Publilio Siro e la brache dei Parti

Mimo

 

 

 

 

 

Analisi filologica dei quattro “fragmenta” di Publilio Siro

 

 

Publilio Siro (Publilius Syrus), I secolo a. C., era così detto perché originario di Antiochia, in Siria. Fu un liberto, e, insieme con Decimo Laberio, uno fra i maggiori mimi dell’età di Cesare. Il mimo, di origine greca, era caratterizzato da un fortissimo realismo, che si traduceva in un linguaggio spesso scurrile. Nonostante Publilio fosse stato un interprete di spicco del mimo romano, nonché, a quanto pare, un vero e proprio “capocomico” con una sua compagnia, per la quale componeva i testi da recitarsi, in pratica della sua opera di mimo non ci è rimasto pressoché nulla, a parte quattro frammenti. Al contrario, i suoi  circa 700 proverbi sono tuttora notissimi e molto divulgati.  Si propongono in questa sede i quattro frammenti  di cui si parlava poc’anzi, sicuramente meno conosciuti delle “Sententiae”, delle quali abbiamo anche oggi, come si diceva, ampia testimonianza, anche se non si è  certi che appartenessero del tutto alla sua produzione letteraria.

 

Il primo frammento, trasmessoci da Prisciano ( 10.42 ), porta il titolo di “Murmurco” (“il brontolone?”. Congettura del Ribbeck):

 

“ … Cellas servorum converri…”.

 

Si potrebbe tradurre con “ Pulisti (spazzasti) le camere degli schiavi…”. La frase potrebbe essere interrogativa, e magari rivolta dal padrone al servo che doveva appunto pulire le camere degli schiavi. L’assenza di un qualsiasi contesto rende comunque del tutto opinabile ogni interpretazione (“ex incertis fabulis”, Ribbeck”).

Ecco il commento del Ribbeck: “… Murmurco”. Thesaur. Nov. Lat. In A. Mai auct. Class. VIII 302 ‘ mumurcones’ (‘murmurones’, Hildebrandus gloss. Par. p. 214),  ‘murmuratores mugissores, mussitatores’. (Placidus CGl V 33 G. ‘murgissor, irrisor lusor.’ P. 85: ‘murgiso, callidus murmurator.’ Cf. ibid. IV 260. 366. 539 V 312 ‘murgisso’) Gloss. Vat. CGl IV 117 G. ‘mirmidones, dolosi.’

 

Céllas servorùm converri…

 

Priscianus p. 900 P. ‘ verro enim secundum Servium ‘versi’ facit, secundum Charisium ‘verri’, quod et usus comprobat… Publius in Murmunthone: cellas a. c.’ (puplius Sang. Carolir. muromunthone Halb. Barb., om. Sang. Muromuntone Carolir. moro muntone Grut. muro muntone Bong. Muromonthones, corr. Mauromonthones, Bamb. Murmurithone Reg. murmunthone Zwicc. a Dormat Krehlii. Mimo Mutone Niebuhrius in margine exemplaris sui. Moro mentone vel Mirmidone Hertzius Mirmillone Bernhardy. Cogitavi ipse olim de Muto Mutuno vel Muro Mutuni vel Murco mutone.) Hesychius: ‘ mùrkos o katòlon rè dunàmenos lalein. Surakoùsioi eneòs àphonos’. Cf. murikàs’. ( Ribbeck, p. 368).

 

Il secondo frammento, “Putatores”, suona così:

 

“… Progredere et ne quis latibuletur, prospice…” (Nonius, 133, 7 ).

 

Una possibile traduzione potrebbe essere : “ Vai avanti, e guarda bene se c’è qualcuno nascosto…”.

 

La richiesta potrebbe venire dal padrone nei confronti di un servo, oppure potrebbe essere la richiesta di un servo a un altro servo, o ancora la richiesta di un qualche personaggio indeterminato, servo o libero, rivolta a un amico, un conoscente, ecc. Anche qui, l’assenza del contesto (“ex incertis fabulis”, Ribbeck) rende improba una qualsivoglia interpretazione.

