Il “tum quom tu[m]” di C. Cornelio Gallo nel papiro di Qaṣr Ibrîm

 

 

 

 

Ribadisco il convincimento che il “Caesar” citato da Gallo nel papiro di Qaṣr Ibrîm fosse Giulio Cesare, e non Ottaviano filius Deivi Caesaris (1). Reitero altresì quanto in più d’una occasione m’è intervenuto di dire: e cioè che quel “tu” del papiro di Qaṣr Ibrîm “non può essere un ‘tu’”, ma un qualcosa d’altro. Avevo pensato a un “tu-a” o a un “tu-i”, con la “a” o la “i” finali cadute per abrasione. In verità quel “tu” può essere lasciato “così com’è”, ma con la notazione che quel “tu” “non è”, comunque lo si rivolti, il “tu” pronome personale di seconda persona singolare: la conclusione (che anticipo) è che esso “tu” altro non sia che un “tum” (reiterato): dove la “m” finale “non” era espressa graficamente nelle iscrizioni, “mentre”, il soggetto di “erit” è “Caesar” (sottinteso) dopo “quom tu<m>”:

Fata mihi, Caesar, tum erunt mea dulcia, quom tu<m>
<Caesar> Maxima Romanae pars erit historiae.

Sullo stile arcaizzante di Gallo ci sono prove certe nel papiro di Qaṣr Ibrîm: da “deivi” a “quom”, per non parlare delle “spolieis deivitiora tueis”. Se andiamo all’ Indice analitico di Wilhelm Kroll, alla voce “quom”, si è rinviati a “cum”: se andiamo a “cum”, tra parentesi, troviamo “Cum (quom)”. Poi Kroll ci spiega un dato stilistico molto interessante relativamente a “quom”; e cioè che “quom” è “chiaramente un accusativo maschile e rivela la sua natura relativa unendosi spesso a un elemento di relazione (2). Ora, tra tutti gli “elementi di relazione” privilegiati da “quom” ce n’è uno in particolare con cui esso fa sempiterno connubio, ovverossia “tum”:

“C’è in primo luogo, ‘tum’”, dichiarava Kroll.

Sì: ma allora per quale ragione nel papiro di Qaṣr Ibrîm (se “tu” è “tum”) non leggiamo “quom tum” , bensì un magnifico “quom ‘tu’”? La radice di siffatta scelta stilistica è di natura arcaizzante e storico-tecnica. Ipotizzo, pertanto, che ci possano essere stati due “tum” in successione: ‘tum erunt mea dulcia’; e, dopo “quom”, l’iterazione di tu[m] : il tutto si risolve in una questione fonetica su cui tutti gli studiosi concordano; e cioè che la “m” finale spesso “non era” scritta nel latino arcaico.

In pratica quel “tu” in finale di verso potrebbe essere, come dicevo, un “tu-m”. Siccome la ‘m’ finale, in età arcaica (come nelle lingue romanze), è in posizione “debole” in fine di parola, spesso non veniva neanche scritta: non era cioè espressa “graficamente”. “Del resto, scriveva Carlo Tagliavini, è noto che nella metrica latina ‘-m’ viene eliso dinanzi a vocali ( segno che non si pronunciava ormai più o era debolissimo ) . Anche i grammatici parlano diffusamente della pronuncia debole di ‘m’ finale, aggiungeva il Tagliavini […] Nel Romanzo, ‘m’ finale non lascia traccia” (3).

Così, il vetusto Paolo Marzolo rilevava, a proposito di “m” finale, che “Prisciano già lo dice che appena si sentiva ‘m’, [che] ‘obscurum in extremitate dictionum sonat’; e Quintiliano ‘paene cujusdam novae litterae sonum reddit, neque enim eximitur, sed obscuratur’”. Molto interessante era poi quel che asseriva, continuava Marzolo, Verrio Flacco, il quale “scriveva l’M finale solo per metà, per esempio TVΛ = ‘tum’ […] E Catone Censorio la sopprimeva del tutto” (4).

