Scrittori dimenticati. Vittorio Locchi e la conquista della città santa

Vittorio Locchi fu un poeta. Abbiamo di lui varie raccolte, ma forse vale la pena soffermarsi sul suo poema di guerra, La sagra di Santa Gorizia. La guerra sul Carso e sull’Isonzo fu evocata da par suo da Ungaretti,  ma Vittorio Locchi non fu meno potente. Il suo poema  non è meno duro e scabro, anzi, è persino più intrigante delle poesie di Ungaretti. Anche per Locchi è necessario sottolineare un ardente amor di patria, una partecipazione sofferta oltre ogni limite ai sacrifici cui erano sottoposti i soldati, ma la spinta patriottica emerge su tutto: le terre irredente debbono tornare entro le mura patrie. Questo è l’assoluto, per Locchi. Di fronte all’immane sacrificio di vite umane, Locchi allontana da sé coloro che nella sua poesia presumessero di trovare l’arte; al contrario, le parole del poeta, definite Amore mio, devono sgorgare umili e sole, semplici e disadorne:

parole,

Amore mio,

vi scrivo come sgorgate,

vi lascio come fiorite,

umili e sole,

senza rima e senza studio,

semplici, disadorne,

come la tenuta del fante

sporco di fango,

quando scende dalla trincera

e pare una statua di terra,

di terra sanguigna del Carso.

 

Con un verso  facile, prosastico, Locchi ha saputo esprimere al diapason delle emozioni umane il dramma fisico, morale psicologico di uomini e animali nelle estreme fatiche della grande guerra. Uomini e animali grondano sangue e fango,  e  avanzano spettrali come statue. Uno scenario apocalittico. Locchi ci ha  descritto il dramma terribile e quasi inesprimibile degli effetti della guerra sugli esseri del creato, tutti gli esseri, nessuno escluso.

 

Alla stregua di Ungaretti,  Locchi,  prima di “cantare” la guerra sente che

“bisogna purificarsi,

bagnarsi dentro l’ Isonzo,

asciugarsi al sole,

dimenticare

ed essere tutto cuore”.

 

Eliminando gli a capo dei versi, questo è il risultato finale:

 

E voliamo nel sole, anima mia! Facciamoci coraggio! e, colla voce tremante della passione, cantiamo i fratelli di campo : quelli che vissero, quelli che morirono, quelli che fra la morte e la vita sbiancano nei letti lontani, e in sogno delirano, credendosi ancora sul Carso e sull’Isonzo, sul Calvario e sul San Michele, nella mota rossa e nelle petraie seminate di morti che guardano il cielo, sotto la pioggia, sotto la bora, mentre sventolano i ventagli delle mitragliatrici.

 

Ma per cantare bisogna purificarsi, bagnarsi dentro l’ Isonzo, asciugarsi al sole, dimenticare ed essere tutto cuore, dalla fronte al tallone: tutto amore e tutto ardore. Bisogna cantare umilmente, come quando, la sera, cantano i fratelli, ripensando la mamma, A Pradis, a Villanova, nella quindicina di riposo.

 

Perciò, parole, Amore mio, vi scrivo come sgorgate, vi lascio come fiorite, umili e sole, senza rima e senza studio, semplici, disadorne, come la tenuta del fante sporco di fango, quando scende dalla trincera e pare una statua di terra, di terra sanguigna del Carso.

 

Chi cerca l’ Arte non mi sieda vicino e non mi ascolti

 

Non so che dico; parlo vagellando [come in delirio]: vedo in sogno attorno a me le compagnie, i plotoni coll’elmetto, le facce magre de’ miei fratelli, che sono arrivati sguazzando nei camminamenti, e parlo perché non posso tutti abbracciarli, perché vorrei tutti abbracciarli in silenzio; e getto al loro collo le mie parole, come le mie braccia. Quanti mesi! Tutti i giorni si diceva: ‘Si va, si rompe la diga, si piglia la città santa. Domani soneranno a distesa i cannoni per la sagra di Santa Gorizia’.

