Nel Chaos di Merlin Cocai. E un “forse” di troppo

Ancora nel 1996 su Lingua Nostra si leggeva, per la penna di Rossana Melis, come Gianfranco Folena definisse il Chaos del Triperuno  “uno dei più imbrogliati guazzabugli della nostra letteratura”; anche se, precisava poi il critico,  opera interessante dal punto di vista linguistico (1).

Nel “guazzabuglio” del Chaos del Triperuno ciascuno v’ha affondato i piedi ben oltre le ginocchia; e, a quanto è dato sentire da più parti, vi sarebbe  ancora del “misterioso” e dell’irrisolto in questo libretto del Folengo.

Concordo, nel senso che la ricerca è sempre aperta: ma molto è stato fatto nel caso specifico del Chaos del Triperuno.

E’ la stessa Livia, nel Dialogo iniziale “de le tre etadi”  ad avvertirci non soltanto che Teophilo ne è l’autore, ma che ci si deve attendere, nel Chaos del Triperuno, anche  il “segno” d’una “allegoria bellissima” (2).

Quindi, il  poema non è privo  di un qualche significato allegorico. Prendendo per buono quanto ci attesta il Gran Macaronico, il problema è quello di vedere (senza pretendere di spiegare tutto) se pur esiste un filo rosso che faccia da trait d’union fra le selve selvagge attraversate da Triperuno, Limerno detto Pitocco, e Merlino.  Si dice anche, con buon fondamento, che il Chaos è  autobiografico: se ciò è vero (e lo è), è molto probabile che il Merlino abbia affidato alle sottigliezze allegoriche durevoli proprie convinzioni;  ma un qualcosa, cioè, che poteva dare fastidio a molti, e, di conseguenza, procurare ulteriori fastidi all’autore, che di fastidi ne aveva avuti e subiti fin troppi. Che il Chaos ripercorra la biografia di Theophilo è testimoniato dalla stessa Livia giovene, la quale sottolinea che

“Questo Chaos in selve tripartito, la vita del authore … contiene”.

Stando fermi alla biografia, Folengo attesta una sua dimora a Ferrara negli anni della giovinezza, allorché egli intraprese lo studio delle Lettere. Nel Chaos v’è reminiscenza dell’evento, quando Merlino si sovviene d’un prete “pedagogo”, il quale, dice Lui,  aveva cari gli studenti più belli, anziché quelli brutti, i quali primi (quelli belli), suggeriva per aenigmitate (ma trattasi di sottigliezza allusiva non proprio criptica) il Gran Macaronico,  il prete “teneva soggetti” a sé:

“Non mi ritraggo a dirti alquanti versi da me anchor  fanciullino composti, trovandomi su quello di Ferrara in certa villa, mandatovi da mio padre per imparare lettere appresso d’un prete lo quale molti scolari teneva soggetti, e più li belli che li brutti” (3).

L’ottimo Giuseppe Billanovich tese a limare con forza muscolare la cruda testimonianza che si legge nel  Chaos,  asserendo:

Forse (il corsivo è mio, e su ciò torneremo) Girolamo fu mandato veramente nel Ferrarese a studiare grammatica presso un prete: della cui lussuria possiamo d’altronde essere un po’ incerti, perché il ricordo di lui e dei suoi peccati rivelò il Folengo  nel biennio in cui la sua anima era più violenta e più irritata” [Corsivi miei] (4).

O gran bontà dei cavalieri antiqui: noi,  certamente, “possiamo d’altronde essere un po’ incerti”; ma  purtuttavia abbiamo contezza “certa”, poiché vergata manu propria dal Gran Macaronico,  che le cose andarono in “quel certo modo”, foss’egli anche stato più o meno irritato. Anche perché, com’egli stesso ebbe a dire:  “ Io sono disposto, dove a Dio non dispiaccia, morire,  se mi fia di bisogno,  non ho paura di confessare et dire il vero”. D’altra parte, lo stesso Giuseppe Billanovich si servì del Chaos per dimostrare, contra Luzio et alii, la “vera” data di nascita di Teofilo Folengo (5), riportata al 1491 anziché al 1496: tutto ciò per dire che,  se il Chaos è fededegno per certi aspetti, non si vedrebbe per quale ragione poi diventasse “incerto” per altri, sia pure scabrosi eventi della vita di Folengo. O forse si vede, nel senso che il Chaos adombrerebbe le atmosfere delle liti furibonde, senza esclusione di colpi, che si scatenarono in convento tra i frati (Folengo VS Ignazio Squarcialupi), costruendo talora “leggende”, nonché “grossi pasticci”, diceva Billanovich (6). Tra questi, anche l’accusa a Teofilo, in quanto subcellarius o amministratore del convento, d’essere scappato con la cassa: “Convasavit, dicunt, nescio quid”, asseriva Merlino, che però non ne voleva proprio sapere  d’essere ritenuto l’autore d’alcun “trasferimento” (nelle di Lui tasche) d’alcunché.

