“Proiezioni” di Pasolini in Dante

Pasolini

Venendo a discorrere intorno alla lingua di Dante, Pasolini lo fece da par suo e con notazioni che si raccomandano all’intelligenza dei lettori. Magari lettori un po’ “spregiudicati”, che “accettano” commenti ed esegesi linguistiche un po’ fuori degli schemi accademici. Sulla lingua di Dante, e soprattutto sul suo modo di usarla, “saccheggiando” espressioni e moduli linguistici delle più diverse classi sociali di Firenze, Pasolini, in certi passaggi, ci mise molto di se stesso e del suo modo di avvicinarsi, sempre con una simpatia mista a pietà, alla “gente semplice”, di “periferia”.

 

Non ci soffermeremo sull’impalcatura generale del discorso di Pasolini su Dante, volto ad individuare la presenza del discorso indiretto libero, quanto su certi punti davvero interessanti, che dimostrano una volta di più l’intelligenza, non soltanto linguistica, di Pasolini. In Dante Pasolini nota anzitutto “una immersione e una ‘mimesis’ totale nella psicologia e nelle abitudini sociali dei suoi personaggi”. La sostanziale “proiezione” di natura personale con Dante, la troviamo in certi passaggi emblematici, laddove cioè egli viene a discorrere della “gente semplice di periferia”.

 

“Espressioni come ‘squadrare le fiche’, sottolinea Pasolini, o ‘fare del cul trombetta’, o parole come ‘dindi’, non sono dell’uso personale di Dante: appartengono ad una cerchia linguistica di periferia o a un quartiere malfamato; comunque a gente semplice e plebea, dedita magari alla malavita”.

 

Se non sapessimo che Pasolini sta parlando di Dante e della periferia fiorentina, verrebbe il sospetto che egli stesse parlando di Pasolini e delle periferie romane, dalle quali egli carpiva usi e moduli linguistici tipici della “plebe di Roma”, a cui già il grande Gioacchino Belli aveva eretto, un “monumento” nel profondo dell’800.

 

La “spiegazione” che Pasolini dà di questa “sensibilità” linguistica di Dante rafforza ancor più l’impressione di trovarsi di fronte a una “proiezione” di carattere puramente personale:

 

“Probabilmente, scrive ancora Pasolini, la volontà di usare il volgare gli è nata dalla sua coscienza corporativistica nell’ambito del comune fiorentino; e la volontà a usare le varie sottolingue del volgare, gli è nata dagli archetipi della sua partecipazione diretta e attiva alle complicate lotte politico-sociali della sua città”. Si noterà che Pasolini “spiega” la lingua di Dante più da un versante sociologico che strettamente linguistico-retorico, saltando a pié pari tutti gli studi e le indagini “accademiche” relative all’importanza dello “stile comico” previsto dagli statuti retorici medievali.

 

Per Pasolini, Dante usa il volgare nelle sue varie sfumature più che altro per la sua “partecipazione diretta” alla turbolenta vita politica di Firenze. Insomma, Dante è un intellettuale “impegnato”, come lo stesso Pasolini. Inoltre Dante è un uomo “libero”, nel senso che egli non si sarebbe fatto intrappolare nel “mondo monolitico” degli intellettuali del suo tempo, dimostrando la propria “libertà” anche nell’uso, voluto, del volgare, al posto del latino, universalmente ossequiato ed usato dalla classe dirigente e dal mondo della cultura dei suoi tempi. Anche tanta “indipendenza intellettuale” di Dante assomiglia molto all’indipendenza “corsara” di Pasolini. Anche questo dato evidenzia l’indubbia “proiezione” di Pasolini in Dante, che ai suoi occhi è un uomo libero, impegnato e aperto a prendere in considerazione strati sociali marginali, anche alla letteratura (medievale).

 

La scelta dantesca “contro” il latino “in quanto lingua della cultura” assume toni molto “pasoliniani”. Tornando alle “scelte” plurilinguistiche condotte “in seno al volgare”, ovvero la scelta di un volgare “popolare”, infarcito anche di termini scurrili e plebei, Pasolini sottolineava che Dante, sostanzialmente, “combatteva su due fronti: quello teorico ed ideologico universale dell’opposizione al latino, e quello teorico e ideologico particolare dell’opposizione a una eventuale istituzionalità conformistica del volgare stesso”.

 