Le informazioni forniteci dal vecchio Marzolo sono del tutto conformi a quelle di W. Sidney Allen, il quale stabilisce che “Priscian, K, ii, 29” diceva che “ ‘m’ ‘obscurum in extremitate dictionum sonat’”; aggiungendo che “in early inscriptions one often finds the final ‘m’ omitted, e.g. in the third-century epitaph of L. Corn. Scipio: ‘honc oino ploirume cosentiont … duonoro optumo fuise viro’ (=hunc unum plurimi consentiunt …bonorum optimum fuisse virum). In the course of the second century, the official spelling established the writing of final ‘m’; but forms without ‘m’ continued occasionally to be found […] Verrius Flaccus is said to have favoured writings a half-‘m’ (Λ) […] Quintilian (IX, 4, 40) describes it as hardly pronounced; and later grammarians refer to it as being completely lost” (5).

Secondo modulo arcaico “tum” era inoltre preferito a “tunc”, alter ego di “tum” . Infatti, ci spiega paziente Thomas Kerchever Arnold, “Tunc = ‘tum-ce’ or ‘tum’ with the demonstrative syllable ‘ce’ appended” (6). Quindi “tunc” (=tum-ce) è interscambiabile con “tum”, e ciò dipendeva da una precisa scelta stilistica. Stabilito che, come diceva Orazio Tursellino, “‘Tum’ pro ‘tunc’ usitatissimus est” (7), G. Garbugino rileva :

“È noto , infatti , come Nonio tendesse sistematicamente a sostituire ‘tunc’ a ‘tum’ ; d’altra parte nella produzione sallustiana superstite esiste un solo esempio certo di lezione ‘tunc’ . Si tratta di un accorgimento stilistico con cui Sallustio tende ad evidenziare un momento di particolare intensità , sottolineata dalla presenza di un infinito narrativo e dalla risonanza ‘patetica’ dell’avverbio posto in prima sede” (8).

E’ evidente che, se Gallo predilesse “tum”, dopo “quom” (e non ‘tunc’), ciò fu dovuto a una scelta stilistica fortemente connessa sia al fatto che “quom” prediligeva “tum” dopo di sé; sia perché, privilegiando “tum”, ciò offriva al fido traduttor d’Euforione la possibilità di “non esprimere graficamente” la “m” finale, dando così ulteriore spessore alla “veste arcaizzante” dei propri versi.

Riassumendo, e per usare le parole stesse di Thomas Kerchever Arnold , abbiamo che “tum” “is the correlative of quum” (= cum-quom); e tale scelta stilistica era spesso usata “in enumerating facts, argumrents etc.”; e che la successione “’tunc’-‘tum quum’” (‘quom’) possedeva anche il valore di “eo ipso tempore” (= al tempo istesso); e ciò trova conferma in Kroll, secondo il quale “quom tum” ha valore di “eo tempore quom” (Cic. Lig. 20). Infine, concludeva Kroll, “le proposizioni relative con ‘quom’ hanno, in origine, il verbo all’indicativo, assolutamente preminente in Plauto” (9). E infatti, l’ “arcaizzante” C. Cornelius Gallus mise il verbo all’indicativo: un magnifico “erit” (indicativo futuro) , per la dannazione di tutti. Torniamo adesso sul verso fatidico:
Fata mihi,/ Caesar, tum erunt/ mea dulcia, quom tu <[m]> [“Caesar”, sott.] maxima Romanae pars erit historiae.

Tradotto in italiano, il verso sì suona:

“I fati, o Cesare, allora (tum) mi saranno dolci, quom tum (= eo tempore quom) nel momento stesso in cui “Cesare” (soggetto sottinteso) erit (sarà) la parte più importante della storia di Roma.
Il nomen di Cesare è enfatizzato a tal punto che è come se Gallo avesse scritto:
“Vuoi sapere, Cesare, quando i Fati mi saranno dolci?”.
“Quando ‘Cesare’ sarà (erit) la parte più importante della storia di Roma!”.

