Un sonetto “incompiuto” di Guido Orlandi: Per troppa sottiglianza il fil si rompe

Su Guido Orlandi, ancora fondamentale resta lo studio di Ezio Levi, secondo il quale  “nacque il secondo Guido Orlandi in un anno che deve essere anteriore al 1265, poiché nel gennaio del 1290 egli aveva un pubblico ufficio in palagio: era approvatore delle sicurtà dei magnati […] Nel 1292 Guido Orlandi apparteneva al Consiglio delle Capitudini delle dodici Arti Maggiori, dove, il 24 novembre, propose che il numero dei priori fosse fissato a sei e che questi non si potessero rieleggere allo scadere del loro ufficio”. Nel 1294,  sentiamo risuonar ancora la voce dell’Orlandi con proposte approvate; e “nel 1296 il nostro Orlandi era Massaro alla Camera” (1).

Guido Orlandi non ebbe per davvero buona stampa presso i nostri studiosi protonovecenteschi. Ercole Rivalta, per esempio, osservava che

“l’ingegno di questo poeta si dichiara nelle rime a tenzone. E’ amante del tenzonare; ma lo fa rozzamente a mo’ dei poeti grossi […] Superstizioso e scolastico nel sonetto di risposta a frate Guglielmo, noioso e pedante nei sonetti a Buonagiunta e a Dino compagni, arrogante e fiacco nella risposta a Dante Alighieri, iracondo debole impacciato sotto i colpi sagaci dell’avversario nella tenzone irosa con il Cavalcanti” (2).

Ercole Rivalta fu senz’altro troppo severo: che l’Orlandi fosse “iracondo” è probabilmente vero; che, al contrario, fosse stato sempre “debole impacciato” nei confronti di Guido Cavalcanti avrei qualche dubbio, proprio perché era un tipo da prendere con le molle. Comunque una cosa è assodata: l’Orlandi si cimentò in diverse tenzoni con Guido Cavalcanti. Pare altresì che un suo sonetto Onde si move, e donde nasce Amore?  fosse stato all’origine della famosa canzone Donna me prega.

Anzi, il nostro Orlandi sembrerebbe addirittura doppiamente intrigato con Donna me prega:  da un lato per aver offerto a Cavalcanti lo “spunto”; e dall’altro per averlo dipoi aspramente criticato, sembra, attraverso un discusso e curioso sonetto: Per troppa sottiglianza il fil si rompe.  In un primo tempo era parso che il fil che si rompe potesse  essere messo in relazione a  Poi che di doglia, sempre  del dominus Guidonis de Cavalcantibus. Ma, a quanto ci dice Valentina Pollidori, il rapporto sembrerebbe “destituito di qualsiasi fondamento” (3 ), per cui ci si potrebbe riferire “ad altri testi”.

La Pollidori, nel suo ampio commento sulle Rime di Guido Orlandi, aveva sottolineato che De Robertis suggerì “come oggetto della contestazione [di Orlandi] la canzone teorica Donna me prega. Questo, sia per alcune risonanze tematiche e terminologiche, sia perché più rappresentativa, nel confronto con Poi che di doglia , di quell’ ‘eccesso di sottiglianza’ ( 4). Per troppa sottiglianza (“complicazione intellettualistica”)  ( 5) il fil si rompe parrebbe dunque essere stata “la” risposta alla dotta e intricata Donna me prega.

Ma le curiosità del sonetto orlandiano non terminano qui: esso, infatti, sembrerebbe “monco” di due versi, che vanamente Alessandro D’Ancona s’era industriato a recuperare:

“Questo sonetto appresso   [ è ] monco di due versi e molto guasto , che a me non riesce del tutto emendare col cod. univ. bologn. 1289” [Corsivi miei] (6 ).

In realtà,  il sonetto irrituale dell’Orlandi non parrebbe “monco” di senso, per cui s’è pensato anche a una “stranezza” formale inventata dall’Orlandi proprio a ulteriore rafforzamento della sua “contestazione” a Donna me prega, ritenuta, a sua volta, “monca” di senso chiaro e compiuto, dall’ombroso Guido Orlandi. L’irrituale stranezza formale sarebbe stata “raccolta” da Cavalcanti, che a propria volta costruì un sonetto “caudato” di risposta, ripristinando così l’equilibrio, aggiungendovi cioè due versi in più (7 ).

