certi passi che ricordano l’altrettanto focoso Marinetti) a Giuliotti, il quale, essendosi inopinatamente trovato  per le mani 400 lire, invitava l’amico a fondare insieme un “giornale”. Infine, dandogli amichevolmente del “sozzone”, lo invitava perentorio a rispondergli al più presto. La risposta di Tozzi non si fece attendere molto, e dal tono della lettera, si avverte che lo scrittore era elettrizzato e al tempo stesso “nervoso” per la prospettiva:

 

“Caro Domenico, sdirocciati il grifo, pulisciti l’unghie, mettiti il vestito delle feste  e monta sull’automobile-cassone. Io sarò ad aspettarti doman l’altro mattina al Palazzo dei Diavoli. Ma non venire, al solito, per ripartire la sera. Schifo! Anche se ti trattieni una settimana, con venti lire te la cavi, perché io ti dò il becchime e da dormire. Il giornale si farà; il tuo programma è il mio. Ma bisogna parlarne seriamente.

Dunque intesi. E bada  che se non ti vedo, salto in bicicletta e vengo a romperti le costole nel tuo sporchissimo trogolo” (15).

 

Il “giornale” infatti si fece (si vede che le minacce di Tozzi avevano fatto effetto): nacque così La Torre, che ripeteva nel nome l’omonima rivista fondata verso la metà degli anni ’90 dallo stesso Johannes Joergensen:  TaarnetLa Torre (16).

 

“Oltre” Novale ci danno testimonianza della “volontà violenta” di Tozzi anche alcune novelle postume, curate in edizione critica da M. Tortora,  come questa, per esempio, dal titolo La madre:

 

“Una mattina  affacciandosi  alla  camera  dov’era  stato  malato,  però  che  aveva fiutato l’odore ributtante del l’acido fenico. E in tale istante avrebbe rotte con un pugno tutte le boccette che ancora contenevano le medicine liquide. Un fiasco svestito, che era pieno di sublimato, suscitò la sua maggiore violenza. E, quasi impaurito aveva chiesto alla mamma, che spazzava:

– Quando butti via quella roba?” (17).

 

“Una volta sola vide il padre che voleva battere una spazzola sul volto della mamma. La quale se ne stava a sedere, e ratteneva le lacrime. Ed ora avrebbe voluto che tutte queste cose non gli fossero avvenute” (18).

 

Invece,  “tutte queste cose avvennero”: di qui, dunque, una  narrativa imperniata  su quell’istinto “individuale” alla violenza che Federigo si sforzò di superare, ma  che tormentò per tutta la vita lo scrittore senese, e sul quale egli si soffermò, fatidicamente, per molta parte la sua attività letteraria.

 

Note

 

1)      “Novale”, Opere di Federigo Tozzi, a cura di G. Tozzi, Firenze, Vallecchi, 1984, VI, p. 8.

2)      Maryse Jeuland Meynaud, Lettura antropologica della narrativa di Federigo Tozzi, Roma, Bulzoni, 1991,  p. 71.

3)      Trattato completo teorico-pratico di agricoltura del dott. Gaetano Cantoni, Milano, Dottor Francesco Vallardi, 1866, Vol. I, p. 777.

4)      Voce Majisi [maggese] in Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, dell’Abate M. Pasqualino, Palermo, Dalla Reale Stamperia, 1789, p. 76.

5)      F. Tozzi, Novale, con una Premessa di Emma Tozzi, Milano,  Edizioni Mondadori, 1925, p. 101.

6)      Il passo in C. Carabba, Federigo Tozzi, Firenze, La Nuova Italia, “Il Castoro”, 1972, p. 19.

7)      J. Joergensen, Italiensk. Il passo in  “Un tempo così lontano di candide amicizie tra poeti. Dal carteggio inedito di Federigo Tozzi e Domenico Giuliotti con Johannes Joergensen”, in  La civiltà cattolica, Rassegna,  1980, Vol. III,  p. 141.

8)      F. Tozzi, Novale, cit.,   p. 124.

9)      F. Tozzi, Novale, cit.,   p. 20.

10)    F. Tozzi, Novale, cit.,   p. 146.

11)    F. Tozzi, Novale, cit.,   p. 51.

12)    E. Ferri, Socialisme et science positive, Paris, V. Giarde & E. Brière, 1896, p. 135.

13)    A. Ciampani, “La presenza culturale dei cattolici: attorno a Giuliotti e Papini”, in Studium, settembre-ottobre 1990, n. 5, p. 708.

14)    Lettera non datata, ma probabilmente del giugno 1914, in Il carteggio di Tozzi, Giuliotti e Joergensen, cit.,   p. 136.

15)    Il carteggio di Tozzi, Giuliotti e Joergensen, cit., pp. 130-131.

16)    Il carteggio di Tozzi, Giuliotti e Joergensen, cit., p. 130.

17)    “La Madre” in M. Tortora, Federigo Tozzi, Novelle Postume, Pisa, Pacini, 2009,  Vol. I, p. 8.

18)    La madre, p. 14.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.