Musil o dell’incompletezza

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Chi parla ne L’uomo senza qualità di Musil è Ulrich. Chi è Ulrich? È , avrebbe detto Debenedetti, uno dei tanti personaggi-uomo che popolano la grande letteratura novecentesca, della stirpe dei Kafka e degli Svevo. Ulrich è un pensatore, un aristocratico, un intellettuale, un ingegnere, un matematico di belle speranze che non ha ancora raggiunto il vero  successo. Ulrich è un personaggio-uomo sempre in divenire, un qualcosa di incompleto, e che si sente incompleto. Eppure questo personaggio-uomo senza qualità era capace di pensieri profondi, tanto profondi che ancora oggi si resta in un qualche modo abbacinati dalle sue qualità intellettuali, grandi qualità in un uomo senza qualità, che faceva disperare il padre perché non aveva ancora trovato la sua strada:

 

“L’uomo senza qualità di cui stiamo narrando la storia si chiamava Ulrich; e Ulrich – non è piacevole chiamare col nome di battesimo una persona che si conosce appena, ma dobbiamo tacere il casato per riguardo al padre – al limite fra infanzia e adolescenza aveva già dato un primo saggio della sua mentalità in un componimento che aveva per tema una frase patriottica. In Austria il patriottismo era una materia”.

 

E ancora:

 

“Sa Iddio quale sarà veramente il futuro. Si direbbe che ad ogni istante noi abbiamo in mano gli elementi, e la possibilità di fare un progetto per tutti. Se non ci piace la faccenda delle velocità, inventiamo qualche altra cosa! Per esempio una cosa molto lenta, con una felicità fluttuante come un velo, misteriosa come una chiocciola marina, e con quel profondo occhio bovino di cui già s’estasiavano i greci.

 

Ma purtroppo non è affatto così. Siamo noi, invece, in balia della cosa. Giorno e notte viaggiamo dentro ad essa e vi svolgiamo ogni nostra attività; ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria professione, come se le quattro pareti stessero ferme, e l’inquietante è che le quattro pareti viaggiano, senza che ce ne accorgiamo, e proiettano innanzi le loro rotaie come lunghi fili adunchi e brancolanti, senza che noi sappiamo verso qual meta. E per di più si vorrebbe possibilmente far parte delle forze che menano il treno del tempo.

 

È un compito assai indefinito, e quando si guarda fuori dopo un lungo intervallo si ha l’impressione che il paesaggio sia mutato; ciò che fugge davanti ai finestrini, fugge perché non può essere altrimenti, ma sebbene noi siamo sottomessi e rassegnati ci domina sempre più l’impressione sgradevole di aver già oltrepassato la meta o di aver imboccato la linea sbagliata. E un bel giorno ecco il bisogno frenetico: scendere! Saltar giù! Un desiderio di esser ostacolati, di non più evolversi, di restar fermi, di tornare indietro al punto che precede la diramazione sbagliata. E nel buon tempo antico, quando c’era ancora l’impero austriaco, si poteva in quel caso scendere dal treno del tempo, salire su un treno comune d’una ferrovia comune e ritornare in patria”.

 

Ulrich torna dunque in patria, sentendo in sé urgere il desiderio irrefrenabile di “diventare un uomo importante”:

 

“Quest’uomo ritornato in patria non poteva ricordare un periodo della sua vita che non fosse stato animato dalla volontà di diventare qualcuno […] La conseguenza fu che Ulrich, appena liberato dalla scuola, divenne alfiere in un reggimento di cavalleria […] Per sua fortuna non gli capitarono guai, ma un giorno fece un’esperienza. Durante un ricevimento ebbe con un noto finanziere un piccolo scontro che egli voleva risolvere nel solito modo grandioso; ma dovette constatare che anche fra i borghesi vi sono uomini che sanno difendere le loro donne. Il finanziere ricorse al ministro della Guerra, che conosceva personalmente, e la conseguenza fu che Ulrich venne chiamato a rapporto dal colonnello, il quale gli fece capire la differenza fra un arciduca e un semplice ufficiale”.

 

Ulrich ha dunque imparato l’importanza di essere un nobile o un alto-borghese. Egli però vede intorno a sé il mondo evolversi verso la scienza applicata, la “meccanica”, il futuro dell’umanità:

 

“Ulrich cambiò solamente cavalcatura passando dalla cavalleria alla tecnica; il nuovo cavallo era d’acciaio e aveva una velocità dieci volte maggiore. Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l’Apollo del Belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s’è trovato che non si tratta di ‘valori costanti’ ma di ‘valori funzionali’, così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall’abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei metodi; e chi è abituato a sbrigare le proprie faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane. Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di lineette combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante le quali si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: ‘un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d’errore e il valore probabile di tutto ciò!’ ”.

 

Quest’era senza dubbio una raffigurazione efficace dell’ingegneria”.

 

Poi si accorge che i vertici del successo possono venirgli dalla ricerca pura, e Ulrich si dedica allora alla matematica, con discreti successo, ma un successo che non è mai un vero successo, e che lo lascia sempre in un limbo, nell’attesa di una grandezza che non sembra però mai arrivare:

 

“Di Ulrich invece una cosa si poteva dire con sicurezza, e cioè che egli amava la matematica per via di quelli che non la potevano soffrire. Era innamorato della scienza in un modo più umano che scientifico. Vedeva che essa, in tutte le questioni che crede di sua competenza, ragiona altrimenti che l’uomo comune. Se si dicesse, invece di opinione scientifica, concetto della vita; invece di ipotesi, tentativo, e invece di verità, azione, l’opera di ogni buon fisico o matematico sopravvanzerebbe di molto, per coraggio e forza rivoluzionaria, i più grandi fatti della storia”.

 

Ulrich ci parla  dalle profondità dei primi anni del secolo, dicendoci cose sempre molto interessanti. Dentro questo mondo caleidoscopico  Ulrich vive la sua vita, tra amici e amanti, tra incontri e riunioni, sempre chiuso nei suoi pensieri di uomo senza qualità, sempre proteso verso un qualcosa di indefinibile e di indefinito, un personaggio-uomo in continuo divenire:

 

“Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno, si diceva Ulrich. E infatti era sempre pronto ad amare quelle figurazioni della vita. Quel che però non gli riusciva mai era di amarle senza riserve, come esige il senso di soddisfazione sociale; da molto tempo un’ombra di disgusto si posava su tutto ciò che egli faceva o subiva, un soffio di impotenza e di solitudine, un’antipatia universale alla quale non sapeva trovare la complementare simpatia. Talvolta gli sembrava addirittura di esser nato con una vocazione per cui al giorno d’oggi non v’era meta”.

 

Musil ci ha lasciato un romanzo incompleto. Così non sapremo mai se Ulrich alla fine avesse mai potuto raggiungere quella completezza a cui aveva sempre anelato, e ci lascia, tutti,  a metà strada:

 

“Allora credi che non giungerà mai a concludere qualcosa?”.

 

Questo è il mistero di Ulrich, e forse di noi tutti.

 

Per quanto riguarda Musil, mi pare di poter dire che è un “russo”, nel senso che il suo modo di narrare ricorda molto da vicino i Cechov e i Dostoevskij. Il che non è poco.

 

Fonte:

R. Musil, L’uomo senza qualità, Traduz. di A. Rho, Introduzione di C. Cases, Torino, Einaudi, 1957, p. 136, pp. 182-184, p. 194, 195, p. 199, p. 212, pp. 277-278, p. 245.

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.