La cosa senz’altro più curiosa resta  l’assenza di due versi. Diceva dunque l’Orlandi, con un sonetto che in fatto di “sottiglianza” non aveva nulla da invidiare a nessuno ( 8):

1) Per troppa sottiglianza il fil si rompe

2) e ‘l grosso ferma l’arcone al tenèro,

3) e se la sguarda non dirizz’ al vero,

4) in te forse t’avèn, che[c]ché ripompe;

5) e qual non pon ben diritto lo son pe’

6) traballa spesso, non loquendo intero;

7)———————————————-

8)———————————————-

9) ch’amor sincero -non piange né ride

10) (in ciò conduce spesso omo o fema):

11) per segnoraggio prende e divide.

12) E tu ‘feristi e no.lli par la sema?

13) Ovidio leggi: più di te ne vide.

14) Dal mio ballestro guarda ed aggi tema.

 

Come si vede, nel testo mancano un paio di versi. Ma cosa mai potrebbe aver detto l’Orlandi “se”, putacaso, avesse effettivamente vergato quei due versi e non li avesse, come si dice,  volutamente “saltati” proprio per dare una risposta anche “visivo-polemica” all’intricata Donna me prega?

Tentiamo, allora, un avventuroso quanto immaginario “restauro” dei due versi “fantasma”, puntando a connetterli per senso con il verso 9 [ch’amor sincero-non piange né ride].

1) Per troppa sottiglianza il fil si rompe

2) e ’l grosso ferma l’arcone al tenèro,

3) e se la sguarda non dirizz’ al vero,

4) in te forse t’avèn, che[c]ché ripompe;

 

Il filo dell’arco è molto sottile, dice Orlandi; e, se lo tendi troppo, si spezza. Il filo allora diventa “grosso”, e si attorciglia sul tenèro, cioè, spiega la Pollidori, sul “fusto della balestra” (o del grande arco) bloccandola (9 ), cosicché bisogna, di nuovo, ricaricare il filo stesso (cioè, fuor di metafora: si deve rifare tutto da capo). Se non guardi  alla “realtà” delle cose (e se la sguarda non dirizz’ al vero): se, cioè,  “tiri troppo la corda” coi tuoi voli poetici senza stare coi piedi per terra, guardando alla realtà delle cose, la corda si spezza; sarà necessario allora “ricaricare” l’arco (riprendere da capo per risolvere il problema: in te forse t’avèn, che[c]ché ripompe ) (10 ).

E qual non pone ben dritto Io sompe [son pe’],

traballa spesso non loquendo intero

E chi non cammina dritto, stando attento a dove mette i piedi, traballa spesso, come chi non parla con chiarezza.

Ed ecco “comparire” la lacuna dei due versi “non scritti”, si dice, dal perfido e “iracundo” Orlandi :

7) ………………………………………….

8) ………………………………………….

Ora, poiché il verso 9 recita: “ch’amor sincero-non piange né ride”, immaginerei che il verso 7  (restando sempre nel campo semantico dell’arco e delle frecce) potesse dire:

Or tutte le saette spendi,  irato e fero.

Mentre il verso 8 sarebbe:

Pronto e presto per fedir, ma lui ne scampe…

Explanatio.

“Ecco che tu, al solito irato e feroce (v. 7), scagli contro Amore tutte le frecce che hai a disposizione, tentando in ogni modo di ferirlo a morte: ma lui, Amore, scampa (scampe) al tuo agguato quasi per magia” (v. 8).

Vediamo ora “da chi” ho preso qualche emistichio “in prestito”. Per  Or tutte le saette spendi,  il verso è nei sonetti politici di Giovanni Guidiccioni (or tutte irato le saette spendi) (11 ). L’emistichio Irato e fero è invece  “gionta” farina del mio sacco: l’espressione  vorrebbe in qualche modo legarsi al carattere di Guido Cavalcanti, che la vox populi indicava sempre come “iroso” e, anche, suppongo, piuttosto “crudele” (fero).

   Pronto e Presto per fedir, ma lui ne scampe: “Tu sei rapido a colpire (fedire), ma lui (Amor) sfugge sempre ai tuoi colpi”. “Pronto e presto per fedire” è espressione tolta di peso dalla traduzione che fece Ludovico Castelvetro della Poetica di Aristotele (12 ).

