Oltre Bodenbach: L’Austria e il Veneto nel 1866

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L’annessione del Veneto all’Italia nel 1866 fu più una defatigante attività diplomatica per i funzionari del Regno d’Italia che una risoluzione militare. Tutti sappiamo come andarono le cose per terra e per mare, per cui non credo sia il caso di insisterci troppo sopra. Più interessanti furono invece le danze che si aprirono in Europa sulla questione veneta: danze, balletti e “rendez-vous” che videro per protagonisti l’Italia, l’Austria, la Prussia bismarckiana, la Francia del fantasioso quanto piroettante Napoleone III, nonché paesi un po’ più distanti come la Russia, e altri stati slavi dell’Impero asburgico.

 

Viene  da chiedersi: ma perché mai il Veneto era così importante per l’Austria e per l’Italia?

 

“L’annessione del Veneto era una questione di vita o di morte per il nuovo regno. Venezia non era un semplice completamento, dice giustamente Salvatorelli, ‘ma membro essenziale, senza di cui l’organismo stesso dello Stato non c’era’. Qualsiasi governo italiano doveva quindi tentare con tutti i mezzi di ottenere il Veneto e di neutralizzare la influenza dell’Austria nell’Italia” (R. Blaas, Il problema veneto e la diplomazia austriaca). Così asseriva Richard Blaas in uno dei suoi interventi sulla questione veneta.

 

In altro lavoro, Blaas sottolineava altresì come un  aspetto non secondario  della politica austriaca  di fronte al problema del Veneto fosse l’ importanza strategica del quadrilatero:

 

“ Il quadrilatero  e la  linea del Mincio con la zona  delle operazioni veneta erano ritenuti indispensabili per la difesa della monarchia e della Confederazione germanica”, per cui  l’Austria non poteva rinunciare a questa posizione.   (R. Blaas, Dalla rivolta friulana nell’autunno 1864).  In più, sottolineava ancora Blaas, c’era da parte dell’Austria la “speranza d’un possibile recupero dell’influsso austriaco in Italia, garantendo alla monarchia asburgica il quadrilatero, il possesso della Venezia, e promettendo la restaurazione dei prìncipi spodestati” (Ibidem, p. 16). In altre parole, l’Austria sperava, da un lato in una “persistenza” dello Stato Pontificio, e dall’altro in una rapida quanto repentina débâcle del nuovo  e fragile Stato Unitario italiano, con un altrettanto e subitaneo ritorno alla situazione precedente, nonché con la susseguente restaurazione degli antichi sovrani, tra i quali, in particolare,  quello del Regno di Napoli, che essa,  per ragioni prudenziali,  non aveva potuto aiutare a suo tempo:

 

“L’Austria non intervenne a favore di Francesco II, com’è noto, anche se la documentazione  mostra come il sovrano borbonico, che aveva sposato una sorella dell’imperatore e che a Vienna tradizionalmente guardava, si aspettasse un sostegno non solamente morale da parte austriaca. L’Austria comunque, costretta ad una politica di prudenza dopo Villafranca, non andò oltre l’appoggio diplomatico ed il sostegno morale a Francesco II, non solo nel corso della resistenza di Gaeta, ma anche nei primi anni dell’esilio romano del governo borbonico […] l’appoggio dell’Austria ad ogni modo si restrinse progressivamente sino ad estinguersi del tutto nel 1867, allorché all’ambasciatore austriaco presso la Santa Sede non furono rinnovate le credenziali anche per Francesco II” (A. Di Vittorio, Mezzogiorno d’Italia e mondo asburgico).

