Sul “disdegno” di Guido Cavalcanti per Virgilio (e per Dante)

Generazioni di studiosi si sono invano affaticate per dare un senso compiuto al famoso “disdegno” di Cavalcanti per Virgilio. Noi, sommessamente, tenteremo di darne definitiva soluzione.

Cominciamo ab ovo. Al futuro ex amico di Dante Guido Cavalcanti, Maestro riconosciuto della di lui giovanezza,  sarebbero venuti i capelli bianchi anzitempo se avesse avuto il sentore (ma per fortuna era morto prima) che l’allievo di belle speranze, Dante,  avrebbe affidato a Virgilio l’onere, ma soprattutto l’onore, di rappresentare per simbolo la Ragione (Cfr. al proposito il nostro articolo Guido Cavalcanti e Virgilio). Cavalcanti, di certo, avrebbe rampognato aspramente l’allievo degenere, dimostrandogli, probabilmente per sillogismo, che al riguardo Dante fosse, se non proprio in “difetto di savér” (espressione ch’egli usò a proposito di Guittone d’Arezzo), almeno in evidente contraddizione con se stesso.

“Ma come si fa, avrebbe detto fuor dei gangheri il Dominus rivolgendosi a Dante, a far di Virgilio il simbolo della Sacra Ragione (Aristotelica e non) quando codesto individuo non sapeva che pesci pigliare allorché, in Purgatorio XIX, tu incontrasti la “dolce sirena/Che i marinari in mezzo al mar dismag[a]?”.

“Allora, quella tu nomi la donna santa e presta fecegli una dimanda dirimente:

“‘O Virgilio, O Virgilio, chi è questa?’”.

“Ma costui, che tu (impudicamente) affermi esser simbolo d’Aristotelica Ragione (eresia!) non sapeva un bel niente di niente, perché, invece di spiegare e di agire, restòssi come  baccalà, con gli occhi sbarrati (con gli occhi fitti)”.

“Alcuni de’ tuoi moderni commentatori, avrebbe detto ancora Cavalcanti, parteggiando spudoratamente per Virgilio, affermano che ‘Virgilio l’afferra brutalmente, e ne denuda il corpo schifoso’ ( Porena dixit in 1953). Ma la cosa, come tu ben sai, condùssesi in tutt’altra “mainera”, perché fu la ‘donna santa e presta’, la Filosofia (Aristotelica), a rivelare il vero volto della sirena, denudandola e mostrandone il corpo schifoso”.

“Il filius tuus,  Petrus (de Dante), avrebbe incalzato Guido,  nel commentare questo passo della tua Comedìa (ma che in siffatto et specifico loco nomar potrèbbesi Tragoedìa), dimostrò d’aver più sale in zucca di te (su cui, purtuttavia, sparsi, in vano, molto dello mio sale (Vide Johannes Franciscus de’ Continiis [Gianfranco Contini infatti asserì che Cavalcanti aveva “salato il sangue di Dante” N.d.r.), e capì chi fosse in realtà Virgilio,  meglio di te; e infatti Petrus tuus spiegò in buon latino, et cum grano salis, quel ch’era accaduto in quel frangente al suo venerato, et errabondo pater:

“‘Autor (cioè tu, Dante) dicit quod dicta donna … ventrem illius putide Sirena aperuit’ [L’autore (Dante) afferma che detta donna aperse il ventre della schifosa sirena]”.

“Questa ‘donna’ era La Filosofia, quella Vera. Il ‘tuo’ Virgilio, che con la Ragione non ha nulla da spartire, non solum est in claro difecto di saver, sed etiam  non face  absolute un bel nihil de nihil [non solo è un ignorante, ma anche non fa un bel niente di niente]. Vatti un po’ a vedere quod scripsit anche quella “bona lana” del Buti, qui expresse dixit: ‘Una donna … questa è la Filosofia … levando e aprendo li fallaci adornamenti dimostra’”.

Ergo, avrebbe concluso il Nasutus (Guido infatti aveva, narrano le cronache, naso piuttosto pronunciato) colui che ‘agisce’ non est  Virgilius tuus, sed la ‘donna santa e presta’. E conciossiaccosaché concordo, avrebbe continuato il semper iracundus Dominus Cavalcantis de Cavalcantibus, con l’Anglo Magister Colin Hardie, il quale, in suo pur barbaro latino, scrisse:

“Virgil is accepted as a symbol of reason in the Comedy […] But I shall argue, first, that Virgil may well be wrong because  the ‘donna santa e presta’, whoever she may be, rebukes him with the question ‘chi è questa?’, which implies that he does not know who the Siren really is”  [Virgilio è accolto nella Commedia come simbolo della ragione […] Ma io sosterrò, in primo luogo, che Virgilio potrebbe essersi sbagliato, perché la ‘donna santa e presta’, chiunque essa possa essere, lo richiamò con la domanda ‘Chi è questa?’; il che implica che, in realtà, Virgilio,  non sapeva proprio chi  davvero fosse quella Sirena ] (1).

