La Profezia del Veltro

Il presente saggio affronta il tema del Veltro di Dante, identificandolo in Arrigo VII.

Divina Commedia
G. Padoan, vero maestro di studi veneti, scrisse alcuni anni or sono una bella Introduzione a Dante (1). In quell’opuscoletto apparentemente didascalico, ma in realtà ricchissimo di riferimenti eruditi, a un certo punto Padoan, venendo a discutere sulla disperante questione dell’identificazione del “Veltro”, faceva chiaramente intuire di essere pressoché il solo o quasi in Italia a essere convinto che il famoso Veltro di Dante altri non fosse che Arrigo VII del Lussemburgo: « Se è assolutamente infondata la tesi del Pietrobono che nell’episodio del Messo dinanzi alla città di Dite (Inf. IX) vede allusione all’assedio di Firenze attuato da Arrigo VII, non si può invece escludere (ma è assai poco probabile) che nel Veltro profetizzato nel primo canto… sia da ravvisare proprio quel principe lussemburghese, che, eletto imperatore nel 1308, nell’ottobre 1310 scendeva in Italia con un piccolo esercito di 3000 soldati per l’incoronazione e per ribadire l’autorità imperiale imparzialmente su guelfi e ghibellini, appunto come preconizzava Dante. Non v’è dubbio che… al momento di quella spedizione l’animo del poeta, riapertosi alla speranza, ritenne di dover identificare in Arrigo il Veltro: veniva finalmente chi era destinato a ricondurre in Italia, con l’autorità imperiale, l’ordine e la pace, garantendo all’esule un ritorno glorioso nella sua città»(2).

Padoan suffragava l’intuizione con altre argomentazioni decisamente pertinenti, notando, per esempio, che fu in seguito all’elezione di Arrigo che Dante cominciò a interessarsi seriamente della questione dell’impero, dando altresì inizio alla stesura della Commedia. Ma, come si è visto, smorzava con modestia la sua “impudente” affermazione, osservando, tra parentesi, e forse intimorito da tanta audacia di fronte alla sterminata letteratura erudita sul Veltro, che comunque l’identificazione proposta era «assai poco probabile». Improbabile o no, l’intuizione di un maestro non va mai scartata a priori, e anzi va approfondita, se non altro per la deferenza che si deve a uno studioso del suo calibro.

I termini del problema sono noti a chiunque: i commenti correnti si limitano, per disperazione, a mettere in fila, una dopo l’altra, le varie interpretazioni. Qualcun altro, un po’ innervosito, sentenzia che, in fondo, sapere chi fosse il Veltro è cosa del tutto superflua e inutile. Ma francamente una posizione del genere mi sa tanto della storiella di Fedro della volpe e l’uva. C’è chi dice che sotto il Veltro si nasconde Cangrande della Scala, chi Uguccione della Faggiuola, chi un papa e chi Dante stesso. L’interminabile e a tutt’oggi insoluta “quaestio” nasce al fatto che proprio non si riesce a dare un senso compiuto al fatto che Dante collochi la nascita del veltro «tra feltro e feltro». Poiché, come è noto, il feltro è un umile panno ( « Il feltro – scrive Sapegno – come avvertono il Bambaglioli, l’Ottimo e il Boccaccio, è una spezie di panno oltre ad ogni altra vilissima») (3). Va da sé che molti commentatori abbiano pensato a un personaggio di umili origini, oppure, trattandosi di un imperatore, al feltro che si trova nei braccioli del trono, secondo l’intuizione del De Regis, definita da taluni “acuta” (De Federicis), da altri “lambiccata” (Sapegno). Personalmente non ritengo del tutto sbagliata la posizione di quanti hanno invece intravisto un’indicazione geografica nei due feltri citati da Dante. E’ questa la tesi di quanti individuano tale nascita tra Feltre e Montefeltro, andando così a scomodare personaggi come Cangrande della Scala o Uguccione della Faggiuola, personaggi certo di rilievo, ma non tali da poter portare sulle spalle l’onere pesantissimo di una “restitutio imperii” in un’Italia che Dante vedeva dilaniata dalle lotte politiche tra le fazioni e che aveva bisogno di una urgente pacificazione per mano di un imperatore, l’unico che avesse le carte in regola per pacificare gli animi e per farlo tornare a casa, tra le mura di Firenze. Ora, ognuno sa che l’unico che gli diede questa illusione fu Arrigo VII del Lussemburgo, al quale scrisse lettere di sollecitazione e di rampogna, quando gli sembrò che questi esitasse e tergiversasse troppo nell’attacco a Firenze. Neppure poteva pensare a un papa: è noto che i suoi rapporti con la Curia furono sempre molto tesi, per non usare che un eufemismo: basti pensare che ancora all’altezza della composizione del Paradiso (oltre il 1314), abbiamo un Clemente V “rimborsato” tra i simoniaci e che spingeva più in giù l’odiato Bonifacio VIII, e senza entrare nel merito di una questione che ha affaticato le menti più fini del nostro Medioevo, di coloro cioè che, con Dante, vedevano nel papato l’ostacolo insuperabile per la costruzione di un impero italo-germanico, perseguito sino alla fine dall’imperatore Federico II di Svevia, sempre esaltato da Dante. (4)

