Le “Mal[e]fatte” perdute del Notaro Jacopo da Lentini

 

 

Jacopo da Lentini, ritenuto all’unisono dalla critica il “caposcuola” dei poeti Siciliani alla corte di Federico II, non sempre ci ha trasmesso dal profondo dei secoli un messaggio limpido e chiaro. Una crux intrigante (molto) riguarda alcuni versi d’una arcinota canzone (incipit: “Donna, eo languisco e non so qua· speranza …”) del Notaro,  sui quali ha accentrato la sua attenzione Alfredo Stussi in alcune pagine del suo “Nuovo avviamento” alla filologia italiana ([1]). Venendo dunque a indagare i versi del Notaro nell’Edizione critica datane nel 1979 da Roberto Antonelli, Stussi si sofferma sui seguenti:

45) Madonna, in voi nonn-aquistai gran preio

46) se non pur[e] lo peio:

47) e per ciò si c’om batte

48) […] in altrui fatte,

49) e s’egli ’n altro vince, in questo perde;

50) e ’n voi chi più ci pensa più ci sperde.

I versi, endecasillabi alternati a settenari, talora presentano qualche ipermetria, come per esempio il verso 46 che, anziché essere un settenario, risulta invece un senario. Il settenario è stato però felicemente ricomposto aggiungendo una “e” a “pur”, da leggersi “pur[e]”. Molto più ardua si presenta il problema nel verso 48, dove Roberto Antonelli, molto prudentemente, sottolinea Stussi (e a ragione), non ha colmato la lacuna, preferendo lasciare il testo tràdito così com’è, evitando spericolate operazioni chirurgiche. Bene ha fatto il professor Antonelli ad agire in siffatto modo, perché, a mio avviso, una soluzione incruenta c’è, e senza forzare in nessun modo il testo. Osserva infatti Stussi che la lacuna del verso 48 si potrebbe colmare qualora s’individuasse un bisillabo o meglio ancora un trisillabo terminante in vocale, “che farebbe sinalefe con l’iniziale di ‘in’”. Ora, per il senso complessivo dei versi 45-50 (che proporrò un po’ più avanti), ne uscirebbe che il trisillabo “perduto” coincide esattamente con il termine “malefatte”, azioni malvage e perfide.

“ ‘Male’ ‘Fatte’, scriveva Giovanni Gherardini, significa  cose ‘mal’ ‘fatte’. Errore. Anche si trova scritto ‘malefatte’ in un sol corpo e ‘malafatta’” ([2]). Il vocabolario della Crusca, a proposito di “malefatta”, chiosa che il termine è “lo stesso che ‘Malfatta’. Lat. Malefactum” ([3]). Allora, “malefatta” ha come suo sinonimo “malfatta” (pl. “malefatte” e “malfatte”).

La cosa è interessante, perché “malfatte”  risponde appieno ai requisiti richiesti da Stussi, trattandosi di un “trisillabo in vocale che farebbe sinalefe con l’iniziale di ‘in’”. Tra l’altro si rileva che “malefatta[e]” e “malfatta[e]” è termine giuridico che appare a una data altissima nel territorio “romanzo”. “L’ Appendix Probi, scriveva alla fine dell’Ottocento Gustave Rydberg, déclare qu’il faut dire auctor non autor, auctoritas non autoritas etc. Néanmoins nous trovons ce changement définitivament accompli dans la langue des 6e et 7e siècles […] A titre d’examples, quelques rimes dans les Form. Baluz, XI ([4]): malefacta: acta (=malefatta, atta), transactus: adaptum (transatto, adatto)” ([5]). L’antichità del termine, nonché il fatto che il Notaro era, appunto, un notaio, ci fa presumere che Jacopo da Lentini fosse un assiduo frequentatore di svariate “malefatte” o “malfatte”, probabile traduzione del provenzale “malafaita”: “sing. femm. ‘Méfait’ ([6]).