E’ evidente che con l’espressione “opposizione a una eventuale istituzionalità conformistica del volgare stesso”, Pasolini, ad un tempo, lodava Dante, e, al tempo stesso, “proiettava” se stesso in Dante, perché anch’egli, come Dante, aveva “aperto” la lingua all’accoglienza del “volgare plebeo”, ad espressioni scurrili che facevano inorridire tutti i benpensanti, che mai e poi mai in un’opera di “alta” letteratura avrebbero pensato d’inserire se non un linguaggio “pulito”, ovvero ciò che Pasolini definisce metaforicamente l’ “istituzionalità conformistica del volgare stesso”. Come si può vedere, l’ “analisi linguistica” di Pasolini si muove su un orizzonte totalmente “sociologico”, negando, “perfidamente” e in piena consapevolezza, tutto ciò che gli studiosi di scuola “accademica” avevano ormai da tempo assodato, ovvero che il plurilinguismo di Dante scaturiva, ed era ampiamente previsto, dalla retorica medievale e dal genere “Comedìa”, che, appunto, prevedevano un’ampia libertà linguistica alla “scrittura comica”. Con impudente irrisione degli studi e degli schemi accademici, Pasolini poi “spiega”, a modo suo, tanta apertura di Dante, oltre che alle “parolacce”, anche a quello che potremmo definire il “lessico sublime” ed elevato, il ‘pulcro’, dice quasi ironicamente Pasolini, che pure costituisce una buona fetta del lessico dantesco, a mano a mano che egli s’allontanava dall’ “Inferno” per accedere a luoghi più verecondi e salvifici, rispettivamente il “Purgatorio” e il “Paradiso”.

 

Sì, certo. Pasolini mostra la più assoluta deferenza e ammirazione per lo “splendido saggio” di Gianfranco Contini, il quale aveva spiegato il plurilinguismo di Dante come una “funzione” della letteratura italiana, con uno “spostamento tomistico e trascendente del ‘punto di vista’ in alto, così da allargare l’orizzonte lessicale, in una compresenza panoramica dei suoi casi limite (mettiamo, sul versante colto, per una specie di ri-romanizzazione stilistica, ‘pulcro’, tutte le ‘parolacce’ sul versante plebeo”. Tutto questo, chiosa ancora Pasolini, “certo è vero”, ma …

 

Quel “ma” lì non è di poco conto, perché Pasolini-Dante ha tutta una sua teoria sull’argomento. Infatti, poco dopo egli aggiunge:

 

“ Ma la spiegazione continiana […] va puntigliosamente integrata col tener sempre presente il concreto oggetto di quel punto di vista: ossia una società che ormai richiedeva impetuosamente, a chi la vivesse, una ‘coscienza sociale’, senza la quale l’allargamento plurilinguistico non sarebbe stato che meramente numerico, oppure meramente espressivo”. Sarebbe stato, dice Pasolini, un fatto “puramente letterario”, senza ulteriori implicazioni sociali, che invece c’erano. Eccome se c’erano:
“Invece no: il punto di vista era doppio, e contraddittorio: al punto di vista dall’alto, corrispondeva un punto di osservazione dal basso, a livello della più contingente e meno trascendente qualità terrena delle cose”.

 

In definitiva, Pasolini negava “recisamente” che il plurilinguismo dantesco fosse nato per una semplice osservanza dei canoni retorici medievali, ma in quell’azione di Dante “verso il basso”, Pasolini vedeva essenzialmente il calarsi di Dante-Pasolini “dentro” la “qualità terrena delle cose”, perché la società dei tempi di Dante ( e quella di Pasolini) “richiedeva impetuosamente” una nuova “coscienza sociale”, tale da far emergere dalle nebbie della storia, sia pure attraverso il “plurilinguismo delle parolacce”, quella plebe che altrimenti non sarebbe mai emersa. Nella sua “proiezione” dantesca, Pasolini “caricò” Dante d’un fardello enorme, il suo stesso fardello di intellettuale impegnato dentro una società che “richiedeva impetuosamente” una più forte “coscienza sociale”.

 

Che tutto questo discorso implichi una netta “proiezione” di Pasolini in Dante, lo si arguisce anche dal fatto che egli chiama Dante “il mio Dante”, concludendo il suo lungo discorso con un “finale” che ha il sapore più del poeta che del critico letterario:

 

“Io non so dire se il mio Dante è quello che dall’alto di un cielo tomistico mutua ai suoi lettori uno sguardo immenso e comprensivo al mondo, o è quello che, per i vicoli dei comuni e per i calanchi dell’Appennino, osserva analiticamente il mondo caso per caso”.

 

La “visione” di un Dante che si aggira “tra i vicoli dei comuni” e s’inerpica sui “calanchi dell’Appennino” è d’una straordinaria poeticità, che ci fa capire una volta di più che Pasolini vide in Dante qualcosa di se stesso, perché anch’egli s’avventurava spesso per i vicoli della periferia romana per scoprire la “qualità terrena delle cose” (1).

 

Concludiamo con un’ultima osservazione. Come abbiamo cercato di dire, il Dante di Pasolini è, essenzialmente, una “proiezione poetica” del suo modo di sentire la letteratura, la lingua e la vita. Sottolineo questo dato perché, sul versante accademico, qualcuno s’adombrò fieramente degli assunti di Pasolini, e ne nacquero polemiche. Il che non doveva essere, semplicemente perché Pasolini stava parlando sì di Dante, ma soprattutto di se stesso. Il titolo del saggio di Pasolini è “La volontà di Dante a essere poeta”: la “volontà”, più che quella di Dante, era la sua, che “in quel modo” volle sentirsi ed essere poeta, il poeta della “qualità terrena delle cose”.

Nota

 

1) P.P. Pasolini, “La volontà di Dante a essere poeta”, in “Empirismo eretico”, Milano, Garzanti, 1972, pp. 108-111.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.