Il commento del Ribbeck:

“… Progrédere et ne quis làtibuletur, pròspice…”. Nonius, 133, 7. ‘ latibulet et latibuletur pro lateat. Nevius Erotopaegnion… Publilii putatoribus:  progredere’ e. q. s. (Publilius ed. a. 1476).

‘ Praegredere’ Quicheratius. ‘Prospice’ P1? Urbin. 307 ‘perspice’ φ.”. (Ribbeck, p. 368).

Come si può notare, il Ribbeck accetta la lezione “progredere” e “prospice”. Però osserva che altri due codici danno “praegredere” e “perspice”. Accettando per via ipotetica le lezioni alternative, il frammento suonerebbe così:

“… Praegredere et ne quis latibuletur, perspice…”. Il significato, grosso modo, non cambierebbe di molto: “… Cammina davanti e osserva attentamente che non ci sia qualcuno nascosto”. C’è forse una maggiore richiesta di attenzione nell’osservazione.

 

 

Il terzo frammento è il più lungo di quelli rimastici dei mimi di Publilio. Ci è stato conservato nel Romanzo di Petronio ( cap. 55 ) ed è recitato dallo stesso Trimalcione, il quale osserva precedentemente che egli trova certamente eloquente Cicerone, però Publilio molto più “morale”. Pur essendo l’unico frammento di una certa consistenza attribuito a Publilio Siro, il Terzaghi non lo ritiene originale, considerandolo una vera e propria “invenzione” di Trimalcione. Il frammento suona, secondo l’edizione oggi accettata di Müller-Ehlers:

 

“… Luxuriae rictu Martis marcent moenia

Tuo palato clausus pavo pascitur

Plumato amictus aureo Babylonico,

Gallina tibi Numidica, tibi gallus spado;

Ciconia etiam, grata peregrina hospita

Pietaticultrix gracilipes crotalistria,

Avis exul hiemis, titulus tepidi temporis,

nequitiae nidum in caccabo fecìt tuae’

Quo margaritam caram tibi, bacam Indicam

An ut matrona ornata phaleriis pelagiis

Tollat pedes indomita in strato extraneo?

Zmaragdum ad quam rem viridem, pretiosum vitrum?

Quo Carchedonios optas ignes lapideos?

Nisi ut scintillet probitas e carbunculis.

Aequum est induere nuptam ventum textilem,

Palam prostare nudam in nebula linea?…”(1).

 

Nicola Terzaghi ha tradotto il passo così:

 

“… Il lusso affoga la città di Romolo./ A te il pavone ora la gola stimola/ grasso, con penne d’oro babilonico./ A te il cappone e il pollo di Numidia,/ a te fin la cicogna, amabil’ospite,/ smilza, religiosa, errante, stridula,/ che i ghiacci lascia e i miti aprili annunzia/, fa il ghiotto nido dentro la tua pentola./ A che la perla a te cara è dell’India?/ perché matrona di gioielli fulgida/ salga con gamba audace il letto adultero?/ A che il verde smeraldo e la gemma inclita,/ a che i rubini ardenti di Carchédone,/ se non vi brilla il fior di pudicizia?/ S’addice a sposa in un tessuto aureo/ mostrarsi ignuda dietro a un fil di nebbia…”.

 

Fin qui la traduzione poetica di Terzaghi, che, però, è  un po’ troppo solenne e paludata e forse, alla fine, lievemente criptica, e, in definitiva, per taluni pressoché incomprensibile. In realtà,  tenuto conto che siamo di fronte a un “mimo”, esso andrebbe proposto in un linguaggio sicuramente più popolaresco, e anche scurrile alla bisogna. Provo un esperimento, usando la lingua sboccata degli antichi mimi “de Roma”, che tanto piacevano al popolo, che apprezzava più il motto salace e la battuta spinta  che la lingua elegante:

 

“… Statemi attenti! Le mura de Roma guerriera stan quasi per terra, perché son  marce alle radici per il lusso sfrenato dei Romani.