La  fusione ([7]) della “e” di “te” con la “i” di  “in” che segue dà perciò un settenario senza ipermetria alcuna:

 

<mal|fat|te>[i]n| al|trui| fat|te

1    2           3        4     5     6    7

Quanto al senso complessivo dei versi 45-50, proporrei il seguente:

“Madonna, giammai riscossi gran pregio presso di Voi: anzi, con le mie insistenze, credo d’aver peggiorato le cose.  E perciò, “se un uomo” (se qualcuno) [  si c’om ] ([8]) batte ([9]), cioè “rampogna” aspramente le “malfatte” (perfidie) perpetrate  da qualcuno nei confronti di altri (le malfatte “in altrui fatte”); anche se costui sembra uscirne vincitore (per aver redarguito il perfido “in altrui”), in realtà, “in questo” (ossia nel rimproverarlo), ne esce “perdente” (perché probabilmente a poco a poco si rende conto che le “speranze” di convincere il “perfido” a cambiare comportamento sono nulle). L’ipotesi che  il verbo “perdere” si riferisca al concetto di “perdere ogni speranza” è suffragata dal fatto che tutta la canzone del Notaro “gira” intorno all’idea di “speranze vanificate”. Infatti, il “finale” conferma la sfiducia già espressa dal Notaro nei versi iniziali, dove asserisce che, giorno dopo giorno, si sente svuotato di forze (eo languisco) perché aveva perduto ogni fiducia (disfidi)  nella “speranza” di conquistare la Donna:

“Donna, eo languisco e no so qua· speranza

Mi dà fidanza, ch’io non mi disfidi”.

Si tratta, a ben vedere, d’una situazione molto “dantesca”, nel senso che anche Dante, a un certo punto, si lamentò d’aver perso “la speranza dell’altezza”, e per sempre (“Ch’io perdei la speranza dell’altezza” (Inf., I, 54).

Tornando al Notaro che “languisce”:

“La mia situazione nei Vostri confronti, conclude, è la stessa di quel tale che ha perso la speranza di poter convincere il perfido autore di ‘malfatte’ ‘in altrui’”:

“Chi più vi pensa, più si sente ‘sperduto’ e quasi  venir meno e morire ” (sperde): “Sperdere: in significato neutro e neutro passivo vale mancare, venir meno. Lat. Deficere, perire. Rinaldo d’Aquino:

‘Morrò pur desiando, / Che lo mio core a me medesmo sperde’ ([10]).

A dire il vero, non sempre il Notaro fu così pessimista, perché, in altra canzone, cantava di non aver perso proprio del tutto la “speranza”, aspettandosi, anzi, “eccezionale compenso” ovvero guiderdon dalla “donna”:

Guiderdone aspetto avere

Da voi, donna, cui servire

Non m’è noia.

Ancorché mi siate altera,

sempre spero avere intera

d’amor gioia.

Un po’ come Berta, “che quinci spera, e quindi pave”, diceva beffardo Merlin Cocai ([11]).

 

 

Note

 

  1. Alfredo Stussi, Nuovo avviamento agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 162-165.
  2. Giovanni Gherardini, Supplimento a’ vocabolarj italiani, Milano, 1854, Vol. III, p. 48.
  3. Vocabolario della Crusca, Venezia, 1734, Vol. I, p. 718.
  4. Si tratta delle Formulae Baluzianae maiores e minores del Baluzius: in genere formule legali, ma non solo (Per un’accurata ricognizione delle Formulae Baluzianae Oddone Stobbe, Storia delle origini del diritto germanico, Traduz. di E. Bollati, 1868, Vol. I, pp. 227-228 e sgg.
  5. Gustave Rydberg, Le developement de ‘facere’ dans les langues romanes, Paris, 1893, pp. 227-228 (tesi di dottorato).
  6. Francois  Reynouard, Lexique roman, ou, dictionnaire des troubadours, 1844, Vol. VI, Appendice, p. 351.
  7. Sulla “fusione” operata dalla sinalefe cfr. Costanzo Di Girolamo, “Metrica e poesia”, in Teoria e prassi della versificazione, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 15-20.
  8. Cfr. il verso ‘si c’om vo – n te per fat’ (= ‘la gente (qualcuno) ti prende per un ingenuo’) in Ruth Harvey and Linda Patterson, The Troubadour ‘Tensos’ and ‘Partimens’, Gallica, 2010, p. 354: Folquet de Lunel-Guiraut Riquier, v. 40.
  9. Il verbo corrisponde al lat. verberare: “ Battere, sferzare, bastonare, percuotere, rampognare, sgridare” (Cfr. Coelestino Durando, Lexicon Latino-italicum, Augustae Taurinorum, 1872, p. 577).
  10. Dizionario della lingua italiana, Bologna, 1824, Tomo VI. p. 422.
  11. Orlandino, cap. IV, XLVI, in Attilio Portioli, Le opere maccheroniche di Merlin Cocai, Mantova, 1889, Vol. III, p. 72.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.

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