Una voce da Brooklyn: ci sarà una “permanente economia di guerra”

Uscire dalla crisi, uscire dal tunnel, crescita, freni nell’economia, rallentamento della crescita e della “nostra” economia: queste sono espressioni che si sentono e si leggono di continuo, secondo un rito che sembra un’interminabile litania a cui più nessuno sembra prestare attenzione non più di tanto, secondo la regola “aurea” dell’assuefazione a informazioni ripetute “ad libitum”.

Alla fine, ci si  chiede se, o semmai, questa interminabile crisi dell’economia a livello planetario conoscerà anche una fine,  e se mai torneranno gli anni ruggenti del boom economico che vide la gente con soldi in tasca, cosa  che  ormai sembra relegata fra le nebbie del mito. L’ipotesi di una soluzione, a lunga o media gittata, sembrerebbe, però,  nell’ordine delle cose, almeno a lume di ragione.  Rimane tuttavia in sottofondo la vaga impressione che il mito degli anni ’60 continuerà a permanere quello che è:  un mito, e che  si proseguirà lungo i sentieri d’una crisi pressoché eterna.

“Donde deriva tanto pessimismo?”,  qualche nostro overenthusiastic political animal (l’uomo, da intendersi “anche”  come “animale politico” è dotta espressione aristotelica)  potrebbe dire.  Deriva dalla considerazione che ci doveva essere qualcosa di vero nella “profezia” di Walter J. Oakes , che scrisse un articolo molto acuto nel lontano aprile  del 1944, in cui si pose il problema dei destini futuri dell’economia mondiale, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Secondo Oakes  l’economia-mondo  avrebbe avuto come dato “permanente” il  fatto che il mondo intero, e l’Italia con esso, avrebbe esperito quanto si  sta esperendo ormai da anni: un deciso “calo del tenore di vita”.

Che Oakes , al di là della posizione politica ( di orientamento socialista), fosse  mente esperta lo si deduce da alcuni passaggi della sua “profezia”. Ne cito qualcuno, tanto perché ci si renda conto che non sto raccontando delle  ba…[rzellette]. Nella sua straordinaria outline sui destini futuri del mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale, Oakes  menzionava i seguenti “eventi”:

1)      “La fase europea della seconda guerra mondiale si concluderà sul finire del 1944”.

2)      “La fase asiatica della seconda guerra mondiale si concluderà sul finire  del 1945”.

(“The European phase of World War II will end late in 1944”).

(“The Asiatic phase of World War II will end late in 1945”) (1).

Benissimo. Ma entriamo ora nei regni misteriosi dell’economia, e ascoltiamo quanto Egli ci dice in proposito. Negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, il problema “permanente” non sarà  la disoccupazione:

“Se la permanente economia di guerra si  stabilizzerà  al più alto livello, la disoccupazione sarà eliminata, ma  l’occupazione riguarderà soltanto  i settori economicamente improduttivi. Così l’accumulazione capitalistica, invece di (com)portare un aumento della disoccupazione,  avrà come principale conseguenza un calo del tenore di vita” [ “If the Permanent War Economy succeeds in stabilizing the economy at a high level, unemployment will be eliminated, but only through employment in lines that are economically unproductive. Thus capitalist accumulation, instead of bringing about an increase in unemployment, will have as its major consequence a decline in the standard of living”] (Traduz. mia) (2).

Sul fatto che l’economia “tirasse” dopo la Guerra in forza della ricostruzione e attivasse la quasi “piena occupazione” non v’è discussione (3);  e va da sé che è abbastanza chiaro cosa intendesse Walter J. Oakes con l’espressione “permanente economia di guerra”: nelle fasi di un conflitto di portata mondiale, è evidente (e soprattutto “provato”) che si chiedono “sacrifici” (economici) alle popolazioni, poiché le risorse sono indirizzate essenzialmente verso gli armamenti e le spese di guerra. Nessuno s’è mai meravigliato di questo fatto, ritenuto assolutamente normale, se non addirittura “naturale”. Ma se lo stato di “permanente economia di guerra” si prolunga anche in tempi di pace, è altrettanto evidente che alle popolazioni sono richiesti ulteriori “sacrifici” in termini di reddito familiare, per cui essa popolazione conoscerà un persistente “calo del tenore di vita”, di cui però pochi  sembrano in grado di determinarne le cause. Ora, non mi pare il caso di ripercorrere passo passo le deduzioni e controdeduzioni  di Oakes ( al quale rinvio); ma, pur rimanendo in superficie, mi soffermerò su alcune delle sue considerazioni maggiormente degne di menzione:

“La maggior parte dei civili non ha ancora (ri)sentito il pieno l’impatto di questo sviluppo a causa dell’accumulo di enormi scorte di beni di consumo nelle mani di mercanti e di consumatori (Oakes  sta parlando del tenore di vita degli Americani nel 1944). Ma non appena le scorte di magazzino saranno esaurite, continua, e quando i beni durevoli di consumo saranno “usurati”,  il tenore di vita comincerà a diminuire notevolmente” [“Most civilians have not yet felt the full impact of this development because of the accumulation of huge inventories of consumers’ goods in the hands of both merchants and consumers. As these inventories are depleted and as consumers’ durable goods wear out, the standard of living begins to decline noticeably”] (4). Il perché è ovvio: la gente non avrà più soldi in tasca per “rinnovare” ciò che Oakes  definisce “i beni durevoli di consumo”.

