Ci fu un tempo in cui la poesia in dialetto era ritenuta una poesia di “seconda classe”. Erano pochi i critici che ne avevano una qualche simpatia. Però, a poco a poco, anche la critica accademica s’è accorta dei nostri grandi poeti dialettali, per cui i nomi di Carlo Porta (milanese) e Gioacchino Belli (romano) sono oggi ritenuti dei “classici” della nostra letteratura dialettale.
Accanto ad essi, tra i “quasi” classici ci metterei anche Trilussa (Carlo Alberto Salustri), nato nel 1871 e morto nel 1950. Attraverso l’umorismo, che è forse la forma migliore di dire certe verità con toni leggeri e poco “offensivi”, i nostri poeti dialettali dicevano sante verità, che ognuno è in grado non soltanto di apprezzare, ma anche di valorizzarne la “serietà”, molto più di articoli seriosi e saputi.
Prendiamo Trilussa e un caso classico di “corruzione smascherata”. Ne vien fuori una bella denuncia, non soltanto dell’atto in sé, ma anche dell’atteggiamento della gente, che prima s’inchina e poi guarda indifferente, con malcelato compiacimento, all’arresto del commendatore. In questa poesia di Trilussa, soltanto la portiera del palazzo non nutre astio contro il commendatore, ricordandosi di un “qualcosa”:
L’arresto del commendatore
La sera dell’arresto, l’inquilini
Erano esciti tutti pe’ le scale:
– Eh – dice – se capirà! – E’ naturale!
– Ecco come se fanno li quatrini!
– Da un pezzo in qua faceva un lusso tale …
– E la carrozza … e automobbili … e villini …
E la moje? Che anelli! Che orecchini!
– Io lo dicevo che finiva male –
E quanno scese assieme ar delegato
Nessuno seppe dije una parola
Che l’avesse un pochetto incoraggiato!
Nessuno! Solamente la portiera,
ch’era rimasta in fonno a la guardiola,
pensò a le mance e disse – Bona sera!
Almeno la portiera s’era ricordata delle mance. E quel suo “Sì, Bona sera!” non si capisce bene se sia un semplice saluto o invece un recondito rammarico del fatto che, con l’arresto del commendatore, erano finite anche le laute mance.
È come avesse detto: “Sì, Bona sera! A commendatò, è finita!” (pe’ vvoi e pe’ mme).
E, a proposito di “quatrini”, Trilussa, saggiamente poetava:
Li quatrini so’ come li dolori:
Chi ce l’ha se li tié: pe’ questi l’ommini
Se so’ divisi in ladri e galantommini,
Se so’ divisi in poveri e signori.
Schiavi e padroni, vittime e strozzini …
Sempre pe’ ’st’ammazzati de quatrini.
E. Corradi, curatore dell’edizione a cui faccio qui riferimento, sottolineava come Trilussa avesse fatta propria una frase di Madame de Staёl:
“Più imparo a conoscere gli uomini e più amo le bestie!”.
Per quel che può valere, anch’io sono in perfetto accordo e con Madame de Staёl e con Trilussa.
Fonte:
Trilussa, “L’arresto del commendatore”, in Le finzioni della vita, a cura di E. Corradi, Rocca San Casciano, Licinio Cappelli, 12 giugno 1918, p. 25, e pp. 117-118.