Scrittori dimenticati: Paolo Monelli e gli scarponi degli alpini

 

Tra le tante e tante testimonianze sugli alpini, sulla loro abnegazione e semplicità nel corso della prima guerra mondiale, un cantuccio di tutto riguardo deve essere riservato al libro di Paolo Monelli, Le scarpe al sole. Il titolo, spiegava lo stesso Monelli, si riferisce agli alpini caduti in battaglia: “Nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole significa morire in combattimento”.

 

Il romanzo-diario di Monelli racconta le vicende della guerra in montagna, gli assalti, gli agguati,  ma anche altri eventi che egli seppe descrivere con una partecipazione umana tesa e coinvolgente. Propongo alcune  pagine:

 

Due disertori

 

Due carabinieri hanno condotto su stanotte da Enego i due alpini condannati alla fucilazione perché un giorno dell’Ortigara, usciti dalla battaglia per una corvè, non vi erano poi più rientrati. Toccano all’aiutante maggiore i compiti più odiosi, persuadere i due che sono vane le speranze che hanno portato trepidamente con sé per tutta la strada (i carabinieri, buoni diavoli, non avevano core di disilluderli) ; e mandare a chiamare prete e medico; e tirar fuori il plotone d’esecuzione; e intanto far chiudere in una baracca questi due morituri così diversi da quelli che buttiamo fuori della trincea i giorni di battaglia — che appena si son ritrovati con il loro battaglione hanno urlato, pianto, chiamata la famiglia lontana, implorato pietà e perdono.

— Andaremo de pattuglia tute le sere, sior tenente…

 

E quando hanno intuito che nessuna forza umana poteva loro ridare la vita, non hanno più detto una parola, hanno solo continuato a piangere lamentosamente.

 

Il  plotone d’esecuzione s’allinea, sbigottito, occhi atoni sull’ aiutante maggiore che con voce che vuole dunque far suonare aspra spiega la necessità di mirar bene per abbreviare l’agonia a gente irrimediabilmente condannata. Nel plotone ci sono amici, paesani, forse anche parenti dei due condannati. Commenti sommessi nell’allineamento. Silenzio — grida l’aiutante . È arrivato il prete, tremante, atterrito; c’è anche il medico, si marcia ad una piccola radura sinistra ne! bosco, ai primi lucori dell’alba.

 

Ecco il primo condannato.

 

Un pianto senza lacrime, quasi un rantolo, esce dalla gola serrata. Non una parola. Occhi senza espressione più, sul volto solo il terrore ebete della bestia al macello. Condotto presso un abete, non si regge sulle gambe, s’accascia: bisogna legarlo con un filo telefonico al tronco. Il prete, livido, se lo abbraccia. Intanto, il plotone s’è schierato su due righe: la prima riga deve sparare. L’aiutante maggiore ha già spiegato: io faccio un cenno con la mano, e allora fuoco.

 

Ecco il cenno. I soldati non sparano

 

I soldati guardano l’ufficiale, il condannato bendato, e non sparano. Nuovo cenno. I soldati non sparano. Il tenente batte nervosamente le mani. Sparano. Ed ecco il corpo investito dalla raffica si piega scivolando un poco lungo il tronco dell’albero, mezza la testa asportata. Con un’occhiata, il medico sbriga la formalità dell’accertamento.

 

Siamo al secondo — questo scende calmo, quasi sorridente, con appesa al collo una corona benedetta. Dice come estasiato: — El xe justo. Vardè voialtri de rigar drito, no stè a far come che go fato mi [E’ giusto così. E voi cercate di rigar dritto, e non fate quello che ho fatto io].

 

Tocca a sparare a quelli della seconda riga

 

Tocca a sparare a quelli della seconda riga: ma questi tentano dì sottrarsene, affermando di avere già sparato, la prima volta. L’aiutante maggiore taglia corto, minaccia, parole grosse. Il plotone si riordina. Un cenno, la scarica. È finito.

 

Il plotone d’esecuzione — raccapriccio, angoscia su tutti i volti — rompe i ranghi, rientra lento.

 

Per tutto il giorno, un gran discorrere

 

Per tutto il giorno, un gran discorrere a bassa voce nelle baracche, un senso di depressione enorme nel battaglione. La giustizia degli uomini è fatta. Questioni, dubbi s’affacciano alla mente riluttante e li respingiamo con terrore perché contaminano troppo alti principi: quelli che accettiamo ad occhi chiusi come una fede per timore di sentir fatto più duro il nostro dovere di soldati.