 

La consapevolezza dell’importanza strategica del Veneto e del suo famoso quadrilatero non è propria soltanto delle recenti acquisizioni storiografiche, ma possiamo rintracciarla pari pari  anche in qualche contemporaneo, evidentemente addentro alle questioni strategiche sia dell’Italia sia dell’Austria. Fu questo il caso di Prospero Antonini, che, nel 1865, ossia un anno prima dell’annessione del Veneto, diede alle stampe un libro ponderoso riguardo le “secrete cose” austriache. Che l’Austria non volesse cedere il Veneto è un fatto; e questa “voluntas”, a parere di  Antonini, era particolarmente attiva e presente non soltanto nella pubblicistica austriaca, ma anche nello stesso Parlamento,  dove, ci racconta il saputo e accorto Prospero Antonini,

 

“i  discorsi pronunziati il 25 novembre 1863 nel Reichsrath di Vienna dai deputati Kurandi e Giskra tendono a provare che l’Austria, rinunciando alle Provincie Venete, rinunzierebbe ad essere potenza di primo ordine, e diverrebbe potenza secondaria. Ceduta, essi dicono,  la Venezia, in breve l’Austria perderebbe anche Trieste, l’Istria, la Caria, Gorizia, il Trentino e la Dalmazia” (P. Antonini, Il Friuli orientale).

 

Poi il nostro sagace Antonini  faceva anche  un po’ i conti in tasca agli austriaci,  sotto il profilo psicologico, e con qualche incursione nella sociologia:

 

“ L’Austria, lungi dal fare buon viso alle proposte di rinunziar al Veneto, pare deliberata a difenderne ad oltranza il possesso,  e ad avventurarsi ai casi di un altra guerra grossa e terminativa prima di cederlo.  L’Austria rimpiange la perdita della pingue Lombardia, né forse dispera riconquistarla in futuro. Perciò serba gelosamente e va ostentando nel tesoro imperiale di Vienna la corona ferrea di Teodolinda. L’Austria rimane sempre fedele alle sue antiche massime e tradizioni politiche. La Maison d’Autriche (scrive un pubblicista del secolo scorso),  a des préiénsions sur tous les pays qu’elle a possédés et qu’elle a perdus. Sa maxime est de céder au temps, et d’attendre l’occasion [ La Casa d’Austria ha delle pretese su tutti i paesi che ha posseduto e perduto. La sua massima è quella di cedere ai tempi, e di aspettare l’occasione]”.

 

 

Ci sono, continuava Antonini, “in Germania scrittori, e fra questi anche il dotto storico Giorgio Goffredo Gervinus […], i quali portano opinione che l’ avvenire del mondo debba appartenere esclusivamente alla stirpe germanica,  [es]sendo le nazioni di sangue latino condannate alla degradazione,  predestinate al deperimento. Altri, per contro, […] si arrovellano talvolta a far credere disposti gli Italiani, ricuperata Venezia, a rinnovare i gesti di Roma conquistatrice. Facile, essi dicono, alle italiane legioni, coll’aiuto di poderoso naviglio,  muovere dai lidi Aquileiesi, invadere l’Istria,  quindi fare impeto nelle regioni Danubiane, ove le valli del Savo, del Dravo e della Mura, prive di propugnacoli [= fortificazioni], non appariscono atte gran fatto a rincalzare un esercito, il quale, campeggiando di fronte, ovvero su fianchi, tentasse prima impedire a nemici Io sbarco sulle coste settentrionali dell’Adriatico,  […] [invadendo] la Carniola e le altre provincie dell’Austria interiore. Le quali fisime, ma più ancora le ambizioni e le ostinate cupidità,  fanno si che tanto gli uomini di Stato austriaci quanto i capi della congrega militare tuttodì [= ancora]  potente a Vienna, ed influentissima, per niun [nessun]  patto  sieno [siano] proclivi a consigliare l’abbandono della Venezia. L’Austria, essi affermano, cedendo le fortezze del quadrilatero, male provvederebbe agl’interessi della propria sicurezza e della sua futura conservazione nel grado di potenza primaria in Europa”.

 

Nel suo paludato italiano ottocentesco, Antonini  si fa comunque capire bene, “svelando” le ragioni profonde per cui l’Austria voleva tenersi il Veneto ad ogni costo. Un po’ dopo, rimanendo sul terreno propriamente economico,  storico e geografico, Antonini  osservava  come

 

“L’Austria comincia a guardare con gelosa diffidenza i rapidi progressi della marineria mercantile che naviga con bandiera italiana l’Adriatico; e se la Società Italo-orientale sempre più si avvantaggia a scapito di quella del Lloyd austriaco,  anche il crescente movimento de legni a vapore [ navi] italiani nel porto di Trieste è indizio della complessiva preponderanza de rapporti e degl’interessi commerciali posti a riscontro co germanici” (Antonini, p. 664).