“Scampe” [in allitterazione con ripompe]  nel senso di “scampare un pericolo”, l’ho trovato nel Tommaseo ( 13). Tu tenti, dunque, di colpirlo (fedir), ma lui (Amor) sfugge sempre ai tuoi colpi, si lega abbastanza bene (credo), al verso seguente, in cui si dice ch’amor sincero-non piange né ride: cioè, Amor non è  neppure scalfito dai tuoi colpi; non ne risente proprio poiché tetragono a ogni tentativo di percossa: esso Amor, infatti, né si lagna per ferite patite né s’allegra per alcunché; mentre, invece,  a cotesta  condizione (di pianto o riso) “Amor” riduce uomini e donne, perché, signoreggiandoli, li “prende” e, al tempo stesso li “divide”, separandoli, e quindi “inserendoli”  o tra quelli che ridono per Amor,  o fra quelli che piangono per l’istesso Amor.

E tu feristi e no.lli par la sema?

Tu l’hai percosso. Ma ti pare che ne riporti una qualche cicatrice? (un qualche “segno”? [sema]) (14 ).

Ovidio leggi: più di te ne vide.

Dai retta a me: leggiti Ovidio che ne sa più di te.

Infine, la sarcastica e caustica “frecciata”  contro lo sprovveduto Cavalcanti,  che aveva isperato in cuor suo di saper colpire Amor:

Dal mio ballestro guarda ed aggi tema [!]:

verso che concluderei con un bel punto esclamativo, a marcare la “velata” minaccia di Orlandi contro l’ attentatore alla vita di Amor: “Se proprio devi aver “paura” di qualcosa, ricordati delle frecce scagliate dalla mia balestra: quelle sì  che lasciano il segno!”.

Piuttosto minaccioso il nostro Orlandi, il quale deve aver sbuffato non poco di fronte alla pretensiosa Donna me prega, senza cavarne, suppongo, se non un bel ragno dal buco.

A parte la boutade, resta comunque il fatto che l “ultimo verso” potrebbe essere  quello più indicativo  della risposta “polemica” contro Donna me prega. Insomma, l’Orlandi avrebbe detto, in riferimento al “terrore” che secondo Cavalcanti l’amore dovrebbe ispirare, “portando l’uomo a morte”:

“Non è dell’Amore che devi aver “paura” (tema); ma, casomai, dovresti temere molto di più delle frecce del mio arco, che, quando arrivano a segno, quelle sì che lasciano il “segno-sema-cicatrice”.

Non saprei se Cavalcanti avesse preso sul serio le minacce dell’ Orlandi, ma sicuramente si sarà sempre assicurato di non averlo mai alle spalle, specie nelle buie contrade delle notti fiorentine dell’ormai declinante Dugento.

 

Note

  • Ezio Levi, “ Guido Orlandi. Appunti sulla sua biografia e sul suo canzoniere”, In Stor. Della Lett. It., 1906, Vol. XLVIII, p. 5.
  • Ercole Rivalta, “Commento critico alle rime. Le rime di Guido Orlandi”, in Liriche del Dolce Stil Nuovo. Guido orlandi, Gianni alfani, Dino Frescobaldi, Lapo Gianni, Venezia, S. Rosen, Editore, MDCCCCVI, p. 154.
  • Valentina, Pollidori, “Le Rime di Guido Orlandi”, in Studi di filologia italiana, 1995,    124.
  • Ivi, p. 125.
  • “Annotazioni”, in La Vita Nuova di Dante Alighieri, per cura di Alessandro D’Ancona, Pisa, 1872, p. 109.
  • Carlo Calenda, “ ‘Di vil matera’: ipotesi esplicativa di una ipertrofia strutturale”, in Strumenti Critici, 1982, pp. 139-147.
  • Il testo è in Pollidori, cit., p. 126.
  • Tenèro : indica propriamente il fusto della balestra , cfr . Conv . IV XXIV 3 , ‘lo tenere’” (Cfr. Pollidori, cit.,  127)
  • Sull’arco da “ricaricare” sono d’accordo con il Favati (cfr. Pollidori, cit.,  127 nota 4).
  • Ezio Chiòrboli, “I sonetti politici di Giovanni Guidiccioni”, in Antologia della critica e dell’erudizione, a cura di Francesco Flamini, Napoli, Francesco Perrella, s.d., Vol. II, 45.
  • Poetica d’Aristotele volgarizzata et sposta [sic] per Lodovico Castelvetro, Basilea, Pietro De Sedabonis, MDLXXVI (1566),  p. 552.
  • Dizionario della lingua italiana, Nuovamente compilato da Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Torino-Napoli, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1872, Vol. IV,  601 ad vocem.
  • Su “sema” [visibile cicatrice], cfr. Pollidori, cit., p. 128.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.