Per te, e per il tuo raffinato palato,  sono allevati pavoni di Babilonia con  penne dorate, capponi e galline di Numidia.

Mi dicono che anche la cicogna, poveraccia, sempre piena di freddo e da sempre  abituata agli spazi aperti, ha fatto il nido  nel tuo pentolone.

Mi sussurrano anche all’orecchio che ti piacciono un sacco le perle dell’India.  E che te ne fai? Ah, sì, ho capito:  forse te servono a “convincere” ‘na qualche “matrona” de Roma un po’-tanto mignotta a venire a letto con te?

E ditemi un po’ voi, “matrone” de Roma! Forse che a mettervi addosso smeraldi e  rubini vi fa sentire più oneste?

Beh, son proprio finiti i bei tempi antichi, quando le matrone erano veramente  “matrone”, e l’amore si faceva al buio…”.

 

 

Bene. Come si diceva sopra, il Terzaghi a altri (Bendz, 1941) ritengono spuri i versi recitati da Trimalcione. Il dibattito è del tutto aperto, però vi sono stati nel passato recensori che con buoni argomenti linguistici sostennero l’autenticità dei versi, attribuendoli senz’altro a Publilio Siro.

 

Così il Lemaire ( “Poetae latini minores…”, Parisiis, 1824, vol. II, p. 121, nota 1), a proposito di “rictu”, scrive: “ … ‘rictu’ … vult enim significare quasi gulae voraginem omnia devorantem, qualis est bestiae voracis … Durum est vocabulum et enormis metaphora, se apta mimorum et Satiricorum stylo, cuius generis plura hoc in Publii fragmento observantur…” [ “Rictu” starebbe più o meno ad indicare una gola insaziabile, che trangugia di tutto, come una bestia vorace […] E’ un termine veramente rozzo, e al tempo stesso una gigantesca metafora, ma che ben s’adatta al mimo e allo stile satirico, e parole di questo tipo le troviamo spesso nel frammento di Publilio Siro].

 

Ora, è proprio questa precisa conoscenza della lingua “tecnica” del mimo che ha fatto ragionevolmente pensare parte della critica ( Sullivan, 1968; Sandy, 1976) che effettivamente  i versi recitati da Trimalcione non fossero un’invenzione, bensì appartenessero a Publilio Siro.

 

 

Il quarto frammento è il seguente (Isid. “Orig.”, 19, 23, 2 ):

 

“… Quid érgo in ventre parti sarabaras tuo/ Suspénderit?…”.

 

Il frammento, così com’è stato scritto e tramandato, è praticamente privo di un qualsiasi senso. Il dotto commento del Ribbeck ci regala però preziosi spunti interpretativi, offrendo un ventaglio di lezioni da cui poter eventualmente pescare quella più adatta al contesto in esame:

 

“… Isidorus Orig. XIX 23 ‘ sarabarae sunt fluxa ac sinuosa vestimenta de quibus legitur in Daniele… et Publius: ut quid’e.q.s… σαράβαρα … Persae utebantur: Anthifanes in Scythis apud Poll. 7, 59. 10. 168. Ergo apud Syrum quoque Persae nescio cuius bracae rideri videntur…”.

 

Anzitutto Ribbeck rileva che le “sarabarae” erano vesti di cui si legge in Daniele. Quindi che erano usate presso i Persiani; e che erano in pratica delle brache tutto sommato ridicole usate dai Persiani stessi. Poi continua facendoci capire che quel “parti”, buttato lì alla brava, indicava invece “il popolo dei Parti” (lat. “Parthi”), il che aiuta parecchio l’esegesi. Vediamo adesso l’apparato critico approntato da Ribbeck:

 

“… ut quid ω: delevi ut corruptum fort. Ex ait: ‘in ventre parti sarabaras tuo’ scripsi ‘ in ventre tuo parti ( “parthi” Wolfenb. “parthis” Mon.) ‘sarabara’ Wolfenb. Germ. German. Duo parthi in ventre tuo sarabaras suas Gu. 1 in ventre tuo parthi sarabaras suas Gu.2. 3 2 ‘suspenderit’ scripsi ‘suspenderint’ Ger. 1 et i ‘suppuncta’ Germ.2 ‘suspenderunt’ φ quid ergo? In ventre Parthi ( vel Parthi in u.) sarabaras tuo suspenderant…” ( Ribbeck, p.370 ).