 

Per farla breve, concludeva Antonini,

 

“Senza Venezia, senza le fortezze del Mantovano e del Veneto, come proteggere il Trentino, Gorizia,  l’Istria e la Dalmazia? Come difendere tutta la linea delle Alpi orientali? Munirla con opere d’arte [fortificazioni] non impossibile compito,  bensì dispendiosissimo,  essendo i punti da fortificarsi sparpagliati sopra uno spazio di 740 chilometri circa,  mentre la zona strategica del quadrilatero, circoscritta dalle paludi del Po, dell’Adige e dalle lagune di Venezia è,  a paragone,  più breve e per molti riguardi più atta alle difese. Questo dicono i tedeschi intesi d’ordinario nelle loro elucubrazioni a provare la importanza strategica delle linee del Mincio e del basso Po, dei lidi Aquileiesi e delle coste settentrionali dell’Adriatico; per poi venire alla conclusione che l’ Austria così nel proprio, come nel comune interesse di tutta la Germania, deve rimanere perpetuamente co’ suoi eserciti accampata sul territorio Veneto” (Antonini, p. 661).

 

Ecco qui spiegato da un testimone attento dell’Ottocento il motivo per cui Richard Blaas insistette moltissimo sul fatto che  il Veneto fosse ritenuto dall’Italia un territorio da riconquistare a tutti i costi, e a qualsiasi prezzo, anche al prezzo di  figure assolutamente barbine  in campo nazionale ed internazionale, facendosi passare quasi sottobanco il Veneto tramite Napoleone III. E’ altresì indubbio che il governo italiano dell’epoca fosse stretto nella morsa di un’opinione pubblica filo-mazziniana e garibaldina che godeva di eccezionale prestigio, e  che “premeva” indefessamente sul governo, sull’ “onda” dei recenti successi, per tentare il tutto per tutto per annettere il Veneto al Regno d’Italia. E fu su quell’ “onda” che, alla fine, si decise per un  intervento militare che fu insufficiente, e che poi, a causa di tal insuccesso, comportò tutta una serie di “piroette” a livello diplomatico,  che comunque si conclusero con l’annessione.

 

L’ “onda patriottica” e il governo del Regno d’Italia avevano però scarsamente considerato gli oneri, non soltanto finanziari, ma  soprattutto  organizzativi che avrebbe comportato la gestione d’un territorio ormai da secoli accostumato all’amministrazione austriaca, che, si diceva (e si continua a ripetere) nella vulgata,  fosse, nel complesso, un’amministrazione responsabile, fatta, per buona parte,  di Regi Impiegati ligi al dovere e dove, recitavano le regole del “perfetto funzionario” austriaco, “importa assaissimo [moltissimo] che [gli uffici] siano eserciti [= condotti] con fedeltà, onoratezza e puntualità’  per evitare disgusto nel pubblico” ( C. Mozzarelli, Il modello del pubblico funzionario nella Lombardia austriaca).

L’apparato amministrativo asburgico aveva dimostrato, anche secondo talune fonti venete (e non austriache), eccellenti capacità di governo della cosa pubblica. Quindi, La Gazzetta di Venezia, scriveva:

 

“ Il Veneto, specialmente in alcune parti del pubblico servigio [= servizio], ha un’amministrazione eccellente. Andiamo dunque adagio nel demolire il di lui sistema amministrativo; studiamolo bene, osserviamo sapientemente come funziona la di lui macchina, e a poco a poco ci persuaderemo della convenienza di studiarlo ancora, e poscia [poi] ci indurremo ad applicare varie delle sue regole alle altre provincie. Il Governo dee [=deve] lasciar per ora le cose come sono” ( La Gazzetta di Venezia, 15 ottobre 1866).

