Sentieri del protezionismo americano e italiano

I recenti eventi di politica internazionale che sembrerebbero portare la Presidenza americana verso una nuova fase protezionistica, legata fortemente al fortunato slogan To Make America Great Again, m’ha portato  a considerare il fatto che il protezionismo fa in effetti parte consustanziale dell’America. Un economista americano, David A. Wells, tenendo un discorso al Cobden Club di Londra il 28 giugno del 1873, fece alcune osservazioni interessanti riguardo la “tensione” americana al protezionismo:

“Per gli Americani, come una classe, c’ è qualche cosa d’irresistibilmente attrattivo nella parola grande.  Noi sappiamo di abitare e di possedere un grande paese, le cui risorse e le cui capacità non hanno quasi confine. Noi crediamo di essere un grande popolo, e, come tale, abbiamo grandi problemi da definire, e un grande destino da compiere; e per completare l’intera misura della nostra grandezza, non siamo stati contenti finché non ci siamo provvisti di un grande debito, facendo le nostre tasse, le nostre entrate, il nostro corso monetario, i nostri prezzi, e le nostre spese parimenti grandi. Ma il ramo in cui gli Stati Uniti sono al presente grandi, in un senso più specialmente interessante all’osservatore straniero, è quello della sperimentazione economica, che attualmente funziona sopra una scala di tal grandezza, e con una così completa noncuranza della passata esperienza o delle influenze avvenire, da dare al suo progresso e al suo risultato un grado d’importanza impareggiabile” (1). Wells era,  per motivi anche ideali, contrario al protezionismo, ritenendo gli Stati Uniti un paese troppo grande per mettersi a fare del protezionismo.

In casa nostra, I. Cervelli ricordava come “indicativo delle più lontane origini ottocentesche del ‘nazionalismo’ economico e del correlativo orientamento protezionista, è dato dal riferimento ideologico agli Stati Uniti. A parte la versione ‘democratica’ che della realtà americana si ebbe in Europa tramite Alexis de Toqueville […] si ebbe nell’Ottocento una immagine degli Stati Uniti che operò variamente nell’ideologia economica e sociale del vecchio continente […] che possono essere tenute presenti […] a proposito dell’importanza che l’ideologia industrialista di Alessandro Rossi attribuì all’esempio americano” (2).

In effetti,  negli Stati Uniti, esisteva, ed era ben presente e potente una corrente assolutamente favorevole al protezionismo, che non soltanto poteva, ma soprattutto  doveva essere implementato per difendersi adeguatamente dai paesi poco sviluppati. Uno dei massimi sostenitori del protezionismo negli Stati Uniti fu George Gunton, il quale, al proposito,  fece un discorso molto accattivante, che andava a toccare i  punti qualificanti della società americana,  i wages, i salari dei lavoratori americani.   In questo senso il protezionismo  trovava un uditorio non soltanto attento, ma anche più vasto di quello che comunemente si crede.

In sostanza,  per Gunton,  sono i paesi più avanzati, come gli Stati Uniti, che necessitano del protezionismo; e ciò a difesa, in generale,  dei salari più alti del paese rispetto ai salari corrisposti nei paesi poveri. E’ evidente, diceva Gunton, che se gli americani avessero potuto trovare sul mercato interno scarpe cinesi che  costassero  meno, e avessero persistito a comprarle,  ciò avrebbe innescato  meccanismi perversi,  che avrebbero portato inevitabilmente al ribasso anche i salari del settore calzaturiero americano; al di là di soluzioni alternative, asseriva Gunton,

“The only other alternative would be to reduce the wages  of shoemakers here to substantially  the same level as those of China” [ L’unica alternativa  sarebbe quella di ridurre i salari dei calzolai americani sostanzialmente allo stesso livello di  quelli cinesi]  (3). Per tale ragione,  il protezionismo, che può o non può essere applicato in paesi a basso sviluppo, deve invece essere assolutamente implementato nei paesi avanzati:

“Social superiority, aggiungeva Gunton,  instead of making protectionism unnecessary, is the very thing which makes it necessary, provided it is socially important  to retain or further develop the industry” [La superiorità sociale,  invece di rendere inutile il protezionismo,  è al contrario l’aspetto che lo rende necessario, condizione che è socialmente importante per mantenere o sviluppare ulteriormente l’industria] (4). Pertanto, secondo Gunton, è il mercato interno ciò che veramente ha importanza in un paese avanzato: esso ha l’assoluta necessità di difendersi contro la concorrenza dei paesi poco sviluppati che, con i loro prodotti “sottoprezzo”, a causa d’una manodopera che costa poco o niente,  mettono letteralmente in crisi  i  salari nei paesi avanzati, riducendo, alla fine,  complessivamente, anche  i consumi interni,  e perciò comportando un abbassamento dei livelli di vita delle società avanzate.