 

Tenendo conto delle varie lezioni di cui il Ribbeck ci ha, per fortuna, generosamente forniti, forse il verso potrebbe essere “sistemato” in questo modo:

 

“ Quid ergo? In ventre Parthi sarabaras suas tuo, suspenderint?”. E cioè:

 

“ E che dunque? I Parti forse sarebbero riusciti a farti indossare le loro ridicole brache?”.

 

Cosa avrà mai voluto dire Publilio Siro con un’espressione del genere?

 

“Forse che i Parti ti hanno convinto a vestire i loro pantaloni?”.

 

Alla lettera: “E che, dunque? I Parti sarebbero riusciti a vestire il tuo ventre con le loro ridicole brache chiamate ‘sarabaras’”?

 

E’ evidentemente che tutta questa faccenda delle “brache”-“sarabaras” è una  metafora, che, però, con un po’ di fortuna, si riesce a sciogliere. E’ noto che i Parti, oltre che abilissimi cavalieri ( di qui le ampie brache di cui facevano largo uso ), erano noti come gli uomini più bugiardi e mentitori dell’intero orbe terracqueo. Quasi sicuramente la frase vuole dire ironicamente che quel tizio, a cui i Parti erano riusciti a fare indossare le loro brache, altri non era se non un emerito bugiardo, cioè a dire:

 

“Sei falso e bugiardo come i Parti, che, bello mio!, sono riusciti a farti indossare le loro brache”: a farti cioè adottare uno dei loro peggiori difetti, la menzogna.

 

 

 

Note.

 

 

1)         L’edizione Müller-Ehlers, [“Petronii Satirica”, Munich, 1965], su cui Terzaghi ha fatto la sua traduzione, si scosta da quella del Ribbeck, che presenta uno spostamento di versi, a partire dal decimo e qualche variante:

 

“… Luxùriae rictu Màrtis marcent moénia

Tuò palato claùsus pavo pàscitur

Plumàto amictus aùreo Babylònico,

Gallìna tibi Numìdica, tibi gallùs spado;

Cicònia etiam, gràta peregrina hòspita

Pietàticultrix gràcilipes crotalìstria,

Avis éxul hiemis, tìtulus tepidi témporis,

nequìtiae nidum in càccabo fecìt modo [ ‘tuae’ in Müller-Ehlers]

Quo màrgaritam càram tibi, bacam ‘Indicam?

Smaràgdum ad quam rem vìridem, pretiosùm vitrum

Quo Càrchedonios òptas ignes làpideos,

Nisi ùt scintilles [‘scintillet’ ed. Müller-Ehlers ]? pròbitas est carbùnculus [is].

An ùt matrona ornàta phaleriis pélagiis

Tollàt pedes indòmita in strato extràneo?

Aequum ést induere nùptam ventum téxtilem,

Palàm prostare nùdam in nebula lìnea?…”.

 

I testi in “Publilius Syrus”, in “ Scaenicae Romanorum Poesis fragmanta”, Tertiis curis, Recognovit Otto Ribbeck, Volumen II. “Comicorum fragmenta”, Lipsiae, in Aedibus B. G. Teubneri, MDCCCXXXXVIII. Il testo del terzo frammento, quello di Trimalcione, si può leggere anche in C. Giussani, “Letteratura romana”, Milano, Vallardi, 1899, p. 60. La traduzione di N. Terzaghi in “Petronio. Il romanzo satirico”, in “Il romanzo antico greco e latino”, Firenze, Sansoni, 1973,pp. 958-959. Per i dubbi di Terzaghi circa l’autenticità del frammento, V.  p.1397, e la nota 1 relativa alla p. 959.

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.