 

Il Ministro Ricasoli questo lo sapeva molto bene; ed infatti, con una circolare riservata ai Commissari Regi, nel 1866, raccomandava molta prudenza, perché subodorava una  “corsa” di personaggi tanto impreparati quanto rampanti agli uffici lasciati sguarniti dal personale austriaco:

 

“Affine di ottenere la maggiore possibile uniformità nella applicazione nelle province venete del reale decreto 18 luglio prossimo passato, n. 3064, il sottoscritto ritiene opportuno di fare a V.S. Illustrissima in via riservata alcune osservazioni e d’impartire alcune norme generali direttive […] concernenti il personale delle pubbliche amministrazioni […] Il succitato decreto reale dell’articolo 4 conferisce ai commissari del re la facoltà di ordinare la sospensione dall’ufficio colla privazione dello stipendio di qualsiasi pubblico funzionario […] L’esercizio però di tale facoltà richiede da parte dei singoli commissari del re la più grande prudenza ed accortezza, sia per non subire le esigenze dei partiti eccessivi, sia per non lasciarsi ingannare da false apparenze di patriottismo” (Gli Archivi dei Regi Commissari nelle province del Veneto e di Mantova, Vol. II).

 

“Analogo principio, si osserva negli Archivi dei Regi Commissari,  era già stato affacciato  nel 1859, ed aveva improntati i lavori di quella commissione Giulini  (‘scomporre il meno possibile […] l’attuale macchina amministrativa’ aveva raccomandato al Giulini lo stesso Cavour) creata senza alcuna posizione ufficiale, allo scopo di preparare un progetto per l’organizzazione provvisoria della Lombardia nel periodo intercorrente fra la liberazione dell’Austria e la definitiva unificazione con il Piemonte” (Gli Archivi dei Regi Commissari, Vol. I).

 

E’ pertanto accertato che l’amministrazione austriaca era in genere preparata; anche se funzionante non con eguale perizia per tutte le province dell’Impero. La periferia dell’Impero, quella Lombardo-Veneta, per intenderci,  non pare fosse poi così ben accudita; infatti, secondo le indagini condotte già nel 1859 dalla Commissione Giulini sopra citata, una commissione del tutto “informale” voluta da Cavour, la situazione della Provincia Lombardo-Veneta era deprimente:

 

“La dominazione austriaca potrà avere altrove carattere e influenza di civiltà […] Qui essa ha per corollario la degradazione economica, morale, intellettuale ed amministrativa del paese” (Atti della commissione Giulini).

 

Ora, se andiamo  a spulciare un po’ tra le maglie degli Archivi  dei Regi Commissari del 1866, è molto difficile dar torto a Giulini. L’Austria, in Veneto, agiva come una potenza coloniale del tutto incurante delle condizioni materiali e di lavoro delle popolazioni ad essa soggette. Metti pure che, a livello amministrativo, le cose fossero impostate in maniera sufficientemente razionale, ma, sul piano eminentemente sociale,  le condizioni effettive delle popolazioni, specialmente rurali delle Province venete, furono oggetto di assoluta indifferenza da parte del governo austriaco. Del resto, non ci si poteva attendere una qualsivoglia “sensibilità sociale” degli Austriaci per il mondo del lavoro e non; e questo  persino nella stessa Austria, figuriamoci nel Veneto!

 

Nel 1868, il ministro degli Interni, Karl Giskra, già menzionato da Antonini nel 1863 come semplice deputato,  “poteva dire al cospetto di una deputazione di lavoratori le ormai famose parole:

 

‘In Austria non esiste una questione sociale; da noi questa questione sociale si arresta a Bodenbach! [stazione di frontiera con la Slesia prussiana]’ ” ( H. Matis, La rivoluzione industriale …) (Sottolineature mie).

 

Nel frattempo, Oltre Bodenbach, Il degrado sociale si poteva toccare con mano nelle città venete. A  Chioggia,  per esempio, oltre ad un analfabetismo totalizzante e pervasivo,  troviamo fenomeni aberranti, lasciati lì a marcire senza che il governo austriaco avesse mai mosso  un dito per migliorare condizioni di vita  che incidevano in maniera devastante specialmente sui bambini e sulla loro educazione:

 

Pasolini al Ministero della Pubblica Istruzione, Venezia, 10 gennaio 1867:

 

“Chioggia, città commerciale e marittima di circa ventottomila abitanti e capoluogo d’un distretto che ne consta cinquantamila, non ha che una scuola elementare maschile di quattro classi ed una minore femminile […] Essendo la pubblica istruzione in Chioggia in uno stato sì deplorabile, non dee [=deve] recar sorpresa se la miseria e l’ignoranza hanno messo profonde radici in questa città, che per la sua posizione sarebbe chiamata a ben migliori destini” (Gli Archivi dei Regi Commissari nelle province del Veneto e di Mantova, Vol. II, p. 256).