 

Ora, pur non essendomi posto in questa sede il problema di sapere cosa ne pensano, oggi, gli economisti americani del Gunton-pensiero, ho però la vaga impressione che esso possa non soltanto essere moneta ancora in circolazione, ma che possa aver addirittura trovato “grata accoglienza” presso la Presidenza Trump. E credo anche che Gunton potrebbe trovare anche oggi numerosi seguaci anche in Italia, dove il problema della “competitività”  dei nostri prodotti industriali (e quello degli stessi salari ad essi collegati) è molto sentito.

 

Ma veniamo ora a casa nostra. Anche l’Italia, come si sa,  percorse i sentieri  del protezionismo dalla fine del XIX secolo fino al 1950. Riguardo l’Italia,  la situazione tutto sommato non era molto diversa da quella degli Stati Uniti, nel senso che,  anche da noi,  vi furono forti  resistenze da parte di illustri economisti  al protezionismo, che poi alla fine fu praticato.

 

In Italia  registriamo voci del tutto difformi sul protezionismo. Non mancò chi sottolineò gli aspetti positivi del protezionismo sulla nostra economia in generale. E. Del Vecchio, per esempio,   discorrendo appunto della “via italiana al protezionismo”, sottolineò come esso, sia pure tra inevitabili contraccolpi sociali,   avesse vantaggiosamente influito sulla sviluppo e  la modernizzazione della nostra industria. Secondo Del Vecchio, la guerra commerciale con la Francia ci fece perdere un partner che sembrava insostituibile, ma che in realtà fu “sostituito” molto bene attraverso gli scambi commerciali con l’Impero austro-ungarico, che fu per molti anni un “sicuro mercato per parecchi prodotti italiani, e soprattutto il più valido mercato alternativo all’ormai  languente mercato francese” (5).

Sempre a casa nostra, Stefano Fenaltea, al contrario di Del Vecchio,  critica invece aspramente  il  protezionismo ottocentesco italiano che, addirittura, a suo avviso,  “limited Italy’s development” [ frenò lo sviluppo dell’Italia].  Fenoaltea, soffermandosi sul secolare dibattito sul protezionismo, afferma che gli economisti, di ieri e di oggi,  in generale, non danno un giudizio positivo su di esso, poiché il protezionismo non offrirebbe  alcun beneficio alle economie nazionali, riducendone anzi la ricchezza. La nozione dei “vantaggi” del  protezionismo dev’essere a suo parere rivista alla luce sia dell’ esperienza sia della storia (6).  La drastica posizione  di Fenoaltea è stata discussa da Giuseppe Tattara, il quale pure nota che anch’egli parla, a proposito di  certe condizioni storiche ed economiche, di protezionismo come strategia vincente:

“Fenoaltea, scrive Giuseppe Tattara,   centra  questa  sua  analisi  sul  modello  ricardiano  ‘della  crescita’,  un  modello  dinamico  sulla  cui  teoria  ora  non  mi  soffermo,  ma  di  cui  si  possono   capire   le   indicazioni   considerando   i   due   esempi   proposti   dall’autore, gli Usa e l’Inghilterra. I primi sono paesi con grande sovrappiù agricolo:  possono  industrializzarsi  al  riparo  della  protezione,  senza  grave  danno  perché  ‘comperano’  con  il  loro  surplus  le  industrie  che  desiderano.  Comperavano  già  i  manufatti  all’estero  e  possono  comperare  anche  le  manifatture  e  vendere  sullo  sterminato  mercato  interno  senza  preoccuparsi  di  esportare  (e  quindi  di  vendere  a  prezzi  competitivi):  il  protezionismo  industriale  in  questo  caso può  essere  una  strategia vincente”.