Questo stato di permanente guerra economica, e il conseguente calo del tenore di vita, costituirà dunque  il volto, appunto,  “permanente”, del capitalismo internazionale per un tempo che sarà destinato a perdurare su tempi lunghissimi, di cui non abbiamo per il momento la benché minima nozione.

 

Se qualcuno vuol rifarsi gli occhi e stapparsi le orecchie (e non soltanto) si vada a leggere il saggio di Oakes, il quale, tra le sue ulteriori “profezie”, ci diceva, nel febbraio del 1944, che:

 

“World War III will occur in 1960”.

 

“La Terza Guerra Mondiale (quella economica) avrà luogo a partire dagli anni ’60. La conduzione degli affari mondiali nel periodo tra la seconda e la terza guerra mondiale  sarà nelle mani degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Russia, con l’imperialismo americano come partner dominante […] Nessuna rivoluzione proletaria avrà luogo con successo, e  lo stalinismo si manterrà  ben saldo al potere in Russia” (5). Questo rilievo è estremamente importante, perché, si sottolinea, la “profezia” di Oakes  fu in seguito confermata in corpore vili. Negli anni del dopoguerra, il partito in Unione Sovietica si chiuse sempre più a riccio, creando una nomenclatura di “cooptati” assolutamente impermeabile, e chiusa a qualunque “infiltrazione” proveniente dalla società. Ecco perché lo stalinismo sopravvisse allo stesso Stalin:

“La svolta verso una politica di blocco sarebbe tuttavia avvenuta soltanto alla fine del 1947  […] Il colpo di freno alle ammissioni comportò un netto ritorno verso la concezione elitaria dell’accesso riservato alla gente migliore” (6). Come s’individuassero i “migliori” da insediare ai vertici del partito è  un dato che lascio sbrogliare alla fantasia dei lettori, anche di quelli meno smaliziati.

Tornando al nostro tema,  una “forma di egemonia economica internazionale (grossraumwirtschaft), continua Oakes,  disciplinerà le relazioni economiche tra le principali regioni del mondo.  Ci sarà sì un ripristino, limitato, del commercio internazionale, ma basato sull’ intervento aperto e diretto dello Stato”[ “Conduct of world affairs in the interim period between World Wars II and III will be in the hands of the United States, Great Britain, and Russia, with American imperialism the dominant partner. No successful proletarian revolution will take place. Stalinism will successfully maintain itself in power in Russia. A form of international grossraumwirtschaft will govern economic relations among the major economic regions of the world. There will be a limited restoration of international trade based on direct and open State intervention.”] (7).

Il ben noto “interventismo” statale, le cui scaturigini risalgono, per via teorica, a John Maynard Keynes, e, in via “pratica”, al Piano Marshall.

Il 1960 preconizzato da Oakes, sembrerebbe mancare il bersaglio, ma l’Avveduto  ci avverte che la grande crisi sarebbe potuta  iniziare “anche” un po’ più tardi,  fra il 1965 e il 1970 : ci siamo, dunque,  anche con i tempi:

“Even if World War III should take place in 1965 or 1970, rather than, as predicted, in 1960.” (“Anche se, postilla Oakes, la terza guerra mondiale potrebbe aver luogo nel 1965 o nel 1970, anziché nel 1960 come s’era predetto”) (8).

Questo per dire che, invece di farci riempire le orecchie di assordanti nullaggini e assurdità, bisognerebbe (ri)considerare le voci del passato, e in particolare “una” voce: quella dell’allora giovane studioso che rispondeva al nome di Walter J. Oakes, il quale, secondo le Notes on Contributors, nel lontano 1944 stava conducendo studi sulla War Economy, vivendo egli in Brooklyn  (9).

Oakes  concludeva il suo articolo immaginando (giustamente) che la sua analisi non avrebbe incontrato “any enthusiastic reception”; e che sarebbero occorsi molti e molti anni prima che essa fosse stata consegnata “to the history texts”; anche perché, chiosava Egli finemente, “Social Democrats are still for socialism in theory and capitalism in practice” (10).

Chiaro no?

 

Note

1)      Walter J. Oakes, “Toward a Permanent War Economy?” in Politics, February 1944, n. 1, p. 15.

2)      Ivi,  p. 14.

3)      Ivi, p. 12.

4)      Ivi, p. 14.

5)      Ivi, p. 15.

6)      Silvio Pons, “Il partito nel sistema di governo dell’URSS staliniana”, in Studi Storici, luglio-settembre 1985, n. 3, p. 701 e p. 704.

7)      Walter J. Oakes, Toward a Permanent War Economy?…, cit.,  p. 15.

8)      Ivi, p. 16.

9)      “Notes on Contributors”, in Politics,  cit., p. 32.

10)    Ivi, p. 17.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.