Quanto a Uguccione della Faggiuola mi pare ci si possa sbrigare dicendo che è molto difficile che Dante avesse voluto “inveltrare” un mezzo avventuriero, pronto a tutto pur di crearsi uno stato autonomo e una dinastia propria. Semplicemente il buon Uguccione sembrò aprire a Dante la via per il ritorno a Firenze dopo averne sbaragliate le milizie nella battaglia di Montecatini del 1315 (5). D’altra parte c’è un argomento a mio avviso dirimente: Dante non ha mai citato in alcuna opera Uguccione. Indirettamente, nel senso che non fu citato espressamente da Dante, compare nell’egloga I di Giovanni del Virgilio a Dante (6), e ancora più indirettamente in una leggenda che lo vedrebbe depositario della prima cantica, secondo la famosa Epistola di Ilaro, tra l’altro ben discussa e inquadrata storicamente da Padoan (7). Al di là di queste deboli testimonianze, il silenzio, che mi pare indice di una sostanziale indifferenza del poeta nei confronti di un simile personaggio, che gli poteva far comodo, ma che a un’analisi attenta non sembra possedere i caratteri del Veltro da lui evocato nel I dell’Inferno.

Più difficile sbarazzarsi di Cangrande della Scala, che sembrerebbe avere le credenziali in regola per “inveltrarsi”. Cangrande però lo definirei un veltro “in seconda” per le ragioni che diremo. Quando Dante si recò a Verona presso Bartolomeo della Scala, verso il 1303-1304, nei primissimi tempi dell’esilio, Cangrande, che era nato nel 1291, aveva sì e no undici-dodici anni. Quando, dopo la morte di Bartolomeo, Dante lasciò Verona, nel marzo del 1304, il bambino contava 13 anni (8). E’ evidente che l’infante non poteva suggerire molto a Dante, che era ancora al di là di maturare le proprie convinzioni politiche, specie sulla necessità dell’Impero, idee che secondo Padoan il poeta cominciò a elaborare seriamente verso il 1307-1308, anno di composizione del Convivio, che precedette di pochissimo la “folgorazione” (Padoan) della Commedia. Secondo Padoan fu l’elezione imperiale di Arrigo VII (1308) a spronare Dante ad approfondire la necessità per l’Italia divisa da lotte asperrime tra guelfi e ghibellini di un imperatore di pace. Quando poi nel 1310 Arrigo VII si fece vedere in Italia alla testa di circa 3000 uomini, Dante si convinse che finalmente era arrivato l’uomo giusto (9). Nel 1310 Cangrande aveva solo 19 anni, e per di più aveva retto Verona insieme con il fratello Alboino fino all’anno prima (10).

Tra un imperatore, Arrigo VII, venuto espressamente in Italia per sistemare le cose e un semplice “coreggente”, sia pure di belle speranze come Cangrande, la scelta mi sembra quasi ovvia: infatti scelse Arrigo, nuovo Mosé, venuto in Italia per traghettarla verso gli agognati orizzonti di pace. Il fatto che Cangrande venga esaltato nel Paradiso non deve confonderci le idee, perché dobbiamo partire da alcuni fatti oggettivi, come le date, per esempio. Un’opera come la Commedia non si fa in un giorno e neppure in un anno: ce ne vogliono molti di anni. L’Inferno fu reso noto al pubblico nel 1314; Petrocchi dice nel 1313: e sia (11). Ma il 1313 segna la fine dell’avventura di Arrigo, voluta da Dante come pochi in Italia, vista da lui come foriera del suo ritorno trionfale a Firenze. A quell’altezza Cangrande aveva 22 anni, e solo da un paio reggeva da solo Verona, dopo la morte del fratello Alboino. Gli anni che corrono tra il 1308 e il 1313-’14 sono, in Italia, gli anni di Arrigo, non quelli di Cangrande. Questi convince più tardi Dante della sua effettiva consistenza: nella lettera dedicatoria del Paradiso Dante è chiaro e più o meno dice:

