Montale legge Quasimodo, poeta “difficile”

Quasimodo

All’inizio degli anni ’30 Montale era già situato nell’Olimpo della lirica italiana. L’uomo-poeta Montale era personaggio schivo, ma  la sua attività di poeta fu spesso accompagnata da quella di critico. Già dalla fine degli anni ’20 era direttore del Gabinetto Viesseux, e negli anni successivi collaborò a diverse riviste, tra cui  La Fiera letteraria e Pegaso, la rivista diretta da Ugo Ojetti. Su Pegaso, nel ’31, apparve un saggio di Montale su Quasimodo, più giovane di lui si qualche anno  (Montale era del 1896, mentre Quasimodo del 1901).

 

Montale, recensendo da par suo Acque e Terre di Quasimodo, attraverso una prosa allusiva ma tagliente, si sbilanciò parecchio sul “giovane poeta”. Se c’è una parola spesso ricorrente nel saggio è difficile.

 

Sin dalla prima battuta Montale sottolinea che “il libro di Quasimodo non è di quelli che si rivelano senza difficoltà”. Essendo poi le poesie di Acque e terre scritte in diverse stagioni, gli riusciva un po’ ostico “ritrovare quel filo di un progresso stilistico […] che pure esiste”. Però, siccome anche Montale ritiene se stesso un poeta non facile, si proverà a “fornire il bandolo della matassa”. Comunque sia, “l’evoluzione evidente del Quasimodo è quella che porta dall’abilità alla poesia, dall’artificio che pesa alla espressione che fa dimenticare la propria origine difficile e avventurosa”. Insomma, ci sarebbe un’evoluzione nel fare poetico di Quasimodo, e un qualche barbaglio di poesia vera pure si trova, facendo “dimenticare” le sue origini difficili nonché “avventurose”.

 

Montale è elegante e allusivo nelle sue espressioni. Ma l’ipotesi di un’origine “avventurosa” della lirica di Quasimodo suggerisce al lettore che egli abbia “pescato” i suoi modelli un po’ qua e là. E infatti, un po’ più sotto, Montale afferma che non si può negare  a Quasimodo “dignità di ricerca”:

 

“Ma l’aspetto, naturalmente generico, di tale esperienze non è mai volgare, e non fa mai pensare a dipendenza di scuola o a insincerità; nel Quasimodo è sempre chiara un’iniziativa, una dignità di ricerca”. Bene, sembra dire Montale, i modelli di riferimento di Quasimodo sono in ogni caso degni di rispetto, anche se le “esperienze” (poetiche) di riferimento sembrano “naturalmente generiche”; pertanto, esse non sembrano “mirate” verso “modelli certi di riferimento”, ma il frutto di una ricerca “naturalmente” piuttosto “larga”, ossia tipica di “un giovane” che “naturalmente” non ha ancora trovato la sua strada.

 

A questo punto, il tutto “dovrebbe” filare via abbastanza  liscio per Quasimodo, che sembra già sufficientemente “redarguito” dal “maestro”.   Montale invece continua dicendo  che, tuttavia,  tale “dignità di ricerca”, “si è risolta dapprima in difetto di poesia originale, in notevoli e sempre aristocratici accorgimenti di stile”. Fuori di metafora: Quasimodo s’è dato molto da fare con la lingua e lo stile, ma di risultati “realmente” poetici se ne vedono pochini. E non poteva essere che così  in una poesia che “preferisce l’audacia delle analogie, il giuoco dei ponti gettati fra significati lontani”. Il “giuoco” dello stile pertanto “prevarrebbe” sul sentimento poetico vero e proprio.

 

Ma c’è qualcosa che si salva in Acque e Terre? Parrebbe di sì.  Per esempio, Vento a Tindari, sembra a Montale una “trepida lirica”, dall’ “andatura alata di un inno”. Vento a Tindari è però una goccia nel mare; mentre tutto il resto (o quasi), “conferma il carattere decisamente difficile della lirica del Quasimodo”. A questo punto, credo fosse chiaro al povero Quasimodo che il suo “ermetismo” aveva  trovato scarsa eco nell’animo del “maestro”, il quale, si dice “pudicamente” ben lungi dall’idea di poter dare “consigli” al “giovane poeta”; ma poi, sotto sotto, gli pone alcuni “quesiti” ai quali Quasimodo dovrà irrevocabilmente rispondere positivamente, perché “la posta” in “giuoco” è alta. Fuori di metafora: o Quasimodo cambia rotta, o è “fuori” del “giuoco” (della poesia).

 

Montale, al solito, dice cose “pesanti”, usando parole apparentemente “leggere”:

 

“E al poeta, che pare mettersi coscientemente per la strada di un’arte chiusa all’intelligenza e all’amore dei più, a nessun patto vorremmo dare dei consigli”.

Dei “consigli”, no; ma dei “quesiti”, sì, e parecchi:

“ Saprà egli nutrire una poesia di questa natura di tutta la rinunzia, e del chiuso ardore e del sacrifizio ch’essa richiede?

Saprà egli più e più legittimarla pagandone il prezzo di persona?

E’ quello che ci dirà il tempo […] tanto è grave la posta”.

 

La “posta” in “giuoco” è infatti parecchio “grave”, perché Quasimodo, per essere considerato un “vero” poeta (almeno da Montale) dovrà dar vita ad una poesia assolutamente diversa, che implichi la “rinunzia” a tutto l’armamentario ermetico; cosa che gli costerà sicuramente un grande “sacrifizio”. Quasimodo dovrà mettersi in discussione su tutto, “tanto grave è la posta” (in “giuoco”).

 

Questa soffice (ma non tanto) “stroncatura” di Montale deve aver fatto riflettere parecchio Quasimodo, che tra l’altro aveva conosciuto Montale a Firenze nel ’29. E, in effetti, le cose cambiarono di molto dopo Acque e terre: si vede che Quasimodo aveva capito perfettamente l’antifona.

 

 

 

Fonte:

 

E. Montale, “Acque e terre”, in Pegaso, Anno III, n. 3, marzo 1931.

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.