“Ma va’ là”: il neorealismo dei “Sentieri dei nidi di ragno”

A Italo Calvino non sembrava, come scrisse nella Prefazione a I sentieri dei nidi di ragno dell’edizione einaudiana del 1964, d’aver scritto un romanzo all’altezza dello spirito della Resistenza. In questo senso, egli asseriva che sicuramente meglio di lui tale spirito era stato interpretato da Beppe Fenoglio, che della Resistenza aveva saputo dare un quadro molto più aderente alla “realtà dei fatti”, nonché descriverne  il clima (1).

 

L’auto-iper-critica di Calvino fu, con la citazione di Fenoglio (e non di altri, lo si sottolinea), un dovuto omaggio a chi aveva vissuto la guerra di Resistenza nelle sue più forti implicazioni umane.  Ma, “oltre” e “dietro” Fenoglio, Calvino sapeva bene che c’era la “turba” immane degli epigoni, che avevano interpretato il realismo, o meglio il Neorealismo come una semplice e pura “aderenza” pedissequa alla realtà. Dietro il Neorealismo letterario, e Calvino lo sapeva altrettanto bene, c’erano però altre implicazioni che non la semplice e banale “riproduzione della realtà”.

 

Dal punto di vista strettamente letterario, c’erano dei nodi  linguistici non indifferenti, e non facili a sciogliersi,  che s’andavano a saldare con i modi con cui la letteratura italiana s’era intrigata da sempre con il  realismo e non. E uno di questi, e dei più inveterati,  era quello concernente la lingua e la generale tensione degli scrittori alla “bella pagina” e alla “bella scrittura”. Il Neorealismo doveva quindi confrontarsi sì con i “fatti”, ma anche con la lingua con cui tali fatti erano esibiti.

 

Calvino dunque si pose nell’ottica di chi si sforzava di dare una risposta al nodo gordiano della sostanziale “impopolarità” della letteratura italiana, fenomeno di cui tutti erano coscienti, e che si potrebbe compendiare nell’uso costante di una lingua “alta”. Calvino tentò, con i Sentieri,  di  scovare, appunto, il “sentiero” più acconcio per arrivare a proporre in un’opera letteraria la “lingua parlata”, superando le possenti barriere poste alla lingua mediana e bassa dalla tradizione letteraria italiana.   I suoi Sentieri dei nidi di Ragno  forse potrebbero apparire anche poco consentanei agli eventi che contraddistinsero la guerra di Resistenza, ma, da un punto di vista strettamente linguistico, essi risultano alla fine una “conquista”  in vista di una fruizione “popolare” della letteratura.

 

In questo senso, il lavoro di Raffaella Conti è stato veramente egregio (2). Il suo saggio sul “parlato” nei  Sentieri dei nidi di ragno, condotto con un’analisi serrata del testo di Calvino, ci offre uno strumento prezioso per individuare le forme discorsive implementate da Calvino nel romanzo. Ci limitiamo soltanto a qualche esempio tratto dall’ampia disamina condotta dalla Conti . Nel “parlato”  ricorrono spessissimo sia l’avverbio “allora” sia il verbo “dire”, dei quali  Calvino fece largo uso nelle forme dialogiche:

Allora, cosa ci racconti di nuovo?”.

Allora: è andata male? Abbiamo avuto morti?”.

Allora. Quale piglio?”

“Pin, allora per quella cosa siamo intesi”.

“Mi chiamo Lupo Rosso. Quando il commissario m’ ha detto che Ghepeù non andava bene, io gli ho chiesto come mi potevo chiamare, e lui ha detto: chiamati Lupo. Allora io gli ho detto che volevo un nome con qualcosa di rosso perché il lupo è un animale fascista. E lui m’ ha detto: allora chiamati Lupo Rosso”.