«… Avevo sentito parlare di te, e poi mi sono convinto del tuo valore… Un tempo invero ne credevo la rinomanza … eccessiva, come esorbitante la verità. Ma affinché una lunga incertezza non mi tenesse troppo sospeso,… venni a Verona per esaminare coi fidi occhi le cose udite…» (12). La “verifica” su Cangrande è quindi molto tarda, risale probabilmente al 1319-’20, quando anche il Paradiso fu concluso. Secondo Padoan «…l’unico dato cronologico certo è ante 25 agosto 1320… da cui non ci si potrà scostare se non di pochissimo… Privo di fondamento si è rivelato un recente tentativo di datarla al 1316» (13). In pratica l’elogio di Cangrande nel Paradiso si ha a bocce ferme: la discesa di Arrigo era finita in una bolla di sapone, e ora (ma all’altezza del 1320), forse, poteva davvero prendere una qualche consistenza nella mente di Dante il giovane e gagliardo Cangrande della Scala, che in fondo era vicario imperiale e calamita del ghibellinismo italiano, ancora una volta l’unico che gli potesse promettere il ritorno a Firenze senza umiliazioni o ulteriori intoppi. Resta però il fatto che Cangrande deve essere considerato, lo ripeto, un Veltro di ripiego, perché quello vero, l’unico e il solo, il profetizzato del primo Canto dell’Inferno, colui che si poteva fregiare del titolo era Arrigo VII del Lussemburgo, e nessun altro. Cangrande fu “un” veltro, non “il” veltro. Diciamo però che lo Scaligero, se non si tiene conto delle date di composizione della Commedia ( L’Inferno fu reso pubblico nel 1314), poteva godere di credenziali di tutto rispetto: oltre che essere Vicario imperiale, con l’aquila sull’insegna della Casata, Cangrande sembrava proprio “quel profetizzato”: non era forse nato «tra feltro e feltro»? Ovvero, secondo taluni, tra Feltre e Montefeltro?

Detto ciò, è evidente che occorre mettere un po’ di carne al fuoco a sostegno dell’identificazione di Arrigo di Lussemburgo quale Veltro voluto dal destino.

Mi pare sempre più razionale pensare che Dante, col dire che il veltro aveva la sua «nazion tra feltro e feltro», ci volesse dare le coordinate geografiche di quella portentosa “nascita”, che avrebbe virgilianamente coinciso con una nuova età dell’oro, fatta di amore e di pace. Il problema è che il tono profetico del nostro Poeta ha scovato perfidamente una metafora ( il doppio feltro) per cui non riusciamo, vagando per l’Italia, specie tra Feltre e Montefeltro, a trovare alcuno che abbia i requisiti richiesti.

L’errore sta forse nel cercare in Italia, mentre dovremmo allargare lo sguardo all’Europa.

Non ci sono, né ci furono in Europa città o paesi che richiamino i nostri Feltre e Montefeltro, però, e qui sta forse lo scioglimento del dramma, abbiamo nell’Europa dei tempi di Dante città e luoghi innumerevoli che, grazie all’enorme sviluppo dell’industria della lana, la prima in Europa, producevano panni di feltro in milioni di pezze. Quel famoso «tra feltro e feltro» era forse un’indicazione geografica, velata da una metafora che sembrerebbe sfidare ancora i secoli.