 

Il ta-pum del Cecchino, il tamburo dei Mauser

 

E il doppio cominciava. Tremava tutta la terra; pareva qualche sera tentennare anche il cielo, colle penzane di stelle; ma Santa Gorizia non appariva, nel piano, ad aprirci le braccia, chiamandoci ‘Figlioli,

figlioli miei dolci…’. E giù dal Calvario, giù dal San Michele calavano le barelle, calavano l’ambulanze cariche di sangue. Quante fasce con rose rosse! Quanti visi bianchi negli ospedali da campo, mentre di fuori si sentiva, nella notte misteriosa e implacabile, il ta-pum del Cecchino, il tamburo dei Mauser, lo strepito delle granate, e nel buio fiorivano i gigli bianchi dei bengala, che il nemico lancia a migliaia nelle tenebre, per cercarci e colpirci agli appostamenti.  Ma il cuore ci diceva: ‘Reggi, Italiano, non ti sgomentare, viene ciò che ti manca ; sei sceso in campo col tuo solo valore, quasi come un atleta ignudo, col solo tuo cuore. Il Gigante vestito di ferro t’aspettava per stritolarti; ma retrocesse abbagliato, dentro le sue caverne. Ed ora viene ciò che ti manca: arrivano i cannoni, vengono le munizioni. Reggi ancora un giorno, ancora un mese, che la vittoria guada l’Judrio ; viene su i traini rombanti, tirati da tre pariglie; dalle trattrici colle ciantelle assordanti, che la notte svegliano gli accampamenti’. E la notte non si dormiva; si sentiva su le strade il plan plan terribile.

 

Sembrava il passo di giganti grandi come montagne. Tremavano le case, tremavano i campi ; ognuno ascoltava sotto la tenda,… e, quando si perdeva la pesta, nella notte,… eccone un’ altra, un’ altra, e un rombo di motori e un dirugginìo di ferrami.

 

 

Tutto gronda e trasuda: acqua e fango

 

Nel silenzio e nel buio pesto, in cui stanno le sentinelle come statue, con gli orecchi tesi e gli occhi sbarrati.  Così passava l’ inverno. Giornate malinconiche di Val d’Isonzo! Giorni di nebbia fitta, d’acqua diaccia, lenta, continua! Ogni campo uno stagno: tutto gronda e trasuda: acqua e fango, fango e acqua per tutto ; nelle strade, scavate dalle carreggiate, fango su i carri, su gli uomini, su i cavalli, dai peli gialli e ritti come stecchi, che sembrano di legno, che mostrano lo scheletro. e grondando ti guardano con occhi addolorati, mentre digrumano il fieno fradicio, sorretti dalle cinghie dei finimenti e dal grido roco dei conducenti.

 

Sotto i reticolati, fra i Cavalli di Frisia

 

E tutte le sere s’udiva nelle pozzanghere il passo dei battaglioni, il passo dei reggimenti, che salivano alle trincere, che scendevano a riposarsi ; zuppi e sporchi, silenziosi com’ ombre, nel buio misterioso, pieno di insidia. Sembravano rosari. che si sgranassero nell’ ombra per un’eterna preghiera, le lunghe file dei fanti che salivano e che scendevano. E tutte le sere qualcuno non tornava alla baracca, o non faceva la tenda co’ i tre compagni, nel fango: restava su nel letto di melma del Calvario, vicino alle tre croci, sotto i reticolati, fra i Cavalli di Frisia : e i candidi bengala gli facevan lume, come candele che la sua mamma lontana avesse detto di accendergli, mentre dormiva per sempre, senza più rivederla.

 

Giornate malinconiche di Val d’Isonzo ! Tutte le notti uragani, acqua a rovesci, acqua e vento su le trincee: e la povera fanteria, la santa fanteria, sguazzava nelle sue fosse, alzando il fucile perché non s’ interrasse ; colle gambe nel pantano fino ai ginocchi, coi piedi gonfi e lividi, che sprofondano sempre più, come il demonio tirasse di sotterra gli uomini per le piante per sommergerli giù.