Certo è che il Chaos diventa, nelle variegate ipotesi ventilate da Giuseppe Billanovich, una fonte alquanto “infida”. Va da sé, però, come dicevamo, che il “pasticciato” libro fu molto utile quando si trattò di definire la data esatta della nascita del Gran Macaronico. In realtà il “Nuovo Folengo” di Billanovich (che potrebbe benissimo portare il titolo di Quel poveraccio di Teofilo Folengo) costituisce una detronizzazione bella e buona del Gran Macaronico, ridotto a povero frate con velleitarismi protestatari:

“Un uomo comune e mediocre, pur con tutto il suo genio … un povero monaco che soffre, che non sa  volere … e si ribella e spontaneo si sottomette con alternativa superficiale” [Corsivi miei] (7).

Si vede che il professore di Filologia dell’Università Cattolica era  fastidito, e molto, da  quel frate che accusava il clero (quasi) tutto di malcostume. Quel famoso forse, con cui Billanovich “apriva” alla testimonianza fanciullesca dell’apprendistato letterario a Ferrara, che si soffermava sulla “lussuria” di quel prete ferrarese; quel forse, dicevo, andava bellamente a mettere in crisi tutto ciò che seguiva: ovvero suggerendo sommessamente che Thephilo s’era inventato per pura protervia  il fatto che il suddetto prete tenesse “soggetti” gli allievi “più belli”, anziché quelli “più brutti”. Ma quel forse significa anche, e soprattutto, che neppure Billanovich sapeva, in realtà, se il fatto fosse più o meno vero. Ergo, nel dubbio, noi la diamo per testimonianza vera, e, soprattutto, “reale”, in  quanto scritta di pugno dal Gran Macaronico; mentre quella di Billanovich fu, e resta, un’ipotesi  non suffragata da prova alcuna, riducentesi soltanto a (arbitraria) inferenza del tutto personale. Come asseriva giudiziosamente l’ottimo  Gerschenkron a proposito di “metodo storico”, sarebbe buona cosa non occuparsi di ciò che avrebbe potuto essere, e restar fermi all’esistente (8). Altrimenti torniamo a dar ragione a quel rustico e vetusto detto (tanto per essere in sintonia coll’altrettanto rusticano Teofilo ) secondo cui

“Se mia nonna avesse avuto le ruote, sarebbe stata una carriola”.

Sicché, mentre il sì e il no nella mente ci tenciona (ma non troppo), ci appropinquiamo al filo rosso sopra citato.  Per quanto mi concerne e vedo, mi pare poter asserire (e sono in buona compagnia) che detto filo rosso sia costituito dal fastidio mai sopito per una corruttela di costumi assolutamente invisa al Prìncipe dei Macaronici, sin dalla più lontana fanciullezza,  ovvero  sodomia e pederastia. Il fatto che nelle parti in prosa il  malcostume dei “mali” chierici fosse stato più che  suggerito, anzi, conclamato,  nel Chaos, è  spia di quel filo rosso di cui s’andava discorrendo, e che ci si sforza di trovare tra gli arcana:

Parlando l’umile asino, Egli dice, in risposta a chi gli suggeriva prudenza e accortezza nell’accusare:

“Se temessi io il bastone e le busse più che Iddio, io mi tacerei,  né sarei mai oso di dire la verità. Ma perciò che io sono disposto, dove a Dio non dispiaccia, morire,  se mi fia di bisogno,  non ho paura di confessare et dire il vero.  Né perché io dica la verità,  si debbono essi reputare essere offesi da me,  se veramente discepoli sono e seri o amici di Cristo,  il quale, come egli di se medesimo fa vera testimonia,   è essa prima verità e cagione d’ogni nostra verità. Io non mordo loro,  io non gli tocco né pungo;  io lascio stare,  anzi riverisco e temo i veri Cristi e sacerdoti e regi. Io favello di quelli che vogliono essere creduti buoni pastori,  e vogliono essere commendati e riveriti,  li quali nel vero sono mercenari e prezzolati, che è prezzo temporale  e vilissimo pascono le pecore di Cristo,  e sono per avventura affamati lupi;  ché alli buoni e veraci Pastori e santi prelati della Chiesa convenevole cosa è,  anzi necessaria,  il fargli ogni onore il più che noi gli possiamo. Si che giusto sdegno mi sospinge a  biasimare la lorda et malvagia vita del mali cherici e rettori della Chiesa” (9).