“Il vero costo del protezionismo sta nel fatto, continua Tattara, che aumenta i costi di produzione all’interno (sia il  dazio  sul  grano  che  su  qualsiasi  merce)  e  quindi  preclude  l’accesso  delle  industrie  esportatrici  ai  mercati  internazionali,  accesso  che  può  avvenire  solo  a  prezzi  competitivi.  L’Italia,  da  questo  punto  di  vista,  è  in  una  posizione   che   la   rende   assimilabile   all’Inghilterra:   ha   meno   risorse   dell’Inghilterra  e  non  ha  surplus  agricolo  per  cui  deve  puntare  tutto  sulla  trasformazione  efficiente  ossia  sulla  esportazione  dei  suoi  manufatti”  (7).

 

Tattara ci ha offerto qualche ottimo spunto di riflessione. Un saggio parimenti di grande attualità e corredato di spunti critici di pregevole interesse  per il lettore non specialista m’è parso anche quello di G. Federico e  A. Tena , della fine degli anni ’90 (8).  I punti salienti del saggio  sono i seguenti:

a) Il protezionismo italiano fu aspramente messo in discussione da vari studiosi, come Gerschenkron, nel 1962, Fenoaltea nel 1973 e ancora nel 1993 e da  Pollard nel 1982. Pollard in particolare pose anche l’accento sul fatto che il protezionismo degli  anni ’80 dell’Ottocento contribuì fortemente a disunire l’Europa, con conseguenze politiche gravi, che infine sfociarono, come sappiamo,  nel primo conflitto mondiale. Al di là del dissenso di fondo, però,  tutti i critici summenzionati concorderebbero sul fatto, già messo in vista da Del Vecchio,  che il protezionismo accelerò il processo di industrializzazione del paese. Quanto poi al “livello” di protezione che un paese come l’Italia avrebbe dovuto implementare, Federico e Tena  asseriscono che i dati in loro possesso non permettono di stabilire  scientificamente   il “reale” livello di protezione che si sarebbe dovuto mettere in pratica.

b) Soffermandosi ancora sulla storia del protezionismo italiano, i due studiosi rilevano come, dal 1887, il dazio sul grano e la tariffa sui manufatti avessero innescato un duro scontro con  la Francia: la ben nota “guerra doganale” con quello che era al tempo uno dei nostri principali partner commerciali. Poi  osservano che  la tariffa del 1887, anche se restò in vigore per trent’anni,  fu variamente “limata” nel corso del tempo, e in pratica superata da nuovi trattati commerciali con la Germania, la Svizzera e l’ Austria-Ungheria all’inizio del 1900.  A quanto dice Federico e Tena, aggiungiamo però il fatto che tali “riaggiustamenti” non furono probabilmente il frutto di “ragionamenti” puramente economici, ma dettati dal nuovo scenario politico internazionale, che vedeva l’Italia inserita nella famosa “Triplice Alleanza”, che mise appunto insieme l’Italia, l’Austria e la Germania. Il fatto che i tre trovassero anche vie economiche per “star meglio insieme”, spiega abbondantemente la stipula di quei trattati commerciali. Sulla base dei dati suesposti, dopo aver detto che il protezionismo italiano risultò  piuttosto “restrittivo”,   e che  durò fino a dopo la seconda guerra mondiale, Federico e Tena osservano che la liberalizzazione degli scambi approvata nel  1950 fu  salutata in Italia  come una  fantastic sterzata  rispetto al passato.

c) Il protezionismo italiano, proseguono, iniziò su “bassi” livelli, incrementandosi verso l’alto nel decennio  1880-1890, riducendosi verso la fine del secolo e rimanendo costante  fino al 1920. La conseguenza fu una sicura riduzione delle spese  per il Welfare, in quanto si è dovuta registrare “una cattiva allocazione delle risorse”. Tuttavia, a parere di Federico e Tena, i dati in loro possesso illustrerebbero un calo “modesto” del Welfare, e  l’impressione è che il protezionismo di quegli anni fosse stato implementato più che altro per le necessità di bilancio dello Stato,  piuttosto che rispecchiare una pianificazione  politica mirata espressamente a   favorire l’industrializzazione del paese.