 

Secondo il rapporto del commissario distrettuale di Chioggia Bellotti del 3 novembre 1866,

 

“Le scuole elementari comunali sono poco frequentate, come V. E. potrà rilevare dal prospetto, che allego. Questo è un male comune agli altri distretti della terraferma. I villici sogliono mandare i loro figli a guardare le oche, i maiali, a rubar legna, e non ne vogliono sapere di scuole. Il disordine è ancor più grande a Chioggia. I pescatori vanno in mare alla pesca, e lasciano in città le donne ed i piccoli figli. Le madri non si prendono alcuna cura di loro e li lasciano vagare tutto il giorno per le strade e per le piazze. Il locale municipio ha pubblicato degli avvisi, i parrochi [sic] hanno fatto dal pulpito degli appelli alle madri, per condurle all’adempimento dei loro doveri, ma fu inutile […] Per rimediare a tanto male non ci sarebbe altro mezzo, che quello d’istituire un asilo per l’infanzia, a condizione,  che si desse ai fanciulli almeno una zuppa ogni giorno. A questo patto essi accorrerebbero in frotta e si potrebbe dare loro la educazione confacente alla loro età, finché fossero in grado di venire ascritti alle elementari” (Gli Archivi dei Regi Commissari nelle province del Veneto e di Mantova, Vol. II, pp. 192-193).

 

Spostiamoci un po’ a Verona,  dove,  sotto l’Austria, “questo vantato paterno regime”, “la legge era incerta e floscia”;  “l’istruzione elementare è stata un miraggio, le comuni spendevano molto, le statistiche in fine d’anno erano in piena regola, ma i ragazzi delle campagne non aveano [avevano] imparato niente” (Gli Archivi dei Regi Commissari nelle province del Veneto e di Mantova, Vol. II, pp. 237-238).

 

Qualcuno, in Parlamento, a distanza di un anno dall’annessione del Veneto, nel 1867,  poteva senza tema di smentita asserire:

 

“Noi oggi possediamo il quadrilatero;  questo non ci fa più paura, ma tutti noi, dal primo all’ultimo siamo persuasi che v’è un altro quadrilatero da smantellare in Italia, il quadrilatero dell’ignoranza” (Intervento di De Boni alla Camera nella tornata del 30 gennaio 1867) (Sottolineature mie).

 

Potremmo allora concludere questa nostra  carrellata sul Veneto 1866 con il dire che l’ “imperfetto”, “incompetente”, e “dilettantesco”, per molti versi,  governo del Regno d’Italia, che s’era insediato nel Veneto al posto del  “perfetto” Imperial Regio Governo di Vienna, aveva un pochino più a cuore le condizioni materiali del popolo veneto rispetto all’Austria?

 

Io direi di sì.

 

Al  Governo del Regno d’Italia questioni rilevanti, come quello dell’istruzione, per esempio,  interessarono, sicuramente, molto di più rispetto al  “perfetto” governo asburgico, fatto sì di “eccellenti” amministratori, ma al quale, però, della vita materiale (e culturale) del popolo delle Province venete proprio non importava pressoché niente. Questo accadeva nella colonia del Lombardo Veneto, mentre gli austriaci, a casa loro, avevano gran cura dell’istruzione:

 

“In Austria s’incomincia come in Baviera dalle scuole popolari,  Volksschulen,  che son comuni a tutti ed i cui insegnamenti debbono seguirsi indistintamente da tutti o nelle scuole pubbliche o nelle private.  Le scuole popolari od elementari aprono le solite due vie agli studi tecnici, agli studii dotti, che schiudono il passaggio o alle scuole normali Pedagogium, o scuole civiche Burgerschulen o alle scuole industriali, Gewerbeschulen, o al ginnasio pratico Real Gymnasium. O finalmente alle scuole pratiche inferiori Realschulen, dalle quali si accede alle scuole pratiche superiori Oberrealschulen. Da queste si va o all’Accademia di commercio Handels Akademie o Istituto Politecnico Homg Polytecknische Institut” (M. Giarrè, Sulla istruzione elementare …).