Ergo, Virgilius tuus, avrebbe solennemente stabilito Guido, nihil aut parum harum Sirenum  sciebat. Ex quo enim nulla Ratio sufficiens erat in eo [Non sapeva pressoché niente riguardo le sirene. Da cui ne deriva che in Lui (Virgilio) non v’era alcuna ragione sufficiente]:

Che pruova il necessario, sanza rismo (verso di chiusura della prima quartina di Da più a uno face un sollegismo). Traducendo: “Dal che si evince che ho ragione io (Cavalcanti) senza l’aggiunta di altre corbellerie”.

E Dante, tutto tremante: “Comprendo ’l tuo disdegno/, sed [ma] Virgilio mi mena [conduce] a Beatrice, forse [tu] (tu è [mia] divinatio) Guido …”.

« Et discerne male. Tu se’ semper afflicto, fricto et sconficto. Et ora vo’ a manucare in un boschetto, ove una fiata truvai pasturella; quando Donna me prega … Tu sa’ quel ch’eo voglio dire”.

E Dante: “Ben ’l so che ti noman cavicchia”.

Per le suesposte ragioni, credo si sia spiegato ad abundantiam donde derivasse il leggendario «disdegno» di Guido Cavalcanti per Virgilio, e confido che tutti sieno «contenti al quia».

Ma veniamo ora alla  ragione per cui Guido Cavalcanti avrebbe sicuramente esteso il suo disdegno anche al suo allievo di belle speranze (mancate). Come tutti sanno, Cavalcanti, nel famoso sonetto Da più a uno face un sollegismo, si scagliò violentissimamente contro Guittone d’Arezzo, accusandolo di non saper proprio da che parte iniziare per confezionare un sillogismo degno di questo nome, per cui il doctissimus Magister  inveì aspramente contro di lui, gratificandolo dell’epiteto di “ignorante”, o, per dirla con il Dominus Guido de Cavalcantibus, d’essere in gravissimo “difetto di savér”.

Ora, il futuro ex amico di Dante e maggior loico di Fiorenza sarebbe viepiù incanutito se avesse avuto l’opportunità di leggersi le bozze della Monarchia, e soprattutto i sillogismi approntati da Dante a dimostrazione della non subordinazione del potere imperiale a quello papale, sicuramente si sarebbe recato “infinite volte” al giorno (e persino di notte) a casa  dell’ex amico (mi riferisco al famoso sonetto Io vegno il giorno a te infinite volte …) , ma stavolta non per  convincere  l’ex pupillo a tornare all’ovile, ma per bacchettarlo severamente sulle dita,  essendosi Egli mostrato, guittonianamente,  in gravissimo difetto di savér (sillogistico).

Infatti, il professor  Giovanni di Giannatale notò, davvero stupefatto, che in tale materia

“il ragionamento dantesco è infirmato da un difetto, pari dal punto di vista logico-metafisico, a quello dei suoi avversari” (2). Epperciò il professor Giovanni di Giannatale  s’affannò, a beneficio del lettore, a “riesporre in breve i principi della logica aristotelica, dei quali Dante sembrava (perlomeno in apparenza) essersi dimenticato” (3). Il professor Giovanni di Giannatale  parve comunque incline a “giustificare” l’errore del Divin Poeta:

“ Per quale ragione Dante ignora o, come suppongo, finge [corsivo mio] di ignorare la lezione di Aristotele, lui abile e consumato loico, che quella lezione poté benissimo assimilare presso le ‘scuole de li filosofanti’, sotto la direzione di fra’ Remigio Gerolami, e fors’anche tra i banchi delle aule parigine?” (4).

Il professor Giovanni di Giannatale  scovò infine la ragione nella “politica”:  Dante perciò riuscì a salvare l’imperatore dalla subordinazione al papa in virtù d’un ragionamento sillogistico “di natura soltanto politica e non affatto teoretica” (5).

Ottima difesa da avvocato davvero consumato:  è noto nell’intero Orbe, fra terre e mari et oceana, che in politica, al contrario di ciò che accade nella scienza, si può dire di tutto e il contrario di tutto nel lampo d’un rapidissimo tweet.

Note

1) Mi sono permesso di giocare con il saggio, davvero interessante e, per vari versi, “rivoluzionario”, del professor  Colin Hardie, “Purgatorio XIX. The Dream of the Siren”, in Letture del ‘Purgatorio’, a cura di Vittorio Vettori, Milano, Marzorati, 1965,  p. 221 nota 2 e le pp. 217-218 per le citazioni dei commentatori riportate nel testo.

2)      Giovanni di Giannatale, “Papa e Imperatore in ‘Monarchia’ III, 12”, in L’Alighieri, luglio-dicembre 1981, n. 2, p. 53.

3)      Ivi, p. 53.

4)      Ivi, p. 54.

5)     Ivi, p. 60.

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.