Se pensiamo che il Lussemburgo, patria natale di Arrigo, è come “incastrato” a Ovest tra le città laniere della Francia (Chalons, Provins, Reims e regione parigina); a Est da quelle della Germania (Colonia, Maastricht, Namur); a Nord dai grandi e rinomatissimi centri lanieri delle Fiandre con Bruges in testa ( il “Bruggia” di Dante); e, per finire, a Sud dalla città italiana che nel Medioevo era la capitale della lana, ovvero Firenze, ci rendiamo effettivamente conto che l’enigmatica espressione calzava a pennello al Conte del Lussemburgo, che effettivamente era nato «tra feltro e feltro», ovvero, fuori di metafora, tra le zone di produzione della lana più fiorenti del Medioevo dei tempi di Dante. Né del resto è da dimenticare che Lussemburgo stessa, secondo gli studi della Ennen, era nel Medioevo un centro laniero di una qualche importanza, un centro diciamo così di produzione “popolare”, di “feltri”, di una qualità inferiore alle lane che si producevano ai confini (14). Unendo con due assi ideali da Ovest a Est Parigi con Colonia e da Nord a Sud Bruges con Firenze, con il Lussemburgo al punto d’incontro dei due assi, ne vien fuori una croce che sta quasi simbolicamente a identificare lo “spazio sacro” dell’Impero, quasi copia del progetto di Federico II, che pensava a un « grande Regno tedesco-italico dal Baltico al Mediterraneo, nel disegno del quale si esauriva il sogno medievale dell’Impero universale» (15).

Quanto poi al fatto che Dante abbia scelto il termine “feltro”, che rimandava al più umile dei panni della produzione laniera europea e non, per esempio, vocaboli come “seta” o “lino”, che rinvierebbero al contrario a tessuti maggiormente confacenti alla figura dell’imperatore, occorre rendersi conto del fatto che, se nella mente di Dante l’idea era effettivamente quella di indicare l’industria della lana, il poeta fu volutamente “oscuro”, Minerva oscura avrebbe detto Pascoli, proprio in virtù del fatto che ciò di cui si stava parlando cadeva sotto il segno della profezia. L’effetto sarebbe stato molto diverso se egli, anziché il feltro, avesse nominato qualche tessuto prezioso. E’ infatti scarsamente credibile che un versificatore come Dante, se avesse veramente voluto, non sarebbe riuscito a individuare un’altra rima rispondente allo scopo, senza scomodare la rima Veltro-feltro. “Veltro” non solo è in rima perfetta con “feltro”, ma la scelta lessicale dà anzi vita a una sineddoche (una parte per il tutto; nel nostro caso un manufatto, il feltro, al posto dell’intero settore laniero, che produceva, oltre al feltro, lino, seta, fustagni ecc.) pressoché criptica, concettualmente molto fuorviante e all’apparenza indecifrabile ( e lo dimostra il fatto che se ne discute da secoli), però assolutamente pertinente al concetto che il poeta intendeva trasmettere sotto il velo profetico, e che voleva dare “per aenigmitate” le coordinate di un luogo ( il Lussemburgo) facendo riferimento alla dislocazione geografica dell’ intera industria della lana in Europa, con Firenze come limite estremo meridionale di tale produzione. E Firenze era veramente ai tempi di Dante la capitale della lana in Italia, con più di 80.000 pezze all’anno, di cui molte di pregio, ma moltissime fatte di quel “feltro” che aveva un mercato inesauribile nelle classi umili della popolazione. La lana e Firenze facevano un tutt’uno: dire Firenze e dire “lana” era la stessa cosa (16). Basti pensare che quando Uguccione della Faggiuola sgominò Firenze nel 1315, un poeta melevolo, il lucchese Pietro dei Faitinelli, consigliò ai Fiorentini di dedicarsi solo alle cose in cui erano veramente abili:

Lassate far la guerra a’ perugini

e voi v’intrattenete della lana

e de goder e raunar quattrini… (17)

 

 

Ma la cosa non si esaurisce qui. La storia del Veltro che “appare” per salvare l’impero non è un’invenzione dantesca. La troviamo narrata nella Canzone di Orlando, e non essendoci il minimo dubbio sulla conoscenza della Canzone da parte di Dante, va da sé che l’episodio del sogno di Carlo Magno con l’apparizione del veltro diventa una fonte, se non “la” fonte primaria di tutto lo scenario del I dell’Inferno, dal Veltro alla “selva oscura”:

Il giorno passa e la notte si addensa.

Re Carlo dorme, l’imperator possente…

Altra visione dopo il sogno gli appare;

che nella propria cappella, in Aquisgrana,

al braccio destro forte un verro lo azzanni;

poi dalle Ardenne venir vede un leopardo,

che lui nel corpo ferocemente assalta;

ed ecco un veltro sbucare dalla sala,

che vien da Carlo di galoppo ed a salti,

e prima al verro l’orecchio destro strappa,

irosamente poi s’attacca al leopardo.

