Un “posto al sole” per Dino Campana

Si dice che viaggi e “chimere” siano gli aspetti salienti del sempre scontento Dino Campana, che non trovava requie da nessuna parte. Ci sarebbe, in Dino Campana, com’è stato riconosciuto un po’ da tutti, una coazione a muoversi costantemente; e, se esiste una parola “spia” che potrebbe esprimere per umbris la sua ansia di “movimento”, questa è stata sagacemente individuata  nella seguente: altrove.

 

Maria Rosaria Cianciaruso ricordava come Mario Petrucciani, in un suo intervento ad un Convegno su Dino Campana, avesse incentrato la sua relazione sul tema dell’ “altrove”, “un altrove, continuava la Cianciaruso , che oscilla tra il nulla e il rifugio; non si sa cioè se l’altrove sia una dimora o un impulso interiore o un pentimento oppure semplice aspirazione al ritorno ad un Eden perduto da cui il poeta Campana si sente fuori”.

 

Ora, il tema dell’ Eden perduto è stato applicato ad una quantità considerevole di scrittori in prosa e poeti, italiani e stranieri, da Pascoli a Dostoevskij. Comunque sia, se prendiamo per buona codesta interpretazione, l’ altrove sarebbe stato, per Campana, quel non-luogo dov’egli avrebbe potuto trovare un po’ di pace interiore, un luogo “mitico”; ma anche una terra che non c’è, anche se pure sempre presente nella sua mente di irrefrenabile ed instancabile  viaggiatore.

 

Sempre in virtù del topos dell’Eden perduto e immaginato, Dino Campana, sfuggente e fuggitivo per natura e indole, non riusciva a trovare né approdi, né porti, né rifugi, perché l’ altrove di Campana era una chimera; un pio desiderio che egli ben sapeva non si sarebbe mai concretizzato. E così, tra un altrove e una chimera,  siamo arrivati al cuore della poetica campaniana, dove il “viaggio”, sempre allucinato, lo porta a correre, “sperduto” (Montale),  per le strade del mondo. “Poeta in fuga” sentenziò acutamente Montale di Campana, che, per le di lui tremende e “furiose” impressioni della natura e dei luoghi, gli apparve essere quasi un “bardo”, un poeta del profondo romanticismo germanico, tanto da definirlo, tra le altre cose, un poeta germanicus:

 

“A noi sembra che l’orfismo di Campana e la sua illusione di essere un poeta germanicus sperduto nei paesi del sud coincidano nelle intenzioni e persino nei risultati” (E. Montale, “Sulla poesia di Campana”,  in Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 256). Campana sarebbe stato quindi un uomo “sperduto”, “sempre in fuga”,   all’affannosa ricerca di un altrove che, per un uomo prigioniero del “sé”, non esiste su quest’orbe terracqueo, anche se la sua tensione spasmodica era per la chimera dell’ altrove, l’irraggiungibile meta del “prigioniero”. La chimera è soltanto una vana speranza, o, per dirla con Campana,

 

“ Un sorriso di lontananze ignote” o “Sorriso di un volto notturno”: un qualcosa che egli “invoca” incessantemente (E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera), ben consapevole, però, d’essere irrimediabilmente condannato nell’ immobilità dei firmamenti.

“Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m’apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l’immobilità dei firmamenti

E i gonfi rivi che vanno piangenti

E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

Tutte queste belle cose vanno benissimo, e ben s’attagliano ad una figura di poeta intrigato e intrigante come quella di Dino Campana. Però, a quanto par di capire dagli studi biografici, tutto sommato quel “disgraziato” di  Campana sapeva per certo una cosa: che a fare il poeta non si campa.

 

Scrivendo a Papini:

 

“ Se lei ci ha un posto nel suo giornale, sarei contento di essere vicino a Lei, se no mi raccomando che mi trovi qualche cosa altrove” ( G. Turchetta, Dino Campana, biografia di un poeta, Milano, Feltrinelli, 2003,  p. 227. Corsivi miei).

 

Ora, c’è un punto nell’articolo della Cianciaruso su cui concordo, ossia quando osserva:

“L’altrove-sogno e desiderio si sviluppa in una situazione di divieto, come dimora o puro immaginario da cui è vietato l’ingresso” (Corsivi miei).

 

Volendo restare al concreto delle cose, Dino Campana bussò insistentemente a tutte le porte per ottenere alfine “un posto al sole”, traducendo, un lavoro. Ma non un lavoro qualsiasi, un altrove generico, ma un “lavoro intellettuale” di un qualche prestigio, in cui egli potesse far fruttare al meglio le proprie qualità.

 

Cosicché, quando l’amico Binazzi (V. Turchetta) gli offrì la possibilità di fare il correttore di bozze a Bologna, Campana nicchiò, adducendo la scusa  di non sentirsi bene in salute. Non è che Dino Campana, sfuggente e fuggitivo per natura e indole, non riuscisse a intravvedere  approdi, porti, o rifugi: il fatto è che un po’ tutti gli chiudevano la porta in faccia.  Né Papini (seppure ne avesse avuto la benché minima voglia) né altri si “impegnavano” con quel matto di Campana.

 

Turchetta ricorda parecchi “fiaschi” campaniani nel settore “lavoro”. Scrivendo a Cecchi, Campana, pur asserendo di essere disponibile per “un lavoro di qualunque genere” (p. 177), metteva tuttavia in campo il suo CV, osservando:

 

“Conosco le lingue, meno il russo, la cultura scientifica, e mi impegnerei con lei di lavorare coscienziosamente”.

 

Campana “insiste, sottolinea Turchetta, nei tentativi di trovare del lavoro intellettuale in Italia”. Nel 1915 scriveva in questo senso a Renato Serra, il quale tutto sommato si mostrò “possibilista” con Dino: però il tutto restò subordinato ad una frase fatidica di Serra: “Se tornerò” (sottinteso: dalla guerra). E infatti Serra non tornò (Turchetta, p. 177). Poi scrisse a Soffici, proponendogli di redigere un articolo sulla psicanalisi su Lacerba, ma gli andò ancora buca. Insomma l’altrove (lavorare “altrove”, purché fosse un lavoro intellettuale) si mostrò, alla fine, “una situazione di divieto” assoluto, per dirla con  Maria Rosaria Cianciaruso,   delle aspirazioni “intellettuali” del poeta Dino Campana, il quale, allorché si mise a vergare i versi della Chimera, forse ripensava “anche” a tutti i fiaschi avuti nella vita nella ricerca di un lavoro intellettuale, cosa che s’era realmente rivelata una “chimera”, nonostante tutti gli sforzi e le energie profusi nella bisogna. Campana non riuscì mai a conquistarsi un posto al sole, né in Italia né altrove, in  qualsivoglia altra  parte del mondo: soltanto, probabilmente, una panchina (al sole) nel parco del manicomio dov’era ricoverato.

 

In questo senso, penso e credo che le giovani generazioni possano guardare a Dino Campana come al poeta più attuale di tutta la gloriosa storia della letteratura italiana.

 

 

 

Note

 

“La Chimera”, in Canti Orfici,  in Letteratura italiana Einaudi, Edizione di riferimento: Tipografia F. Ravagli, Marradi, 1914,  p. 17.

 

Maria Rosaria Cianciaruso, “Recensione” a La Chimera il viaggio il ritorno (Giornata di studio su Dino Campana 3 aprile 1989), in Cultura e Scuola, gennaio-marzo 1990, pp. 258-260.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.