 

Il modello scolastico tedesco era moltissimo “invidiato” in Italia :

 

“La Germania era, infatti, per quanto riguarda l’istruzione, nel pensiero di tutti […] Alla vigilia della promulgazione della Casati, diversi uomini politici erano andati a studiarvi il sistema scolastico. Tra di essi, un ex-ministro della pubblica istruzione, Carlo Cadorna” (P. Macry, La questione scolastica …).

 

E’ ben vero, e ne convengo appieno,  che, nei primissimi anni dell’unificazione, il Regio Governo aveva fatto alla fine pochissimo per l’istruzione; ma le lentezze e le profonde lacune nel settore dell’istruzione pubblica non furono  affatto disgiunte da un’altra questione dirimente squisitamente politica, ossia  quella dell’accentramento amministrativo, di cui il governo del Regno d’Italia sottovalutò clamorosamente la portata dirompente, nonché le conseguenze esiziali per la raggiunta unità non soltanto nell’immediato, ma a ben più lunga scadenza.

 

Ma questo è un  tema che merita un capitolo a sé.

 

Fonti:

R. Blaas, “Il problema veneto e la diplomazia austriaca”, in Conferenze e note accademiche nel I centenario dell’unione del Veneto all’Italia, Padova, 1967, p. 19.

R. Blaas, Dalla rivolta friulana nell’autunno 1864 alla cessione del Veneto nel 1866, Venezia, Deputazione editrice, 1968, p. 77.

A. Di Vittorio, “Mezzogiorno d’Italia e mondo asburgico (1700-1860). Una rassegna storiografica”, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, 1978, Vol. IV, pp. 317-318.

P. Antonini, Il Friuli orientale, Milano, Dottor Francesco Vallardi Tipografo-Editore, 1865, p. 660.

C. Mozzarelli, “Il modello del pubblico funzionario nella Lombardia austriaca”, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, Bologna, Il Mulino, 1978, Vol. IV, p. 107.

La Gazzetta di Venezia, 15 ottobre 1866, in R. Camurri, Da capitale decaduta a laboratorio della politica  nazionale. La storia italiana di Venezia, in I sindaci del re, a cura di E. Colombo, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 370.

Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stato. LXIII. Gli Archivi dei Regi Commissari nelle province del Veneto e di Mantova, 1866,  Roma, 1968,  Documenti, Vol. II, p. 32.

Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stato. LXII. Gli Archivi dei Regi Commissari nelle province del Veneto e di Mantova, 1866,  Roma, 1968, Inventari, Vol. I, p. 10 e nota 4.

Atti della commissione Giulini  per l’ordinamento temporaneo della Lombardia (1859), a cura di N. Raponi, Milano, 1962, p. 214. La citazione è ripresa da M. Meriggi, “Potere e istituzioni nel Lombardo-Veneto pre- quarantottesco”, in La dinamica statale austriaca nel XVII e XIX secolo, Annali dell’Istituto storico italo germanico, Quaderno 7, a cura di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 244, nota 95.

H. Matis, “La rivoluzione industriale: l’intervento dello Stato nei conflitti d’interesse”, in La dinamica statale austriaca nel XVII e XIX secolo, Annali dell’Istituto storico italo germanico, Quaderno 7, a cura di P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 296.

M. Giarrè, Sulla istruzione elementare e tecnica in Baviera, Austria, Sassonia, Prussia, Belgio e Inghilterra, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1872, p. 7.

P. Macry, “La questione scolastica: controllo, conoscenza, consenso (1860-1872)”, in L’indagine sociale nell’unificazione italiana, in Quaderni Storici, Ancona-Roma, dicembre 1980, p. 887, nota 24.

“Intervento di De Boni alla Camera nella tornata del 30 gennaio 1867”, in Rendiconti del Parlamento italiano. Sessione del 1866-1867. Discussioni della Camera dei Deputati, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1867, p. 377.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.