Dicono i Franchi che v’è una gran battaglia… [LVII]

Nel secondo sogno di Carlo Magno (lassa CLXXXIV) (18), il pericolo per l’imperatore viene da un orso incatenato (Gano) e da trenta orsi (parenti di Gano), che sbucano, come il leopardo, dalle Ardenne. La salvezza viene ancora una volta dal Veltro, che appare all’improvviso dal palazzo imperiale:

E dalle Ardenne venir vede trenta orsi…,

Dal suo Palazzo viene un veltro di corsa,

che, superando tutti quanti gli altri orsi,

sull’erba verde si slancia sul maggiore…

Si noterà che il pericolo per l’imperatore viene sempre da animali provenienti dalle Ardenne, dalla «regione montuosa delle Ardenne, famosa nel Medioevo per la leggendaria foresta dei Prodigi», vero prototipo della “selva oscura” di Dante, popolata di animali pericolosi, che solo il Veltro «farà morir con doglia».

Per converso, si osserverà che il Veltro salvifico non giunge da un luogo qualunque e imprecisato del mondo, ma dalla “sala” imperiale, nel primo episodio, e dal “Palazzo” del sovrano nel secondo. E’ quindi dal seno stesso della dimora di Carlo Magno che muove il Veltro, dallo stesso Palazzo Imperiale viene la salvezza.

Ora, come si è detto, il Veltro che «farà morir con doglia». le fiere della selva oscura non può venire altro che dalle “sale” del Palazzo imperiale, e all’altezza della prima composizione dell’Inferno (1308-1314), l’unico “Veltro” che abitava le sale imperiali era Arrigo VIII, eletto imperatore nel 1308 e fonte della “folgorazione” della Commedia.

Enzo Sardellaro

 

Note

1) G. Padoan, Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni, 1975.

2) Ivi, p.92.

3) La Divina Commedia, a c. di N. sapegno, vol. I, Inferno, Firenze, La Nuova Italia, 1968, Canto I, nota 105.

4) G. Pepe, Lo Stato ghibellino di Fedrico II, in Carlo Magno Federico II, Firenze, Sansoni, 1978, p. 197.

5) C. Marchi, Dante, Milano, Rizzoli, 1985, p. 152.

6) Cfr. Egloga I. Giovanni del Virgilio cita un “arator” (Uguccione della Faggiuola) « que lilia fregit », che infranse i gigli, ossia che sconfisse i Fiorentini. In Dante. Tutte le opere, Firenze, Sansoni 1965, p. 354, v.27.

7) Sull’Epistola di Ilaro cfr. Padoan, Introduzione…, cit., pp. 104-106 e sull’episodio V. anche Marchi, Dante, cit., pp. 107-108

8) Cfr. Padoan, Introduzione…, p. 51 e Marchi, p. 63.

9) Cfr. Padoan, Introduzione…, pp. 72-84.

10) Cfr. Marchi, cit., p. 166.

11) Cfr. Padoan, Introduzione…, p. 102.

12) Cfr.Epistola a Cangrande, XIII, I, in Dante. Tutte le opere, cit, p.341.

13) Cfr. Padoan, Introduzione…, p. 119.

14) E. Ennen, Storia della città medievale, Bari, Laterza, 1978, pp. 171 sgg. Per una visione della dislocazione geografica dell’industria della lana nel Medioevo, V. R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, Torino, Einaudi, 1975, p.170.

15) G. Pepe, Lo stato ghibellino…, cit, p. 109.

16) Su Firenze capitale della lana la letteratura è vasta. Valga per tutti il seguente giudizio della Kotel’nikova, Mondo contadino e città in Italia dall’XI al XIV secolo, Bologna, Il Mulino, p. 68: « Alla fine del XII secolo e soprattutto nei secoli XIII e XIV, Firenze fu promossa al rango di più importante tra le città toscane… La lavorazione del panno, e più tardi la tessitura della seta… tutto ciò costituiva la base della potenza della città».

17) Cfr. Marchi, cit., p. 153.

18) La Canzone di Orlando, con traduz, e note di R. Lo Cascio, Milano, Rizzoli, 1966, p. 50 e nota 728; p. 137 e note.

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.