Chiarissimo.  Né ci pare poter essere, di fronte a tale testimonianza, “un po’ incerti”, come voleva  Giuseppe Billanovich, il quale se la prese di brutto con quel frate “mediocre”, e le di lui ire, spesso dettate da odi personali. Va bene: ma se quel povero frate non era fededegno, forse si sarebbe potuto pensare a uno che povero frate non era (e non mi riferisco al solito Erasmo), ma anzi papa: Il grande Pio II, per esempio, al secolo Enea Silvius Piccolomini, il quale,  nei suoi negletti per molti anni Commentarii,  ebbe a scrivere, sessant’anni prima di Folengo:

“Abbiamo dato ordine di predicare le indulgenze. Hanno detto che si tratta di un espediente per estorcere denaro, di uno stratagemma inventato dalla cupidigia della Curia … Tutto quel che facciamo, la gente lo interpreta nel modo peggiore. La nostra condizione è simile a quella dei banchieri che hanno perso solvibilità. Nessuno ci presta più fede. Il sacerdozio viene disprezzato e il nome stesso del clero è infame. Dicono che noi viviamo tra i piaceri, accumuliamo denaro, siamo schiavi dell’ambizione”. Quale sarebbe quindi la via d’uscita da una simile situazione? Una via “inusitata”, diceva Pio II: il ritorno ai “principii”, dove, ovviamente per “principii” si deve intendere una restauratio delle “virtù cristiane” (10).

C’è molto astio nei confronti del “Nuovo Folengo”, come quando, per esempio, Billanovich chiosava ironico sulle “correzioni” apportate alle Maccheronee quando Teofilo era parroco della “rettoria di Capra sul lago d’Iseo”, una “parrocchia di contadini”; sicché, si enuncia “criticamente”:

“Le Maccheronee continuavano dunque a essere corrette dove erano nate,  tra i fienili e le stalle” (Corsivi miei)  (11).

Mentre il Chaos è definito  “sciocco libro; uno dei peggiori traviamenti frequenti in Teofilo” (12).

A codesti “spassionati” rilievi critici (?), Merlino avrebbe potuto rispondere all’autore del “Nuovo Folengo” sia in lingua italica sia in macaronico:

“Et ingannato al fine si ritrova/Chi lascia la via vecchia per la nuova” (corsivo mio) (Questi sono gli ultimi due versi del Chaos). E ancora, nel Chaos:

“Sic nonne superbia nostra/Cogitur interdum vilem portare cavezzam?” (13): ovver:

“ E’ vero o non è vero che, talvolta, la nostra Superbia ci costringe a portare vili e pesanti briglie?”. Intendendosi che, se briglie vi sono, dietro c’è anche qualcuno che guida la carretta.

L’accusa della corruzione ecclesiastica costituisce dunque il background da cui si dipana  tutto il Chaos o “guazzabuglio” che dir si voglia. “Il Caos del Triperuno (publié dans la deuxième édition de l’Orlandino en l’an 1527 chez Nicolini da Sabbio à Venise) se propose très précisément comme un écrit destiné à mettre les choses au clair : il s’agit en effet d’un prosimètre autobiographique qui dénonce la dégradation de l’Ordre et de l’Église en général, tout en traçant un bilan de la ‘vie de l’auteur’ » [ Il Caos del Triperuno (pubblicato a Venezia nella seconda edizione dell’Orlandino del 1527  presso Nicolini da Sabbio), si propone come un’opera destinata a far chiarezza: si tratta di un prosimetro [ovvero prosa e versi] autobiografico che denuncia la degradazione dell’ Ordine e della Chiesa in generale, mentre si disegna un bilancio della vita dell’autore (Traduz. mia)] (14).