 

Quanto dolore ogni notte e quanto valore!

 

E senza pace sibili e schianti, rulli di fucileria, vampe di bombe, e la voce arrabbiata della mitragliatrice, la terribile raganella, che canta, mai sazia, nei temporali di fuoco. O mie belle brigate ! Brigate dei Gialli del Calvario, Brigata Pavia, Undicesimo, Dodicesimo, Ventisettesimo, Ventottesimo fanteria! Reggimenti di Romagna da venti mesi in trincera, più tenaci dei massi terribili del Carso; quanto dolore ogni notte e quanto valore! E nella chiama notturna, le notti di cambio, quante assenze ! quanti amici che non rispondevano, che non sentivano più! Sottotenentini, ragazzi imberbi e gioviali, che la gente seria, la gente perbene, una volta, chiamava beceri quando rompevano i vetri e stracciavano le bandiere ai Consolati d’Austria, eran rimasti lassù, nel Vallone dell’Acqua, al Lenzuolo Bianco, alla Casa della Morte, col grido tra i denti, col cuore in mano ; colpiti mentre correvano davanti al plotone all’ assalto, come se si trattasse davvero di scherzare con l’eternità.

 

Il manto celeste di Santa Gorizia

 

E se il Calvario non fioriva, se non fioriva il Carso, sempre in tormento, sotto la furia dei colpi, ci fiorivano tutti i cuori seminati dalla speranza. Si diceva:  ‘Si va : questa volta si va davvero! Salteremo l’Isonzo come caprioli; chi ci terrà quando sarà l’ora? Tutti vogliamo esser primi a baciare il manto celeste di Santa Gorizia’…

 

Ed ecco che improvviso un grido venne di lontano. Chiamavano i nostri fratelli, le guardie del Trentino. Dicevano d’accorrere, d’accorrere, di precipitarsi : che il nemico sbucava da tutte le macchie, da tutte le grotte, da tutte le caverne, dalle valli, dai monti, a torme enormi a valanghe, e si buttava, urlando, contro le porte d’ Italia. O passione di Maggio! Ma il cuore ci disse di nuovo:  Reggi, Italiano, non temere: corri dall’ Isonzo al Brenta, dall’ Isonzo all’ Adige: corri coll’ armi, colla fede, col tuo valore, col tuo amore, corri a chiuder le porte d’ Italia: chi non dispera non perde!  E partirono le Brigate, le Divisioni dell’ Isonzo in lunghe file d’ elmetti, su colonne infinite d’autocarri volanti, su i cavalli, su i traini, a marce forzate, senza bivacco, col pane nel sacco e l’ ansia tra i denti. E chi restò di guardia sul Calvario e sul S. Michele, sopra tutta la cinta di monti che schiaccia Gorizia, sentiva come un tempo, senza poter dormire, la pesta notturna dei fanti che partivano, il rombo dei motori, il plan plan terribile delle trattrici possenti, che tiravano i pezzi, grossi com’ elefanti. lunghi come campanili,  ch’e ci dovevano sonare lo stormo tremendo, nel giorno di Santa Gorizia. Ma non si pianse: ‘Ritorna! – si disse ascoltando – : ritorna tuona e ritorna ; stritola e ritorna ; ricaccia il truce nemico e ritorna, ritorna!’.

 

 

L’ immensa foresta delle nostre baionette

 