 

Patria, necessità, disciplina — un articolo del codice, parole che non sapevamo che cosa volessero veramente dire, solo un suono per noi, morte con la fucilazione, eccole chiare comprensive dinanzi allo sgagliardimento della nostra mente.

 

Ma quei signori laggiù a Enego, no, non sono venuti qui a veder riempirsi di polpa le parole della loro sentenza. Comandanti di grosso carreggio, comandanti di quartier generale, colonnelli della riserva, ufficiali dei carabinieri: ecco il Tribunale.

 

Il Tribunale è ricusato per incompetenza

 

Ricusato per incompetenza. Solo chi uscì vivo dalla maciulla del combattimento, solo chi strisciò all’attacco e sbiancò d’orrore sotto il bombardamento e pregò di morire nella notte di battaglia premuto dal freddo e dalla fame — solo quello sarebbe il giudice competente, e darebbe sì forse anch’egli la morte, ma sapendo che cosa vuol dire. Non quelli laggiù, cimiterini col robbio, barba fatta, letto con lenzuola pulite e la guerra ricordo dei manuali di scuola e il codice penale edizione commentata lontano dallo spasimo della prima linea.

 

E col mio tribunale, forse nemmeno quello che diceva ‘el xe justo’ sarebbe stato fucilato.

 

Una licenza negata e una fai da te

 

Ma lassù circolari circolarette cincolarone ; prospetti e specchi (anche se negativi tracciare tutte le colonnine per bene) ; tutto in triplice copia ; moltiplicarsi dei rapporti gerarchici ; arenarsi delle pratiche  (lucus a non lucendo) per una formula errata, per una intestazione omessa, per una firma di facente funzione che è giudicata incompetente.

 

E tu, povero Tonòn, credevi che presentando il telegramma con la notizia della malattia grave di tua madre ti avrebbero concessa la licenza! La pratica errò di tavolino in scaffale per quattro giorni; dopo il quarto giorno ritornò opima di attergati e con questa conclusiva peregrina annotazione : poiché sono trascorsi ormai sei giorni dalla data del telegramma, si presume che la madre del nominato Tonòn sia fuori pericolo, o sia morta: ma in quest’ultimo caso si deve dimostrare che pendono per il soldato Tonòn gravi interessi patrimoniali; nell’un caso e nell’altro quindi allo stato delle carte non si concede la licenza.

 

Poiché la mia compagnia è la più povera d’uomini, il maggiore me la rimpolpa con tutti i condannati che mandano al battaglione con pena sospesa. Oggi me n’ arriva uno che viene dal battaglione Feltre, bel tipo, vecchio del novantuno, sciatore scelto, ciarlone e confidenziale. Il suo delitto? Diserzione all’interno: in lingua povera, gli avevano promessa una licenza se andava di pattuglia in un certo posto, in quel certo posto c’è andato, la licenza non è venuta, se l’è presa da sé.

 

Inutile persuaderlo che ha fatto male. Guarda con occhi chiari, dice: — Gavevo dirito a la licensa, sior capitano, me la go tolta da par mi.

 

Dirgli che è un atto da cattivo soldato?

 

— Mi, sacramento, che son sempre sta el primo in tute le pattulie che gavemo fate al Feltre col Caìmi quando che se gera drento per la Valsugana?

 

Ma quattro anni gli ha buscati lo stesso. L’ho preso senza spaventarmene, come ho preso gli altri, condannati più o meno per gli stessi reati: sono scappati a trovar la moglie ‘che la gera drio a far zaino a tera’ a partorire, cioè.

 

La prigionia

 

Ma poiché non si mangia e non si beve da quarantotto ore, e non ci sono più cartucce, e siamo pochi, il destino chiude l’atto. Cala il sipario.

 

Melanconico corteo verso le retrovie nemiche. La fame atroce sovrasta beneficamente al dolore. A buio, ci mischiano con un’orda enorme di altri prigionieri; fra quelli, quanti sono che alzaron le mani senza combattimento? Le bestiali necessità del cibo e del riposo superano ogni senso di dignità; già soldati si scrollano di dosso il fardello della disciplina, gettano contro l’ufficiale il loro odio, il loro rancore, la sodisfazione [sic] d’esser prigionieri.

 

Mezza scatoletta di carne a mezzanotte per viatico sufficiente per il domani. Continua la marcia fra le povere retrovie nemiche: drappelli di territoriali emaciati, allampanati, sbrindellati — ci sono gobbi, c’è un nano ripugnante, ride con tutti i denti allo spettacolo che gli diamo —carrettelle sgangherate, carogne di muli, a cui soldati famelici rubano la bistecca.