 

E con “Lupo Rosso”, e i tanti altri nomi “fantastici” che ricorrono nel romanzo, come il Giraffa, Kim, il Dritto, lo stesso Pin, forse diminutivo di Pinocchio,  cerchiamo di tirare una qualche conclusione sul neorealismo di Calvino nei Sentieri. Qui, fa notare ancora G. Bonura, c’è  “lo schema della fiaba” (p. 51): uno schema cui Calvino rimase fedele in tutta la sua produzione letteraria.

 

Però, Il fatto che Calvino avesse perseguito un neorealismo “fiabesco” non andava a genio a tutti, ché molti avrebbero voluto che  l’argomento “Resistenza” fosse stato trattato con toni più “severi”. Così, per esempio, a Giancarlo Ferretti, intervenuto sui Sentieri, era parso che  Calvino guardasse  “alla stagione della resistenza più come a un mito che come a un evento storico da sviscerare […]  con una nuova intelligenza storica”   ( in G. Bonura, pp. 160-161).

 

In sostanza, a molti parve che, rispetto a un tema come quello resistenziale, Calvino fosse alla fine risultato un po’ troppo “fiabesco”. Ma il neorealismo di Calvino, pur sembrando viaggiare su binari “anti-realistici”, s’era intanto posto, neorealisticamente, il problema della lingua; e poi, quanto all’elemento “fiabesco”, Pavese, pur subodorando che le sue parole non avrebbero “commosso nessuno” (anzi, avrebbero probabilmente fatto arrabbiare parecchi), sentenziò:

 

“Se diciamo che questo Sentiero dei nidi di ragno […] bocciato al concorso Mondadori e vincitore di quello di Riccione è il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana, nessuno sarà troppo commosso” (in G. Bonura, p. 156).

Infine, dico io,  per tutti quelli che insistessero a “pedinare” la realtà nella convinzione di essere “realisti”, o “neorealisti” valgano (per quelli che ancora giurano in verba magistri) le seguenti parole di Marcel Proust, che, evidentemente, e molto ante litteram, era perfettamente d’accordo con Calvino:

 

“La letteratura che si accontenta di descrivere le cose, nonostante le sue pretese di realismo, è la più lontana dalla realtà”  (3). Ipse dixit. Passando adesso al cinema, dove il Neorealismo ebbe i suoi massimi splendori, possiamo dire che Calvino ebbe dalla sua anche intellettuali della stazza di Umberto Barbaro, il quale asserì categorico:

 

“Più il cinema imiterà meccanicamente la vita e più riuscirà idiota e contrario ad ogni godimento dell’arte. Sento dire da tanti che il pubblico ama solo il reale quotidiano, la riproduzione esatta al possibile della sua vita, di ogni momento.

Ma nemmeno per idea!

Le cose più gradite al pubblico, oggi, sono i cartoni animati, antirealistici per eccellenza” (4).

 

E con ciò il neorealismo “fiabesco” di Italo Calvino non soltanto parrebbe assolto, ma sembrerebbe anche l’unico che possa essere accolto “a cuor leggero” nel mondo dell’arte, e della letteratura in modo particolare.

 

Cosicché Calvino avrebbe potuto rispondere ai suoi austeri critici con un magnifico e popolaresco “va’ là, ma va’ là e va’ là”, espressioni colloquiali con cui, chiosava R. Conti, “il parlante intende generalmente esprimere la propria incredulità” (5).

 

Note

1)      G. Bonura, Invito alla lettura di Calvino, Milano, Mursia, 1972, p. 42.

2)      R. Conti, “Il ‘parlato’ in Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino”, in Cultura e Scuola, gennaio-marzo 1986, p. 12.

3)      La frase di Proust è citata in G. P. Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di Neorealismo (1930-1943), Padova, Liviana, 1969, p. 34. L’edizione di riferimento è M. Proust, Il tempo ritrovato, Torino , Einaudi, 1958, p. 184.

4)      G. P. Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di Neorealismo (1930-1943), cit., p. 41.

5)      2)      R. Conti, “Il ‘parlato’ in Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino”, cit., p. 8.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.