E il passo dei giganti, il gran plan plan terribile pareva rassicurarci e dirci : ‘Ritorno! ritorno!’ perdendosi nella notte. O passione di Maggio! Dalle trincee nemiche, dai cunìcoli, dalle ridotte, che il nostro cuore ci aveva promessi fra poco, urlavano i Croati, i Bosniaci e gli Ungari, dimentichi d’ essere schiavi, ingiurie e lazzi con risa oscene contro il nostro dolore tacito e vigilante. Ed alzavan cartelli con beffarde leggende di satira volgare pesante come le loro scarpe chiodate e i loro corpi tozzi di gente ormai tedesca, fatta con l’ascia. Ma il nostro acceso cuore ancora una volta ci disse : ‘Reggi, Italiano: non abbatterti: viene il tuo giorno, che ridere potrai con più ragione. S’ approssima la festa, la festa del sangue e del canto, la sagra serena di Santa Gorizia.’ E si sentivano lontano i primi rintocchi delle campane domenicali, salire dalla piana del Tagliamento, alla cinta delle muraglie del Carso. Tornava Pasqua di Rose, col sole rovente d’estate, annunziando la resistenza contro l’incendiario, contro il devastatore, contro l’infuriato nemico, che, non potendo vincere, desolava la terra, che non voleva arrendersi. O Passo di Buole, termopile vittoriosa ! Coni Zugna, Monte Pasubio! Montagne sante d’Italia, azzurre e bianche torri guardie della Patria: ognuno di noi vi vedeva in sogno, nel celeste, scavalcare l’Alpi Carniche, fiammanti lontano nel sole come cattedrali di cristallo. E si vedeva, in sogno, giganteggiare l’ombre dei martiri nel sereno: Cesare Battisti, nostro San Sebastiano, Damiano Chiesa, Filzi, Rismondo, gli antichi e i nuovi, i vecchi e i giovani martiri, smaglianti nel sole come bandiere, guidando dall’alto i plotoni i reggimenti, le brigate; tutta l’ immensa foresta delle nostre baionette, dallo Stelvio al Cadore, contro il nemico ignobile indegno dei nostri fucili, che disonora la guerra rubando e impiccando, pestando tutti i sacrari, col suo piede pesante di rosso rinoceronte.

 

E la foresta di baionette riscavalcò le selle, le groppe dei monti, le pareti strapiombanti degli obelischi di ghiaccio, i nevai abbaglianti corsi dalle valanghe. Come lanciata dal vento tremendo dell’Alpe, che sona le bùccine dei canaloni, che scrolla i torrioni dolomitici come trinchetti, che sventola i nevai come vele, che intona tutto il rombante organo delle giogaie, le sere di tormenta, quando le foreste, i baratri, le cascate, s’uniscono per sonare la sinfonia della montagna; la foresta di baionette rifece i vecchi sentieri : di greppo in greppo, di guglia in guglia, le baionette risalirono.

 

 Noi balzeremo stringendo la baionetta

 

O vittoriosa estate, ora dico la tua ebbrezza! S’approssima il giorno del riso, promesso dal nostro cuore e dal nostro dolore. HÌl Com’ erano rapidi i giorni del luglio razzante: fuggivano com’ore nel turbine della manovra. Su tutte le strade carri e cavalli, uomini e macchine, mitragliatrici e cannoni, selve di fucili, su tutte le strade della pianura veneta. Tornavano tutti, chiuse le porte d’Italia, i soldati dell’Isonzo. sfragnendo e pestando, come dentro le madie gigantesche delle doline impastassero il pane della vittoria, per la fame del fante. E il fante aveva fame ; fame di terra del Carso più buona della pagnotta, impastata di sangue, cotta dalle granate, benedetta dai fratelli caduti colla bocca avanti per baciarla morendo. « Forza bombardiere, – dicevano le trincere colme d’ elmi e di baionette : tu stronca, tu rimescola, tu cuòcici la galletta ; e poi noi balzeremo stringendo la baionetta, sul forno fumante ; poi noi ci sazieremo nell’ àgape attesa da tanto, su la tavola dell’altipiano, su la tovaglia di porpora, che si stende fumando ! » E le bombarde tuonavano nelle madie delle doline.

 

Notte del 7 Agosto, chi ti dimenticherà!

 

Ma quando tutte le bocche dei cannoni cantarono, all’ora fissata, per completare la strage. l’ansia strinse ogni goia, e ognuno sentì tonfare dentro il suo cranio, come sopra un tìmpano spaventoso, la romba. Traballava la terra come una casa di legno; il cielo pareva incrinarsi ogni tanto come cristallo ; pareva si dovesse spezzare e precipitare a schegge celesti ogni tanto tra gli schianti e gli strepiti.