Così iniziava la sua (ottima) analisi del Chaos Rinaldo Rinaldi, diffondendosi in seguito a spiegarne gli arcana. All’inizio, spiega Rinaldi, basandosi opportunamente sulle “Prefationi” predisposte generosamente da Folengo alle tre selve come “guide” per il lettore “accorto”,  è  l’informe Caos, massa confusa e inerte (mole confusa e pegra): “Il materiale primordiale non ancora modellato dalla mano di Dio”. Dentro questa sorta di labirinto o laberinto, per dirla con l’originale,  c’è di tutto: sogni, favole, fantasie, e spettri. Le tre selve di cui si compone l’opera sono “figura” dell’ ύλη primitiva, assimilabile in toto alla Selva oscura di Dante; cosiccome il genere letterario di cui si serve Folengo è formalmente assimilabile a questo caos: le tre  selve si presentano, de facto,  “come un mix di materiali diversi, assemblati secondo criteri inattesi, seguendo la tradizione inaugurata da Stazio, e ripresa  nel Rinascimento da Poliziano”.

Nella terza selva (La Dissoluzione del Caos) assistiamo, asserisce Rinaldi,   ad una sorta di  “replica” della Genesi: dopo l’apparizione tonante del  divino, la massa cieca si divide in quattro parti,  ciascuna a occupare il  proprio posto: i quattro elementi, i pianeti, le stelle e la terra, sotto l’Occhio  divino. “Il lungo viaggio di Triperuno è  scandito da una serie di figure allegoriche medievali, tipiche della cultura monastica di Folengo (giustizia, natura, zelo, arte, tentazione, piacere, riflessione, libero arbitro, vana bellezza, lussuria), e iniziato con l’epifania della Natura,  intesa come concordantia e la visione della Natività”,  dopo allontanamento dalla retta via nel labirinto dei litigi e la diaspora dall’ Ordine. Indi, il viaggio si conclude con l’apparizione di Cristo come  Sole che dissipa le nebbie dell’errore; poi della Natura:  un alveare che allegoricamente rinvia alla vita conventuale finalmente rappacificata e ben regolata dall’ armonia cosmica.

Molto interessanti risultano poi le considerazioni di Rinaldi sui dialoghi del Triperuno (per l’intera explanatio dell’opera si rinvia naturalmente  al saggio di Rinaldi).  Nel Caos del Triperuno, sottolinea Rinaldi,  “il dialogo è sempre una figura morale del processo catartico vissuto dal protagonista e la duplicazione degli interlocutori consiste …  nel moltiplicare per tre  l’eroe autobiografico attraverso le varie fasi della sua carriera: Triperuno è infatti di fronte a tre facce di sé, che parlano tra loro e dialogano con lui in una sorta di bilancio intellettuale”.

Come si vede, Rinaldo Rinaldi, con pazienza e dottrina,  ha  posto sotto la lente d’ingrandimento tutti gli aspetti che facevano del Chaos un “guazzabuglio” incomprensibile, restituendoci, in chiave moderna,  non soltanto il senso dell’opera (che davvero “sciocca” non è); ma, al tempo stesso, esaltando le  già note qualità retorico-inventive del Re dei Macaronici, che avrà  pur avuto, di suo,  delle “cadute di stile” ( Ignazio Squarcialupi, in fondo,  aveva pur dei meriti) (15); dandosi però la netta impressione che tali “accidenti” siano occorsi anche ad altri  (come spesso accade nelle cose del mondo).

Laudanda, visti i tempi in cui Merlin Coccaio si trovò a vivere, è anche l’astuzia sapiente (non particolarmente gradita a Billanovich) del suo operare. Merlinus metteva spesso le mani avanti,  asserendo, come nell’Orlandino

“d’aver posto intenzionalmente qualsiasi parola che potesse suonare ingiuriosa sulla bocca di un (immaginario) straniero, dove questi errori zampillano abbondanti: E in segno manifesto di mia sinceritade quelle pochette bestieme pongo sempre in bocca d’alcuno tramontano, donde li errori il più de le volte sogliono repullulare” (16).

Ottima difesa, da avvocato consumato a ogni astuzia, accusare d’ingiuria “certa” i “Tramontani” protestanti, ben noti per essere naturaliter menzogneri nei confronti dei cattolici; astuzia che del resto non poteva mancare in un accorto quanto rotto a tutte le esperienze subcellarius o amministratore di terre del convento di Santa Eufemia, che “in quotidiano litigioso contatto con i villani […] comprò, vendette, litigò”, sentenziava Billanovich (17) .