d) Il protezionismo italiano non risulterebbe, secondo Federico e Tena, avere intaccato più di tanto il Welfare, ma non parrebbe aver neppure contribuito più di tanto all’industrializzazione del paese nel suo complesso; ciò  entrerebbe in contraddizione, aggiungiamo noi, con quanti, Del Vecchio et alii, sostennero che il protezionismo della fine del XIX secolo avesse influito in modo significativo sullo sviluppo industriale italiano. Il protezionismo italiano non sembrerebbe dunque aver  giocato un ruolo fondamentale nell’industrializzazione del paese.  In realtà, secondo Federico e Tena,  la politica commerciale italiana dell’epoca “aiutò” tutt’al più  “alcune industrie”, in particolare il settore dell’ acciaio, ma a scapito di altri settori industriali.  Tali conclusioni, osservano,  sono valide “soltanto” per l’Italia, ma non è possibile dimostrare, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che il protezionismo non fosse stato invece un fattore molto importante per altri paesi europei.

e) Ritornando nel 2009 sul tema del protezionismo degli anni ’70 del XIX secolo (9), in Europa e fuori, A. Tena rileva che, basandosi su un nuovo database relativo alle  tariffe applicate nel  1870,   i risultati dimostrerebbero che il protezionismo ebbe effetti deleteri sui redditi e sul Welfare,  nonché sulla  “crescita” (parola oggi molto in auge) , che a suo avviso fu “minore” soprattutto nei paesi “poveri”, che sarebbero stati, al tempo, i seguenti:

 

Grecia, Ungheria, Italia, Norvegia, Portogallo, Romania, Russia, Spagna,  Svezia, Brasile, Cuba, Perù e Colombia.   Il protezionismo si mostrò,  al contrario,  efficace per quello che Tena definisce, con arguzia,   il Club dei ricchi, ossia per i paesi  più avanzati, cioè  Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Svizzera e Regno Unito. Fuori d’Europa,  per Argentina, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Uruguay e, ovviamente,  Stati Uniti.

 

Ora, se si potesse assumere che “anche” l’Italia è ormai entrata a far parte del Club dei ricchi, al pari degli Stati Uniti, se ne potrebbe  sussumere, a rigor di logica,  che “anche” il protezionismo non sarebbe poi una carta da scartare a priori, da un punto di vista “strettamente” economico. Restano però sul tappeto le ripercussioni eminentemente “politiche” che ne potrebbero derivare, come avvertì Pollard per il protezionismo ottocentesco,  sia a livello interno che internazionale: ma su questo punto  le forze politiche oggi in campo possono proiettare scenari molto diversificati, da quelli più ottimisti a quelli più apocalittici. Su questo punto, credo che, a monte di certe decisioni o non-decisioni  economiche, stiano, realisticamente (cioè, fuori di ogni illusione e di ogni “illusionismo”), non soltanto un uso “sapiente” del protezionismo, ma anche interessi “molteplici”, nonché ideologie “profonde” ancora molto vitali e, soprattutto,   “irriducibili”.

Come si diceva una volta, da noi spesso “se fa botega” invece di fare “robe grande”.

 

 

Note:

1)      Uno sguardo retrospettivo dei risultati del protezionismo negli Stati Uniti. Discorso pronunziato dall’onor. David A. Wells in Londra al Cobden Club, 28 giugno 1873, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1875, pp. 4-5.

2)      Ignazio Cervelli,  “Storicismo economico e questione sociale”, in I. Cervelli, Gioacchino Volpe, Napoli, Guida, 1977, pp. 108-109.

3)      Principles of Social Economics. Inductively considered and Pratically applied, with criticism of current theories, by George Gunton, New York & London, G.P. Putnam’s Sons, 1891, p. 332.

4)      Ivi, p. 339.

5)      Edoardo Del Vecchio, La via italiana al protezionismo. Le relazioni economiche internazionali dell’Italia 1878-1888, Roma, Archivio storico della Camera dei Deputati, 1979,  Vol. I, p. 518.

6)      Stefano Fenoaltea, The Reinterpretation of Italian Economic History: From Unification to the Great War, Cambridge University Press, 2011,  p. 158.

7)      Giuseppe Tattara, “Considerazioni sullo sviluppo economico italiano. In margine al libro di Stefano Fenoaltea”, in DSE Note di Lavoro, 2006, n. 22,  pp. 14-15.

8)      Giovanni Federico & Antonio Tena, “Was Italy a protectionist country?”, in  European Review of Economic History, a. 2, n. 1, Apr. 1998, pp. 73-97.

9)      Antonio Tena, “Bairoch Revisited. Tariff Structure and Growth in the Late 19th Century”, Department of Economic History, Working Papers No 121, 2009, Abstract e pp. 7-8.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.