V. Woolf e i gatti di T. Hardy

gatti

 

 

I “sospetti” di Virginia Woolf

Virginia Woolf è ben nota al pubblico, e non ha certo bisogno di particolari presentazioni. E’ altresì ben nota la sua straordinaria capacità di penetrazione psicologica, attenta a tutte le sfumature e ai dettagli più insignificanti, che ebbe modo di esercitare anche sui colleghi scrittori, e, tra questi, sul malcapitato Thomas Hardy. Virginia Woolf, in una lettera a Janet Case, scrisse che “ Thomas Hardy, ahimè, è soltanto un vecchio gentiluomo molto vanitoso, tranquillo, formale, privo di interesse […] Il suo principale argomento di conversazione è la morte dei suoi gatti: tre di essi sarebbero stati investiti dal treno; il che è molto strano, perché la ferrovia passa abbastanza lontano dalla casa di Hardy… ” (1).

Virginia Woolf, con questa storia dei gatti (presumibilmente) morti sotto il treno, lancia però lampi di luce sinistra sulla tranquilla figura di Thomas Hardy, e lascia il lettore con questo sospetto: e se i gatti li avesse ammazzati lui? Non lo sapremo mai, ma, forse, rileggendo la placida vita di Thomas Hardy, qualche psicologo diligente riuscirà, un giorno o l’altro, a capire se i “sospetti” di Virginia Woolf fossero fondati o no. Dal canto nostro, ci limitiamo ad una semplice panoramica dei lavori di Hardy, da cui, forse, si può estrapolare una qualche risposta ai “sospetti” di Virginia Woolf. Satireggiando un po’, e ripensando anche al fatto che il primo romanzo T. Hardy era intitolato “Rimedi disperati” [ “Desperate Remedies” ], verrebbe malignamente da ipotizzare che il nostro Hardy, fosse stato colto da un raptus per via dei gatti che gli si aggiravano per casa tutti i santi giorni, giorno e notte, e avesse alla fine escogitato un “rimedio disperato” per disfarsene. Ma lasciamo stare le battute , e veniamo alla biografia di Thomas Hardy, che, nato nei pressi di Durchester, nel Wessex, dopo una breve carriera come architetto, si dedicò interamente alla letteratura.

“L’istinto punitivo” di T. Hardy

Hardy scrisse romanzi e poesie, ma fu con i suoi romanzi che divenne popolare. Dopo i succitati “Rimedi disperati”, T. Hardy scrisse una lunga serie di altri racconti. I migliori sono: “Far from the Madding Crowd” [Via dalla pazza folla] (1874), “The Return of the Native” [Il ritorno del paesano] (1878) e un romanzo del titolo “misterioso”, “Jude the obscure” [Giuda l’oscuro]” (1896), storia delle ambizioni frustrate da un destino avverso. Effettivamente, i personaggi dei romanzi di Hardy sono tutti più o meno degli emarginati, in continua lotta contro un destino implacabile, un destino cieco e distruttivo contro cui essi si scontrano, ma con scarse probabilità di successo. Ma, qual è la posizione di Hardy di fronte alle difficoltà dei suoi personaggi? È impressione generale della critica più o meno recente che Hardy abbia un forte “istinto punitivo” nei confronti dei suoi personaggi, i quali “devono” in qualche modo essere puniti, perché in conflitto con i valori della società.

Ad esempio, in “Giuda l’oscuro”, Giuda è alla fine punito per la sua sfrenata ambizione; e in “Tess of the D’Urberville” [Tess dei d’Urberville] (1891) l’eroina è punita per la sua natura sensuale. Si individuerebbe pertanto in Hardy un istinto punitivo “implacabile”. W. A. Davis sottolineava che Hardy si riferiva a se stesso come “an acting Magistrate” [un giudice ad interim]: “In a letter written in 1903 to Maynard Shipley, for example, Hardy prefaced his brief remarks concerning capital punishment as an effective but morally questionable deterrent to crime by referring to himself as ‘an acting Magistrate’ (CL 3: 58).” [In una lettera scritta nel 1903 a Maynard Shipley , per esempio , Hardy faceva alcune brevi osservazioni riguardanti la pena capitale, ritenendola un efficace, anche se moralmente discutibile deterrente al crimine, facendo riferimento a se stesso come ad “un giudice ad interim”] (2). Lo stesso W. A. Davis, aggiungeva che tali convinzioni avevano le loro radici nel fatto che Hardy riconosceva pienamente “the moral right of a community to inflict that punishement” [il diritto morale di una società di infliggere tale pena”].

Se queste erano dunque le premesse, forse c’era in Hardy, oltre che un forte sentimento punitivo, anche un altrettanto potente desiderio di “auto-punizione”. E il fatto che negli ultimi anni, come notava Virginia Woolf, “il suo principale argomento di conversazione fosse la morte dei suoi gatti”, forse sta a significare che, effettivamente, la cosa aveva un peso rilevante nella coscienza del “Magistrate in acting”.

Note

1) “Thomas Hardy, alas, is only a very vain, quiet, conventional, uninteresting old gentleman […] His chief topic of conversation the death of his cats, three were run over on the railway line; which is odd, as the railway is at some distance” . Cfr. “The Letters of Virginia Woolf”, Hogarth Press, 1976, Vol. II, p. 559.

2) Cfr. W. A. Davis, “Thomas Hardy and the Law: Legal Presences in Hardy’s Life and Fiction”, Associated University Press, 2010, p. 18.

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.