Versi immortali nella nuova poesia italiana

Tra la fine degli anni ’60 e per tutto il 1970 (e oltre), si assistette in Italia a quella che fu definita la rinascita della poesia. Si trattò di un’operazione che fu supportata da parecchi esponenti della neoavanguardia, come Adriano Spatola, per esempio, per il quale la rinascita della poesia in Italia si deve appunto datare dal 1975 o giù di lì. Come dicevamo, la rinascita nacque sotto l’egida della neoavanguardia e del Gruppo 63, di cui faceva parte anche Lamberto Pignotti.

 

Una produzione ragguardevole di quella rinascenza poetica riguardò la poesia visiva, in cui l’aspetto tipografico dei versi assumeva una notevole rilevanza. Al di là degli aspetti visivi, anche i contenuti erano spesso provocatori, tipici cioè della produzione neoavanguardista. In questo senso, “visibilità”  dei caratteri tipografici e ironia corrosiva furono, per esempio, la caratteristica saliente di un poeta legato alla neoavanguardia come Lamberto Pignotti.

 

In genere i poeti d’avanguardia scrivevano per riviste  d’avanguardia, come Altri termini e Colibrì. In un numero di quest’ultima, nel 1979, apparve  una poesia di Lamberto Pignotti, dal titolo Lamberto Pignotti scrive versi immortali. La presunzione di Pignotti di scrivere versi immortali non era infondata, anzi. Ciò perché la sua poesia era un centone dei più celebri versi dei poeti italiani più noti a intere generazioni di studenti. Tipograficamente, i versi s’intersecavano, risultando coerenti e non confondibili grazie appunto ai procedimenti tipografici. Cosicché i versi immortali di Pignotti sono i seguenti:

 

Ei fu siccome immobile, di Manzoni. Versi inquadrati in un rettangolo, a sua volta intersecato da un verso di Foscolo: Un dì s’io non andrò sempre fuggendo. Nell’angolo destro si legge Romagna solatia dolce paese di Pascoli. Campeggia, a caratteri cubitali,  nel mezzo, in stampatello e vergato da pennarello con inchiostro nero,  il t’amo o pio bove di Carducci, a sua volta intersecato con nel mezzo del cammin di nostra vita, d’autore ignoto. I suddetti versi immortali di Carducci e Dante erano “fenduti” da altri versi vergati con altre più sottili segni a penna e matita: da Chiare e fresche e dolci acque di Petrarca, a  Forse perché  della fatal quiete ancora  di Foscolo, per finire a  C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole di Pascoli, nonché da uno sbiadito Silvia rimembri ancora di Leopardi. Pignotti era noto per la sua carica ironica, e bisogna riconoscere che i suoi versi suonano davvero immortali.

 

Che siano poi versi d’altri poco importa: l’impatto sul lettore è notevole, e ne stuzzica le reminiscenze scolastico-letterarie. Ciò che rende avanguardistico l’esperimento di Pignotti è la riduzione dei versi immortali a segni ormai obsoleti di una poesia che fu.  Quasi epitaffio della morta poesia classica italiana, ridotta  a pura  memoria scolastica e pertanto banalizzata e resa inutile: un puro residuo, un cascame ormai inerte.

 

Tutto bene. Siamo di fronte a un’azione di “riuso” della tradizione poetica italiana in funzione della “meraviglia” del lettore. “E’ del poeta il fin la meraviglia”, diceva un tale nel ’600. Per come la vedo io, farei rientrare Pignotti nel Pantheon della lirica italica, ovvero nelle Antologie scolastiche, che sanciscono, almeno per qualche secolo,  chi ha diritto al Pantheon stesso.

 

Ma con quale “funzione” i versi immortali di Pignotti entrerebbero nel Pantheon Antologico ad uso delle scuole superiori italiane? Mi pare evidente: come “ripasso” per i nostri studenti dei maggiori poeti della vituperata “tradizione” letteraria italiana.

 

Note:

 

Per una visione delle maggiori riviste avanguardistiche, da Atri termini a Colibrì, con vari esempi di poesia visiva Cfr.  L’Affermazione negata. Antologia di ‘Altri termini’. Poesia, Teoria, Critica, a cura di M. D’Ambrosio, Napoli, Guida, 1984,  pp. 121-131.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.