Mario Luzi. “Di là della frontiera dell’Ermetismo”

 

La seconda guerra mondiale fu per Mario Luzi  l’esperienza fondante del suo modo di fare poesia. Da quegli anni cruciali,  e dopo l’esperienza ermetica,  egli andava letteralmente brancolando un po’ alla cieca,  alla ricerca del “suo” modo di essere poeta. Anche se l’Ermetismo era sempre in agguato dietro l’angolo, la guerra si era portata via ogni titubanza: Luzi sentì la necessità profonda d’“essere elementare”:

 

“Sentii il bisogno di dare al mio lavoro una sostanza e un aspetto più elementari”.

 

Di qui, dice Luzi, intorno agli anni Cinquanta un’aspra battaglia con chi invece voleva rimaner ben fermo nel solco della tradizione letteraria italiana ed ermetica, che faceva della lingua alta l’assoluto in poesia. Al contrario, Luzi  voleva essere in sintonia con “i modi del naturale sentire e metaforizzare della gente”: il che implicava altresì anche una fuoriuscita programmatica dalla lingua toscana. Ma la soluzione non stava, a parere di Luzi, nel ritorno ai dialetti e alla loro presunta “spontaneità” (Pasolini), perché ciò significava, a suo avviso, percorrere un sentiero antistorico, che “non corrisponde allo stato dei fatti”.

 

Il problema è l’interpretazione del mondo, dice Luzi; ma è difficile pensare che il raccattare, attraverso i dialetti, qualche barlume di realtà, possa essere sufficiente per la comprensione di un mondo sempre più dominato dalla scienza e dalla tecnologia. Il rischio è quello di dar vita non a una  cultura e a una nuova e moderna lingua poetica, ma a una “sub-poesia” e a una “sub-lingua”, di fatto “disancorate” dalla complessità del reale. Occorrerebbe pertanto una lingua poetica che tenesse conto del pensiero scientifico in evoluzione, e, soprattutto, che fosse in grado di impadronirsi dei suoi “principi”: soltanto allora, per Luzi, si sarebbe potuta avere la “sintesi” tra lingua poetica e mondo contemporaneo:

 

“Ma è certo che quando l’attività artistica moderna si fosse realmente impadronita dei principii e della sostanza del pensiero scientifico, ciò si farebbe sentire, come è sempre accaduto, nella concezione e nella tecnica espressiva” (M. Luzi, Dove va la poesia?) .

 

Oltre l’Ermetismo ci sarebbe  dunque una frontiera difficile da valicare: una frontiera oltre la quale il poeta, se avesse voluto esprimere i tempi moderni, doveva, giocoforza,  “impadronirsi” dei principii che muovono il pensiero scientifico, perché, fino a quel momento, “gli artisti non sanno in realtà nulla di esso”; così come non ne sa nulla

 

“l’uomo che non sia della partita”.

 

Premetto che questo discorso di Luzi ci riporta agli anni del Neorealismo e alle aspre diatribe rivolte alle tecniche letterarie da attivare per la ricerca del vero. Non vedo nella sua poesia, al di là dei propositi programmatici,  una “ricerca affannosa” di una lingua che s’attagliasse a quei “principii scientifici” cui egli si riferiva nella seconda metà degli anni ’ 50. Riscontro tuttavia in Luzi  un poeta emotivamente coinvolto  nella costante indagine circa  la parola  più “opportuna”, la “parola scavata” di ungarettiana memoria:

 

“Vola alta parola, cresci in profondità,

tocca nadir e zenith della tua significazione,

giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami

nel buio della mente”.

 

Al di là di questo,  altro non aggiungerei; se non che Luzi, più che alla scienza, sembra votato alla mistica, e alla ricerca  della “sua” parola: quella della mistica, intendo.

 

Fonti

 

Mario Luzi, “Dove va la poesia? Due domande a Mario Luzi”, in L’approdo letterario, 1958, n. 1,  pp. 88-91.

 

Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano, Garzanti, 1984.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.