Una simile quanto baroccheggiante costruzione sintattica costituirebbe un’ulteriore dimostrazione del motivo per il quale Quintiliano definì lo stile di Gallus “durior”, certamente “più duro” di quello dei più illustri lirici et coetanei del suo tempo. Nel caso specifico in esame, dove cioè il “Cesare” citato da Gallo “è”, a mio avviso, Giulio Cesare, il barocchismo sintattico di Gallo va a “mimare” lo stile di Julius Caesar, il quale, come tutti sanno, menzionava se stesso “solo” alla terza persona singolare.

Concluderei sul “tum tum” di Gaius Cornelius Gallus con una annotazione di Giovanni Pascoli, il quale, infervorato da fortissima “voluntas” d’insegnare il latino alle giovani generazioni (ai “figliuoli”, diceva Lui) (10), soffermandosi su “tum tum” asseriva:
“Tum tum: brutto”.

Aggiungendo però subito dopo:

“Non piace nemmeno a me: però non è da giudicare sempre dal nostro il gusto dei latini. Ricordate ‘vertice celso’ di Virgilio [En. III, v. 679. N.d.r.]? Cece, o piuttosto keke. E diecine d’esempi potrei portare” (11).

Allora, “tum tum” sarà anche “brutto”; anzi, se lo diceva Pascoli, stenterei a credere che la cosa non sia vera: “però”, se Virgilio, che era “Virgilio”, amico carissimo di Gallo, si permetteva un esimio “keke” (cece), non vedo proprio le ragioni per negare a Gallo, il quale era considerato da Virgilio stesso una sorta di “reincarnazione” di Orfeo, un “tum tum”; anzi, meglio, un “ tum quom tu[m]”, dove, per la caduta della “m” finale dopo “quom”, assistiamo a una finezza stilistica come “tum … quom tu”.

Anche “tum … quom tu[m]” parrebbe bruttino, però è sempre meglio di “tum tum”, che, agli occhi di un Pascoli, che aveva vinto non saprei quante medaglie ai concorsi di poesia latina ad Amsterdam, appariva decisamente “brutto”.

 

 

Note

1) Su tale convincimento mi sono espresso nel cap. “C. Cornelius Gallus tra ‘due Cesari’”, in C. Cornelius Gallus tra “due Cesari” e le ‘Σειρηνες’ di Epicuro, che si può vedere su Academia Edu, in special modo alle pp. 2-9.
2) Wilhelm Kroll, La sintassi scientifica nell’insegnamento del latino, Traduz. Di Felicita Portalupi, Giappichelli Editore, Torino, 1966, p. 82.
3) Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine : introduzione alla filologia romanza, Bologna, Pàtron, 1959, p. 202.
4) Cfr. Paolo Marzolo, Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, Padova, Coi Tipi del Seminario, 1863, Tomo III, pp. 152.
5) W. Sidney Allen, Vox Latina, Cambridge University Press, Cambridge, 1978 [II Ediz. I 1965], pp. 30-31.
6) Thomas Kerchever Arnold, A Practical Introduction to Latin Prose Composition, London, 1889, Part II, p. 200 nota.
7) Cfr. Particulae latinae orationis ab Horatio Tursellino collectae, Parmae, 1722, p. 250.
8) G. Garbugino, “Il libro delle ‘Historiae’ di Sallustio”, in Studi Noniani, 1978, p. 55.
9) Wilhelm Kroll, La sintassi scientifica …, cit., p. 82.
10) Giovanni Pascoli, “Prose”, in Giovanni Pascoli Opere, a cura di Cesare Federico Goffis, Milano, Rizzoli Editore, 1978, Vol. II, p. 624.
11) Ivi, p. 632.

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.

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