Merlino  seppe, forse (qui un forse ce lo metto io) anche per carattere,  l’arte del litigio, sapendo però dare la netta sensazione d’essere, alla fine, uomo  sincero, e  (spesso) dalla parte del diritto; cioè di ciò che noi tutti potremmo irrazionalmente (?) definire “giusto”: che è forse troppo.

Ma noi  potremmo anche  accontentarci di “corretto”, senza forse.

 

Note

1)      Rossana Melis, “In margine a ‘Filologia e umanità’ di Gianfranco Folena”, in Lingua Nostra, 1996, p. 26.

2)      “Dialogo de le tre etadi. Paola atempata [sic], Corona giovene, Livia fanciulla” in  Chaos del Tri Per Uno. Stampata in Vinegia per Giovanni Antonio & Fratelli da Sabbio. Ad instanza de Nicolo [sic] Garanta, adi [sic] Primo Zener MDXXVIII (1527). Cito da “Esemplare riprodotto in 500 copie da originale della biblioteca di Roberto stringa di Bassano del Grappa. Presso le Grafiche Fantinato in Romano d’Ezzelino (VI), a cura di Otello Fabris e Roberto Stringa, per conto degli Amici di Merlin Cocai. Cipadensis Respublica Festa Quarta, Parma-Torrechiara, 5 giugno MMX (2010), senza numerazione di pagine. Incipit del passo citato: “Gli gridasse in capo”.

3)      Teofilo Folengo, Caos, in Opere italiane, a cura di U. Renda, Bari, Laterza, 1911, Vol. I, p. 276.

4)      Giuseppe Billanovich, “Un nuovo Folengo. Conclusione del mito”, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Anno Accademico 1937-38, Tomo XCVII, Parte II,  p. 366. Il saggio cui ci si riferisce fu preceduto da “Per una revisione della biografia di Teofilo Folengo”, apparso negli stessi Atti nell’Anno Accademico 1936-37, Tomo XCVI, pp. 775-796.

5)      Giuseppe Billanovich, Per una revisione della biografia di Teofilo Folengo (1936-37),  cit,. p. 794 e p. 796.

6)      Giuseppe Billanovich, Un nuovo Folengo …, cit.,  p. 442, e nota 2.

7)      Ivi,  p. 481.

8)      Cfr. A. Gerschenkron, La continuità storica, Torino, Einaudi, 1976, p. 51.

9)      Edizione Renda, cit., p. 324.

10)    Il passo citato è in Corrado Vivanti, “I ‘Commentarii’ di Pio II”, in Studi Storici, aprile-giugno 1985, n. 2, p. 462.

11)    Giuseppe Billanovich, Un Nuovo Folengo …, cit.,  p. 475.

12)    Ivi,  p. 471 e nota 1.

13)    Edizione Renda, cit., p. 257.

14)    Rinaldo Rinaldi, « Le Caos del Triperuno de Teofilo Folengo »,  in Les États du dialogue à l’âge de l’Humanisme, a cura di  Emmanuel Buron,  Philippe Guérin, e  Claire Lesage, Presses Universitaires François-Rabelais, 2015, p. 485-492.

15)    Cfr. Andrea Muzzi,  Il Correggio e la Congregazione cassinese, Firenze, 1982,  pp. 37-39. Scrive Muzzi: “Finora la figura del fiorentino Squarcialupi, e il suo ruolo all’interno della Congregazione non era stata accostata alle vicende culturali ed artistiche dell’ambiente benedettino padano; la sua personalità è stata del resto poco studiata ed inoltre non si è tenuto conto che egli fu presente spesso dall’inizio del secolo a San Benedetto Po, e nel 1509 fu eletto anche abate del monastero… Nel 1504 lo vediamo fra i negoziatori di Montecassino alla Congregazione che, da questo momento, passò dal titolo di Santa Giustina a quello di cassinese… negli anni seguenti poi, la lotta contro l’egemonia politica delle grandi abbazie settentrionali, sembra fosse condotta dallo Squarcialupi attraverso due riforme costituzionali appoggiate in modo deciso da Leone X… L’abate fiorentino pare fosse coadiuvato, in queste iniziative, da un gruppo benedettino fra i quali troviamo Girolamo dal Monferrato”.

16)    Teofilo Folengo, “Apologia de l’Autore”, in  Orlandino, a cura di Mario Chiesa, Padova, Antenore, 1991, p. 110.

17)    Giuseppe Billanovich, Tra Don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio, Pironti & Figli, 1948, p. 82.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.