 

A Portule, dinanzi alla fontana, scene di pigia pigia, un pugno nello stomaco dal soldato, provati a rimproverarlo, risponde che disciplina è roba che andava bene di là, parapiglia da trivio e da bordello: e al passaggio tronfio, ilare, l’austriaco obeso dinanzi alla turba informe dei prigionieri, uniformi lacere, senza fregi, teste nude perché troppo pesante l’elmetto, stellette barattate per una fetta di pane, mostrine strappate al momento della resa,  stellette barattate per una fetta di pane, mostrine strappate al momento della resa.

 

Fame. Stamane alla partenza un pugno di gallettine e una tazza idi caffè -surrogato ; alla tappa — un malinconico pascolo, baracche fra alberi densi, fumare della sera fredda da quinte oscure di monti — un po’ di brodaglia al sego e un velo di pane.

 

Si dorme nella baracchetta pidocchiosa — poi il giorno dopo, alba di fame, e marcia, ancora, dell’orda sgangherata, vigliaccherie ed insofferenze, la disciplina scomparsa, solo un’ansia di cibo e di riposo. Alle due del pomeriggio in fila, come mendicanti alla porta del convento, per ricevere un po’ d’acqua nera e tepida e un quarto di pagnotta, il sottotenente davanti a te ha i tuoi stessi diritti, ma lui se ne prevale, provoca con ostentazione e chiede l’approvazione dell’austriaco, questi interviene con superiore degnazione a far giustizia —  è così forte l’umiliazione e la vergogna che i morti lassù sulla montagna contrastata sono ripensati con accorata invidia.

 

Il solito giaciglio alla sera a Caldonazzo, cameroni luridi, gelidi, pidocchiosi  — senza cibo.

 

La fame accende gli occhi, snoda le lingue a discorsi incoerenti. Rinchiusi nel casone sporco, ci si sperde per i cortili in cerca di insperato: un orologio barattato per mezza pagnotta pare un affare d’oro, recriminazioni perché il barattante non ha più pane da cedere a quel cambio. Poi ci danno il caffè, e più tardi una mezza pagnotta nera e fetida, che arresta istantaneamente il coraggio di mangiarla quando i primi bocconi hanno quietato un poco la brama.

 

E dà nuovo in marcia. Gli austriaci ci incitano a camminar rapidi per giungere a Trento con la luce. Più presto arrivate, più presto mangiate. Ma no, non avremo Tonta di traversar la città sacra di giorno, di portar questa abbiezione sciagurata fra ili dolore e l’ardore dei nostri fratelli trentini. A buio v’entreremo, occhi aridi nella speranza di non vedere in quelli dello spettatore il rimprovero, o la domanda angosciosa a cui non si saprebbe rispondere che con un singhiozzo. E trasciniamo lenti le gambe stanche, affrettando nel desiderio l’oscurità (Paolo Monelli, Le scarpe al sole).

 

La nota biografica che precede la traduzione inglese di Scarpe al sole, Toes Up, ci dice che Paolo Monelli era nato a Fiorano di Modena nel 1891. Avvocato e poi ufficiale degli alpini, fu promosso capitano per meriti di guerra; fu insignito di ben quattro medaglie al valore e della Croce al merito di guerra. Subì la prigionia per un anno. Dopo la guerra fu incaricato di varie missioni diplomatico-militari a Vienna, a Praga, a Cracovia,  ed in altre città europee. Dal 1920 Monelli si fece notare come giornalista, lavorando come inviato speciale della Stampa a Berlino (Toes Up, by Paolo Monelli).

 

Nella Prefazione, Paolo Monelli pose l’accento sul fatto che a distanza di tanti lustri d’aver voluto nulla cambiare di quel suo “piccolo volume”, per non fare come chi “erige monumenti funerari pomposi mentre distrugge i rudi e severi  cimiteri  ai piedi dei dirupi”.  Guardando talvolta ai suoi vecchi scarponi tenuti sempre ben puliti ed oliati, la mente di Monelli correva rapida e commossa agli scarponi dei suoi soldati caduti in battaglia, che gli sembravano vagare ancora e sempre tra forre e burroni.

 

L’immagine è bella, com’è bello il libro (Author’s Preface).

 

Fonti:

 

Paolo Monelli, Le scarpe al sole, Bologna, L. Cappelli Editore, 1921, p. 7,  pp. 153-156, p. 160, pp. 165-166, p. 188, pp. 189-191.

 

Toes Up, by Paolo Monelli, Translated by Orlo Williams, New York, Harcourt, Brace and Company, 1928, p. X.

 

Author’s Preface, p. 202.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.