Rifiuto della letteratura e letteratura del rifiuto: una via verso il nulla?

Leggendo “Che fare della letteratura?”, apparso su Quaderni Piacentini nell’ormai antidiluviano 1974, si resta ad un tempo ammirati e sconcertati dalla sapienza con cui G. Majorino affrontò, dal punto di vista marxista, “tutta” la letteratura “borghese” del mondo occidentale. Non ci vuole un’aquila per capire come Majorino, in via preliminare “rifiutava” i meccanismi della letteratura (borghese) in sé. Il rifiuto si sente sulla pelle: deriva da una profonda angoscia e dal disgusto nell’annotare “scientificamente”, come si muove il mondo della letteratura, fatto di compromessi, di furbate all’italiana, che, alla fine, risultano davvero stomachevoli per chiunque abbia occhi per vedere.

 

“Tutti gli strumenti (dalla gestione dell’informazione al linguaggio della critica critica)  appartengono alla classe dominante” (p. 137).

 

Dentro l’istituzione letteraria, si muovono marionette e burattini che si scalciano l’uno con l’altro sul gran teatrino della letteratura per avere un posto in una rubrica, o per ottenere un “marrone” (una cattedra universitaria). Anche la “profondità”, o  quel  che noi supponiamo essere “profondità” in scrittori come Kafka, nonché nei suoi “critici”,   alla fine si rivela un nulla, almeno a sentire Brecht, per il quale, più si va in profondità, più si rischia di non vedere più nulla, un bel niente di niente.

 

Anche la lingua  della letteratura è sub iudice: è una lingua che “serve” a qualcuno per “separarsi” dai più; la lingua della letteratura crea dunque mondi separati, “chiusure” senza sviluppi verso tutti quelli che non appartengono alla tribù: praticamente, il 90 per cento della popolazione italiana. Majorino, dopo aver quindi “smascherato” i retroscena che si svolgono occultamente sullo sfondo di ciò che noi definiamo letteratura, si chiede se sia mai possibile una letteratura “altra”, fatta cioè per quanti appartengono, come lui dice, al “proletariato”.

 

È quindi possibile passare dal rifiuto letteratura (borghese) ad una letteratura del rifiuto, ovvero ad una letteratura “proletaria”? L’avanguardia ha fallito: non soltanto perché la sua “profondità” è palesemente e “proletariamente” inaccessibile: e inaccessibile lo è anche spesso e volentieri nell’universo borghese; ma ha fallito anche perché essa non rifiuta il mercato e il suo concetto.  I “neoavanguardisti” “simulano” il rifiuto del “grande” mercato editoriale, e poi si adattano al “piccolo” mercato rionale dove espongono le loro opere sulle bancherelle. Ma, grande o piccolo che sia,  il mercato è mercato, e il loro scopo, dice Majorino, è uno soltanto: “vendere” e “vendersi”.

 

Allora potremmo dire, ex post, che una letteratura “proletaria” potrebbe essere oggi intravista in certa letteratura degli scorsi decenni,   con i bestseller dalla “lingua piatta”: potremmo quasi dire: “proletaria”?. Ma anche qui il bersaglio è clamorosamente mancato, perché, anzitutto, è ancora e sempre una letteratura dell’ “io” (separato) e non del “noi” (inclusivo e proletario). Per di più, la letteratura dalla “lingua piatta” non sfugge anch’essa  alla regola ferrea del mercato.  Ergo,  anche la “letteratura piatta” viene a poco a poco assorbita dentro, guarda un po’, non il mercatino rionale neoavanguardista, ma addirittura nel grande mercato borghese, dove l’imperativo categorico è ancora e sempre “vendere”.

 

E allora se nulla fino ad allora (1974), e fino ad  ora (oggi) è riuscito a dar vita a una letteratura proletaria del “noi”, o comunque ad una letteratura “altra” che rompa per sempre dietro di sé i ponti con la “tradizione” borghese, vien da chiedersi se mai possa esistere una letteratura “altra”, che butti a mare l’ “io” per far posto al “noi”,  sussurrandoci cose meravigliose in una lingua “altra”: una lingua del “noi”, pura, senza sovrastrutture ideologiche, storiche, politiche o che so io. Avremo mai per le mani una simile letteratura? Avremo mai, per concludere  con Majorino, finalmente!, una “letteratura spostata”?

 

Non voglio esprimermi in siffatta delicata materia.  Elogio ed ammiro la straordinaria capacità dialettica di G. Majorino, e credo anche di poter concordare con lui sul fatto che i suoi fossero “discorsi straripanti”. E  pur correndo il rischio (sicuro) di passare per un bieco “borghese”, ricolmo e letteralmente “strozzato” dalle “sovrastrutture”, ritengo che quelle acque “straripanti”, a poco a poco, abbiano trovato un bacino di quiescenza da perdersi, alla fine, nel nulla.

 

Nota

G. Majorino, “Che fare della letteratura?”, in Quaderni Piacentini, giugno 1974, n. 52, pp. 137-149.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.