 

E su la prima linea nessuno più fiatava, sentendo sul cuore ognuno battere, come gocce di sangue, i minuti terribili che misurano il tempo e tutti erano certi di vincere, tutti certi di rompere l’ incanto, di varcare il Calvario e l’ Isonzo, di celebrare domani la sagra serena di Santa Gorizia. Notte del 7 Agosto, chi ti dimenticherà! Che numero aveva il reggimento mie belle brigate: Brigata Casale, Brigata Pavia, Undicesimo, Dodicesimo, Ventisettesimo, Ventottesimo fanteria : è l’ora, è l’ora della rivincita!  Ogni fante è proteso; ogni ufficiale è davanti ai suoi fucili. I colonnelli estatici, muti, stanno per dare il segno ai reggimenti. Nel cielo passano ombre e ombre, ombre di mamme, ombre di figli, ombre di giorni lontani d’adolescenza, visi amati, mani sante carezzevoli su tutte le facce : parole d’amore, aliti di labbra, gesti religiosi. È l’ultimo addio, il consólo dei vivi ai morituri che partono, che vanno verso i confini della vita terrena, verso la luce, verso la gloria. ‘Pronta, Dodicesima ! Divisione di bronzo, è l’ora!

 

 

L’attacco : attenti al segno, attenti al segno! Ancora tre minuti, due minuti, uno: Alla baionetta!

 

Brigata Casale, Brigata Pavia, Undicesimo, Dodicesimo, Ventisettesimo, Ventottesimo fanteria: attenti al segno, attenti al segno! Ancora tre minuti, due minuti, uno: Alla baionetta!  E tutte le baionette fioriscono sulle trincee. Tutta la selva di punte ondeggia, si muove, si butta sul monte, travolge gli Austriaci rigettandoli oltre le cime, scaraventandoli giù, a precipizio, dentro l’ Isonzo. ‘Sei nostra ! sei nostra!’ – sembra gridare l’assalto. La Città è apparsa, apparsa a tutti nel piano, dalle vette raggiunte: e tende le braccia, e chiama, lì, prossima, tutta rivelata, nuda e pura nel sole di ferragosto, e libera ! libera ! sotto la cupola celeste del cielo d’ Italia, sotto le Giulie, l’ultime torri smaglianti della Patria.

 

La vittoria ritorna. Per tutti gli amici e per tutti gli ignoti nostri fratelli, morti e non queti; distesi ad occhi aperti sotto la mota, in fondo ai fiumi, sotto le pietre calcinate e taglienti delle doline; per tutte le rozze croci che non portano nome, e pregano il cielo colle braccia distese, su la giovinezza che non ritorna; per tutti i ricordi e tutte le angosce ; per le gioie e gli affanni, e le lacrime piante e da piangere; per Battisti e per Sauro, per Rismondo e per Chiesa per Filzi, e tutti i martiri strangolati e gettati nelle fosse infami ; per le mamme e per i figli, per la mamma grande- L’Italia ; tutte le baionette si piegano come bandiere sugli altari dei monti, su i santi carnai dei nostri morti.

 

“Di Vittorio Locchi, del cavaliere poeta, che con la sua generosa serenità salvò dagli agguati del disordine tanti compagni, non si è saputo più nulla” (Ettore Cozzani).

 

Anche Locchi, come Giosuè Borsi, scomparve dunque nel nulla. Nato nel 1889, Vittorio Locchi finì la sua corsa nel 1917, in seguito al siluramento del Minas, a Capo Matapan. La sua terrificante testimonianza delle indicibili fatiche e sofferenze patite dalla natura, dagli uomini e dagli animali sul Carso e sull’Isonzo lascia ancora oggi, oltre le barriere del tempo, esterrefatti, e sgomenti.

 

 

 

Fonte:

 

Vittorio Locchi, La sagra di Santa Gorizia, Milano, 1919. Il testo presenta la traduzione in inglese: The Feast of Saint Gorizia, by Vittorio Locchi. Translated into English verse by Lorna de’ Lucchi. With Introduction by Ettore Cozzani.

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.